Angelo Floramo, medievista, slavista, scrittore e chi più ne ha più ne metta, tra le tante attività artistiche che gli riescono particolarmente bene, ha anche una frizzante carriera d’attore che lo vede spesso calcare le scene dei teatri regionali con spettacoli di grandissimo interesse che richiamano folle di spettatori entusiasti e plaudenti.

Al teatro non sacrifica la sua intensa attività di conferenziere e divulgatore con un calendario di appuntamenti talmente fitto e intenso che a volte è davvero difficile fare una scelta tra le tante belle emozioni che sempre regala.

Il suo decennale sodalizio artistico con i musicisti del Fior delle Bolge, Federico Galvani (voce, fisarmonica), Luca Zuliani (contrabbasso), Alan Liberale (percussioni), fa scaturire, di tempo in tempo, lavori di rara intensità e meraviglia.

Tra i tanti è giocoforza scegliere uno dei più recenti: “Most: lo sguardo oltre il ponte disegnare intersezioni fuori dai bordi”, che si è avvalso anche dell’opera grafica del fumettista serbo Aleksandar Zograf dalla carriera prestigiosa di giornalista e autore di splendide Graphic novel.

Lo spettacolo è andato in scena la scorsa estate nell’ambito del Festival Estivo del Litorale e del CSS Teatro Contatto, al Teatro S.Giorgio di Udine.

L’ispirazione è venuta dal capolavoro della letteratura “Il ponte sulla Drina” del premio nobel Ivo Andrić. Il testo ha come protagonista il ponte di Mehmed Paša Sokolović a Višegrad in Bosnia ed Erzegovina che unisce Oriente e Occidente e tutte le storie che gli passano sotto e sopra e tra entrambe le rive. I suoi racconti sono tutti doppi come se le loro radici affondassero allo stesso tempo su entrambe le sponde del fiume.

Fin dalla sua costruzione ha sempre aleggiato un che di misterioso su quel manufatto. Leggenda vuole che i primi costruttori abbiano dovuto sopportare le ubbie delle “Vile”, capricciose divinità acquatiche, ma che, infine, siano intervenuti gli angeli di Allah che sempre stendono le ali per permettere il passaggio lungo i solchi scavati sulla terra dagli artigli del diavolo.

“Il popolo inventa facilmente le storie e le sparge in fretta, e la realtà si mescola stranamente in un inestricabile groviglio con le storie stesse. I contadini che di notte ascoltavano il guslar raccontavano che la Vila la quale distruggeva le opere eseguite, aveva fatto sapere ad Abidaga che non avrebbe smesso di arrecar danni finché non fossero stati murati nelle sue fondamenta due gemelli, fratello e sorella, di nome Stoja e Ostoja” (pag. 35).

Per Andrić (1892-1975) il ponte è simbolicamente il trait d’union tra tutti i popoli che hanno abitato i Balcani, con i loro contrasti, scambi, amori, guerre, baldorie, tragedie; il ponte è espressione di una cultura multipla che nonostante tutto riesce a unire radicali distanze e diversità. Nel 1960 il sogno degli Slavi del sud era ancora ben vivo e si traduceva nell’orgoglio della Repubblica Socialista federale di Jugoslavia, il cui inno cantava:

“Viva, viva l’anima slava: vivrai nei secoli! Niente è il fuoco della saetta, niente l’abisso dell’inferno. E persino se adesso sopra di noi tutto sconvolge la bufera che spacca le pietre e rompe gli alberi e fa tremare la terra noi rimaniamo in piedi, fermi come le alte gole del fiume”.

Andrić per sua fortuna non fece a tempo a vedere l’implosione di quel sogno e la fine di tutti quei ponti che ne avevano cucito le sponde.

A Višegrad tra il maggio e il giugno 1992 i paramilitari serbo bosniaci delle “Aquile bianche” comandati dai cugini Milan e Sredoje Lukič compirono atti di bestiale efferatezza contro la popolazione civile bosniaco mussulmana. Almeno tremila persone furono letteralmente macellate e arse vive, le acque della Drina, rosse di sangue, per mesi ne trasportarono i cadaveri sotto quell’antico ponte che aveva visto cinquecento anni di storia.

