Mentre il discutibile pastiche melodrammatico Midnight Swan di Uchida Eiji ha già vinto la competizione del feff 23, continuiamo ad esplorare le proposte in cartellone. Tra le gemme che sempre hanno brillato nella storia ventennale del Feff ci sono di certo le retrospettive che negli anni hanno scandagliato a fondo il cinema asiatico. In questa edizione, a causa dell’emergenza, un piccolo, esiguo spazio è stato riservato al cinema d’antan.
Le proposte in cartellone sono state, in ogni caso, come sempre interessanti. Ne vediamo di seguito due molto significative anche se del tutto eterogenee e senz’alcun nesso apparente. Il festival ha sempre avuto un occhio di riguardo soprattutto per il cinema popolare, naturalmente asiatico, cercando di far spaziare lo sguardo su un orizzonte più ampio possibile.
Proponendo, in qualche caso, pellicole fra loro del tutto incongruenti, appartenenti a culture fra loro a volte inconciliabili che però qualcosa in comune ce l’hanno sempre ed è il linguaggio e la magia del cinema. Quella forma di racconto è davvero universale anche se ha stili e significati molto diversi tra loro; l’alchimia è però la medesima a qualunque latitudine. Da più di cento anni le immagini in movimento ci stregano e ci ammaliano anche se, in fondo, non le capiamo; c’è qualcosa che ci spinge a guardare comunque e qualche volta anche a vedere.
Suddenly in Dark Night di Go Yeong-Nam (Corea del Sud 1981, 100’ min)
Horror d’annata coreano e piccolo cult tra gli appassionati del genere che inizia con immagini filtrate in effetto caleidoscopio e musica alla Black Sabbath.
La trama, a tratti sconclusionata, racconta di un entomologo cacciatore di farfalle che ritorna a casa dalla moglie e dalla figlioletta con la sua Renault 4 bianca, e che, oltre alle preziose farfalle catturate tra le quali la farfalla dragone dagli occhi di rondine, porta con se anche una nuova governante.
E’ un’orfana, figlia di una sciamana che si dice posseduta dallo spirito della nonna del dio del mare. La procace fanciulla stringe un feticcio che le ha donato la madre a scopo di protezione prima di perire nell’incendio della loro casa.
E’ una bambola con mannaia dall’aria truce che la ragazza si porta sempre dietro e a cui tiene moltissimo. La moglie dell’entomologo, dopo un iniziale entusiasmo, comincia ad essere turbata dalla presenza della giovanetta. Ne è morbosamente gelosa e forse anche intimamente attratta e affascinata. L’horror, a questo punto, si tinge di soft core con alcune scene oniriche di seduzione, spesso utilizzando in modo molto efficace il solito filtro caleidoscopio.
Niente di troppo esplicito, la ragazza si fa delle gran docce, insaponandosi per bene ovunque e la cinepresa indugia voyeristicamente dalla buco della serratura, come era tipico anche del cinema scollacciato della contemporanea commedia sexy all’italiana; tutto il mondo è paese.
Il film è raffrontabile, per molti aspetti, con il genere “Spaghetti Thriller” o “Noir all’italiana”, da “Lo strano vizio della signora Wardh” di Sergio Martino a “Non si sevizia un paperino” di Lucio Fulci, ivi compresa la “Trilogia degli animali” di Dario Argento e tutto quello che ci sta in mezzo. Non deve stupire che le due cinematografie si somiglino così tanto, entrambe sono state influenzate pesantemente dall’immaginario americano e nel dopoguerra hanno subito la stessa nefasta omologazione culturale come i loro rispettivi paesi. Anche in Corea del sud si poteva e si può cantare: “Tu vuò fa l’americano” senza temere di essere smentiti.
Molto interessanti sono le riprese negli interni; la scenografia prevede un improbabile arredamento dai mobili laccati occidentali in contrasto con soprammobili asiatici, arazzi con cervi alle pareti, animali impagliati come i Psycho di Hitchcock, soprattutto la mangusta che sfida i due cobra che finiranno per animarsi, l’orrenda carta da parati, il Jim Beam e il cognac Martell in vetrina. Intriganti, nella loro surreale rozzezza, anche la sequenza al supermercato e quella con la moglie angosciata che cammina da sola su un’autostrada a 12 corsie che si perde all’orizzonte, tutte cose da “medico dei matti”.