Floramo ha voluto costruire uno spettacolo come un largo fiume che raccoglie storie lungo il suo corso, vestendo i panni bisunti di un oste che racconta le nostalgie dei naufragi e l’allegria dei propri avventori. L’osteria è un luogo di rifugio che custodisce storie; ha immaginato che il teatro fosse una delle tante osterie fumose e vive che sorgevano nelle vicinanze del ponte proprio come racconta Andrić, ritrovo di passanti, viaggiatori, ubriaconi, poveracci e relitti umani di ogni tipo. L’osteria presso il ponte sulla Drina è piena, è lo stesso teatro pieno di gente diversa… “La baracca è venuta su insieme al ponte, siamo qui da 500 anni! Le persone non devono essere o restare rivali su opposte rive”.

Ovunque nella baracca sono sparse ogni sorta di bottiglie: semi vuote, piene, intatte, stappate e via di seguito. Ognuna di esse contiene una storia affascinante, tragica, divertente o strana.

Tutte meritano di essere ascoltate e Floramo, oste della malora, come pochi le sa raccontare e stappare, accompagnato dalla musica suadente, ma anche evocativa e scura del Fiore delle Bolge. Ecco allora che si susseguono racconti con l’attore che fa del suo meglio per ammaliare; è un istrione e “in una stanza di tre muri tiene il pubblico con se, sull’orlo di un abisso oscuro, col mio trac e coi miei tic e la commedia brilla del fuoco sacro acceso in lui. E parla e piange e ride del personaggio che vive” così, tanto per parafrasare Aznavour.

Una storia racconta di Fatma, una promessa sposa amatissima che il giorno delle nozze, per non venire meno alla promessa fatta a se stessa, si getta nel fiume dall’alto del ponte. Le notti precedenti aveva fantasticato della vita e dell’amore come ogni giovanetta:

“A Velji Lug le notti sono calde e fresche. Le stelle sono basse e irrequiete, tutte connesse in un bianco splendore tremolante. In piedi vicino alla finestra, Fatma guarda la notte. In tutto il suo essere ha una tranquilla forza, diffusa e dolce e sente ogni parte del proprio corpo separatamente, come una fonte separata di energia e di gioia: le gambe, i fianchi, le braccia, il collo e specialmente il petto. I suoi seni, rigogliosi, duri e dritti, toccano coi capezzoli, la grata di legno della finestra. In questo punto ella sente che l’intera collina, con tutto quello che vi è sopra, la casa, gli edifici, i campi, respira, caldamente, profondamente, in modo uniforme, si solleva e si abbassa insieme col cielo luminoso e con lo spazio notturno”.

Floramo racconta anche di un’altra Fatma chiedendosi: “E’ mai possibile che la storia si debba giocare sempre sulla pelle delle donne?” e non c’è proprio più niente da ridere.

La ragazza è una sopravvissuta (si fa per dire) del massacro di Srebrenica del luglio 1995 con migliaia di morti. Il punto di vista è quello di uno psichiatra che l’ha avuta in cura anni dopo:

“ Quando ho preso in cura Fatma ho subito pensato che non ne sarebbe uscita mai più. Aveva sedici anni…l’avevano violentata, seviziata, massacrata di botte, di sputi, di sberle. Avevano usato di tutto. Perfino un manico di scopa. E un coltello, per le rifiniture. Era in crisi di astinenza per le droghe con cui l’avevano imbottita. Non riusciva nemmeno a parlare…Sedici anni. Il caso più difficile dell’intera mia carriera…Il percorso con Fatma è stato lunghissimo, pieno di ricadute. Era diventata anoressica. Voleva scomparire. Farsi invisibile…” Con grande fatica la ragazza riuscì a ristabilirsi e lo psichiatra volle finalmente domandarle: “Fatma, cosa ne pensi ora dei serbi? “Dottore tu pensi che io ti dica che sono tutti dei grandi figli di puttana per quello che hanno fatto a me e alle altre vero? Ma come potrei mai? Sai, quando sono arrivati, e hanno dato un coltello in mano a Mladen, il mio compagno di banco di liceo, lui si è messo tra me e loro, per difendermi. Ha solo avuto il tempo di dire: “Lasciatela stare, stronzi, Fatma è mia amica!”, prima che gli sparassero in faccia. Mladen era serbo ed è morto per me. E allora, caro dottore, non ci sono popoli figli di puttana. Ma figli di puttana in tutti i popoli…voi maschi avete una gran voglia di vincere le guerre…a noi donne, invece, è sempre toccato vincere la pace”.