A questo proposito, risulta singolarmente insistito nei dialoghi, segno che allora negli anni ‘80 il tema era ben presente nell’immaginario coreano, il riferimento alle cure psichiatriche cui la moglie sta per essere quasi costretta dal marito. Sembra che legalmente, questi possa farla sottoporre, con un certo arbitrio, ad una sorta di trattamento sanitario obbligatorio (TSO) tanto che lei, del tutto impotente, lo teme molto scongiurandolo più volte di non farlo.
La storia della moglie convinta che il marito voglia farla passare per pazza, non era certo nuova al cinema, da “Angoscia” di Cukor alle tematiche simili del cinema di Hitchcock, ma in questo caso è declinata all’orientale con una qualche seppur minima originalità.
La gelosia diventa talmente ossessiva che la moglie si convince che il marito la tradisca nottetempo sotto il suo tetto con la servetta. Architetta allora un diabolico piano per farla stramazzare al suolo da un’alta finestra e riesce dell’intento. Da quel momento in poi è ossessionata dal fatto che la bambola-feticcio voglia vendicarsi su di lei e impazzisce del tutto. In una notte di tregenda, sola in casa la donna cade preda dei propri demoni e rivede la ragazza in forma di spirito vendicatore che la vuole uccidere.
Davvero spiazzante e quasi indecifrabile l’ultima immagine con la donna seduta all’orientale completamente trasformata nella bambola assassina. E’ posseduta da quest’ultima? E’ diventata anche lei uno spirito della vendetta? Aveva davvero bisogno di uno psichiatra? Ne abbiamo bisogno anche noi dopo la visione di questa bizzarra e interessante pellicola?
Execution in Autumn di Lee Hsing (Taiwan 1972, 99’ min) Evidentemente ispirato alla letteratura occidentale e russa in particolare (Delitto e castigo di Dostoevskij e Gli ultimi giorni di un condannato a morte di Hugo), questo piccolo gioiellino del cinema di Taiwan ne rovescia completamente le prospettive, rileggendo tutto in chiave neo-confuciana, moralistica e retriva anche per la società conservatrice dell’epoca.
L’isola, dopo la crisi diplomatica del 1971, stava vivendo un periodo di confusione sociale e di fortissima militarizzazione con l’aiuto, sotto mentite spoglie, degli Stati Uniti (F-104, missili balistici intercontinentali, U2 ecc.). L’opinione pubblica veniva distratta ingigantendo le problematiche delle proteste giovanili. Si faceva credere che la vera minaccia ai valori democratici venisse dai ragazzi che, come in tutto il mondo in quegli anni, stentavano a sottomettersi alla cultura dominante che contestavano radicalmente a Taiwan come a Parigi, a San Francisco come a Milano. “I Hope I die Before I get old” cantavano gli Who in My Generation anche in quella lontana isola del Mar della Cina.
Non stupisce quindi, che, proprio in quegli anni, nei cinema di Taipei si potesse vedere un film in costume ambientato in una sorta di età dell’oro medievale nella quale la parola dell’Imperatore e degli anziani aveva ancora valore nei confronti delle intemperanze dei giovani scavezzacollo.
Nello specifico il protagonista di “Esecuzione in autunno” non è, come ci si potrebbe aspettare, una vittima della brutalità del sistema giudiziario, una specie di Jean Valjean con gli occhi a mandorla, tutt’altro. E’, al contrario, un giovane rissoso, irascibile e violento, cresciuto arrogante perché, così si spiega nel film, la nonna cui era stato affidato è stata troppo permissiva e non lo ha picchiato a dovere quando era il momento, non insegnandogli così la differenza tra bene e male.
Il carcere duro e la pena di morte sono la giusta condanna per le sue malefatte causate soprattutto dalla sua cattiva educazione/formazione. Il protagonista in principio non riesce a farsene una ragione e continua ad essere un ribelle anche di fronte alla pena capitale. A fargli accettare il terribile castigo sarà il sacrificio di un’orfana cresciuta insieme a lui e costretta a sposarlo nel braccio della morte per dare continuità alla casata rimasta senza eredi.
Entriamo un po’ più in profondità nella trama. Le esecuzioni allora, per ordine imperiale, dovevano avere luogo in autunno per non turbare il succedersi delle stagioni e rispettare i cicli naturali. E’ in autunno che si tagliano i rami secchi. Un poeta diceva “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie” riferendosi ai soldati in trincea che scontavano vivendo la condanna a morte del fronte.
Non è allegro per niente il film di Lee Hsing e non vuole esserlo. Nelle prime sequenze, dopo due decapitazioni estemporanee, vediamo il protagonista scappare ansante in mezzo alla boscaglia autunnale; è inseguito dai propri carcerieri che naturalmente lo riacciuffano e lo aggiogano letteralmente ad una macina per la farina come un somaro.
Ha assassinato tre persone ed è in attesa di processo. Frequentava clandestinamente una giovane che è rimasta incinta, non volendo riconoscere il frutto del peccato, perché crede si tratti di un ricatto, finisce per passare a fil di spada i due cugini della puerpera, per poi farla finita anche con lei. Nei dialoghi un avvocato dice: “Non era tua moglie, non ti doveva alcuna lealtà, ti aveva solo ricattato” come dire che non aveva alcun pretesto per ucciderla e farla franca come avrebbe avuto un marito. Con la sua violenza e mancanza di rispetto verso l’autorità, anche durante il processo per il triplice omicidio, peggiora la propria situazione. Il messaggio che passa è che a valere non è tanto il rispetto per la vita umana ma quello verso le istituzioni.
E’ a questo che, infine, viene rieducato in carcere; attraverso le torture, la paura della morte e la preoccupazione per la propria discendenza. Quello che lo piega è il senso di colpa verso la società, non c’è nessuna redenzione personale o presa di coscienza.
Il vecchio carceriere, da violento che era, diventa una figura paterna proprio perché lo picchia a dovere pentendosi di non aver fatto lo stesso con il proprio figlio scavezzacollo tanti anni prima. Una deprecabile metafora della vita familiare. Si sostiene che un buon padre deve essere come un carceriere severo ma anche compassionevole e il figlio come un prigioniero giudizioso che accetta di buon grado i castighi che gli sono sempre giustamente inflitti.
Nel film è esclusa qualunque critica sociale ed è chiaro che il ricorso all’ambientazione in costume, in un’età diversa dalla contemporanea, nella quale i doveri etici e le istanze morali erano rispettate almeno all’apparenza, non fa che avvalorare e rendere ancora più oscurantista la visione del regista che, evidentemente, come abbiamo detto, si riferisce con risentimento e acrimonia alla gioventù scapestrata del proprio tempo. Negli stessi anni, in altro contesto, Jim Morrison cantava: “Father, yes son, I want to kill you. Mother, I want to…” ma questa si sa è la Fine, This is the End.
Assassins di Ryan White (Usa 2020, 104’ min). Un pregevole documentario che ricostruisce i tragici fatti dell’aeroporto internazionale di Kuala Lumpur del 13 febbraio 1971. Kim Jong-nam fratello maggiore del dittatore coreano Kim Jong-un e, in teoria, suo rivale al potere supremo in Nord Corea venne assassinato da due donne, una delle quali gli strofinò sulla faccia un unguento con un pericoloso agente nervino (VX) cento volte più letale del Sarin, la sostanza più pericolosa mai creata in laboratorio. Il terribile veleno si presenta come un liquido incolore o con colorazione tendente al giallo paglierino, inodore e di consistenza oleosa. Quindi, si permetta l’ironia un po’ greve, è un’arma chimica di distruzione di massa “spalmabile”.
Il documentario molto ben fatto tecnicamente, confezionato per la compulsiva fruizione sulle piattaforme di streaming, sposa arbitrariamente la tesi della difesa delle due ragazze convinte, secondo gli avvocati, di stare partecipando ad un programma Prank show (Candid Camera) su You Tube.
Un format di sedicente inchiesta giornalistica che critica moralisticamente un altro contenitore di pseudo informazione e intrattenimento, in una crasi tipica del mondo della comunicazione contemporanea che non fa altro che parlarsi ipocritamente addosso.
Secondo questa versione, i perfidi sicari Nord Coreani, agli ordini del fratello dittatore, le avrebbero circuite con la lusinga della notorietà social fino al punto di fare loro commettere il tragico inconsapevole omicidio.
Il racconto, tra immagini reali e ricostruzioni giornalistiche dall’agile ritmo televisivo, fila troppo liscio perfino per sembrare vero. Non si avanza mai il minimo dubbio sulla tesi prefissata che si vuole sostenere: Corea del Nord = inferno, Kim Jong-un = diavolo.
Il plot è semplicemente la solita storia strappalacrime di due povere ragazze della profonda poverissima campagna asiatica che sognano le mille luci della città, che finiscono a fare le prostitute per poi essere ingaggiate dai diabolici agenti segreti stranieri. Dopo l’arresto i processi e il carcere se ne ritornano al paesello sul viale del tramonto. E tanti saluti!
© Flaviano Bosco per instArt