Nel romanzo di Andrić c’è anche un riferimento al Friuli che Floramo sfrutta doverosamente. All’osteria di Zarija:

“Capita spesso anche Franc il friulano con la sua fisarmonica. E’ un uomo magro e fulvo, con un orecchino d’oro all’orecchio destro, falegname di professione, ma troppo amante della musica e del vino” , suonano con lui Sumbo lo zingaro “che già da una trentina d’anni accompagna col suo zufolo tutti i bagordi dei cittadini” e “succede spesso che capita anche un guslar, solitamente un montenegrino, magro come un asceta, miseramente vestito ma dal portamento eretto e dallo sguardo luminoso, morto di fame e vergognoso, altero e costretto all’elemosina”.

Questi tre artisti girovaghi, con tutto il rispetto, assomigliano ai tre di Fior delle Bolge che tessono i paesaggi sonori per Angelo Floramo, scavando negli angoli più riposti della memoria e sotto i tavoli dell’osteria dove vagano i sogni degli avvinazzati.

L’accompagnamento musicale sognante e perfettamente a tema con la nostalgia con il solo rullante appena sfiorato dalle spazzole, il ritmo di valzer del contrabbasso e i sospiri della fisarmonica.

Lo spettacolo contiene molte altre storie che cuciono le esistenze della frontiera tra guerre, scorpacciate del meraviglioso cibo bosniaco il cui più prezioso ingrediente è l’Amore di chi lo prepara; grandi bevute di Rakija a 70 gradi, vera essenza dei Balcani; amori “devoti e intensi”, donne bellissime e appassionate; “suonatori zingari ribelli e danzatori bulgari a piedi nudi sui bracieri ardenti” come diceva Battiato e tanto altro che Floramo ha raccolto anche nella sua recente meravigliosa “Breve storia sentimentale dei Balcani”.

Anche dopo che si è fatta l’ora di chiusura, l’oste Floramo si ostina a non chiudere la propria osteria del ponte, mugugnando che, in fondo, è meglio starsene lì dentro accanto alla stufa bevendo ancora qualcosa perché: “L’orrenda umanità che abbaia là fuori, non è un temporale, è la guerra che ancora una volta si addensa ad Oriente. Lasciamo chiusa l’ultima bottiglia che è quella della guerra, è sempre una nostra scelta aprirla o no”.

Mentre scrosciano gli applausi di quell’osteria-teatro, tornano in mente alcuni passi dell’opera di Andrić, su un ostessa molto capace che aveva il proprio albergo proprio nei pressi del ponte di Višegrad, ne conosciamo tutti una così e ci piace bere alla sua salute:

“E Lotika accompagnava coloro che avevano bevuto troppo o avevano perduto tutto, e aspettava altri avventori, ancora non ubriachi, assetati di bevande e di giuoco…Ella era sempre al suo posto (o almeno così sembrava), a disposizione di tutti, gentile con chiunque, sempre eguale ed egualmente ardita e disinvolta. Robusta, pienotta, con la pelle brunastra, i capelli neri e gli occhi accesi, aveva un suo modo estremamente disinvolto di trattare coi clienti che, se lasciavano molto denaro nel locale, erano spesso fuori di sé per le bevande trangugiate, litigiosi e insolenti. A tutti loro Lotika parlava con dolcezza e coraggio, spiritosa e recisa, con parole che lusingavano o sapevano far tornare la calma…Ella offriva loro tutto, prometteva molto e dava poco e, per meglio dire, niente, perché le loro brame erano di tal natura da essere assolutamente insaziabili, e, alla fine dovevano accontentarsi di poco”.

Flaviano Bosco / instArt 2025 ©