Tra i tratti distintivi del cinema orientale in generale c’è la predilezione per un genere action (Heroic Bloodshed) che per noi abituati ai polpettoni americani appare sempre intrigante. E’ vero che l’epoca d’oro della Wave di Hong Kong (Johnnie To, Tsui Hark, Ringo Lam, John Woo, ecc.) che serviva da modello per tutti, ha esaurito da tempo la propria forza propulsiva, ma è anche vero che esistono degli ottimi prodotti in grado di tener incollati gli spettatori allo schermo garantendo forti scariche di adrenalina.
I film che seguono nella loro eterogeneità custodiscono ognuno il segreto di un sano divertimento cinematografico. Certo sono pellicole fracassone, tutte esplosioni, sparatorie e coltellate nel buio, inseguimenti, corse a perdi fiato, eroi che si sacrificano, cattivi che nemmeno Satana, ma ancora conservano il segreto e la flagranza di un cinema che non deve essere per forza educativo e pedagogico, che non si prende troppo sul serio e che sa ancora ridere di se stesso e sa farlo bene.
Time di Ricky Ko (Hong Kong 2021, 99’ min) Dove sono finiti gli eroi che negli anni ‘80 e ‘90 del Novecento imperversavano nei film di Hong Kong? Dove sono finiti quei criminali ferocissimi e infallibili che a colpi di arti marziali e revolverate risolvevano ogni situazione? Semplice, sono diventati vecchi come gli attori che magistralmente li interpretavano. Vivono di ricordi e di espedienti, dimenticati in un mondo che non riconoscono e che non gli appartiene. Sono degli anziani emarginati cui nessuno bada e che vogliamo solo dimenticare.
Il regista dichiaratamente ha voluto richiamare l’attenzione su una delle categorie dimenticate dalla nostra frenetica contemporaneità nella quale si deve sempre essere per forza giovani e performanti. In questo folle contesto, gli esseri umani, come i prodotti tecnologici diventano rapidamente obsoleti, le persone, come le merci deperibili, sembrano avere una scadenza stampata sull’etichetta, da consumarsi preferibilmente entro la data indicata, altrimenti vengono gettate.
Quella di Ricky Ko è una commedia divertente a tinte piuttosto scure o quanto meno screziate. Si parte con una sequenza “tarantiniana” con pellicola sgranata, colori saturi e ambientazione exploitation anni ‘70, nella quale un terzetto di sicari esperti in arti marziali fa irruzione in un mercato coperto alla ricerca della propria vittima ed è un putiferio di pugni, calci volanti e coltellate.
Il trio è formato dalla bella pericolosa di turno che fa roteare le sue micidiali catene, dallo smilzo dagli occhi di ghiaccio con le sue lame affilate e dal solito ciccione che tiene il motore dell’auto accesa pronto per la fuga dei suoi compari. Cinque minuti di pura action come ai bei tempi, con animazioni e onomatopee da fumettone con in sottofondo una colonna sonora incalzante.
Con un balzo temporale, nella sequenza successiva, ci ritroviamo nella contemporaneità. I tre si sono persi di vista da decenni e il tempo non è stato clemente con nessuno di loro. Lo smilzo è un cuoco fallito in un mondo di Fast food, la bella è diventata nonna e canta il liscio in un localino per anziani e l’intrepido driver è sempre più ciccione e cerca di restar giovane con le prostitute procurandosi miseramente dei principi d’infarto.
Decidono di riformare il terzetto e rimettersi in affari, specializzandosi in omicidi su commissione che in realtà sono suicidi assistiti ordinati dalle stesse vittime che non vogliono più vivere perché troppo vecchi o malati; diventano così gli “angeli (della morte) degli anziani”. Il tema è assolutamente macabro ma nel film la narrazione viene gestita con massima ironia e black humor, tanto che a volte vengono in mente i film di Aki Kaurismäki.
Fila tutto liscio fino a quando lo smilzo dal coltello facile non si trova davanti ad una sedicenne che, con un trucco, li ha ingaggiati per farla finita. Il moroso l’ha sedotta con la scusa di portarla ad un concerto dei BTS e l’ha abbandonata dopo che si è ritrovata incinta, per questo vuole morire.
I tre nonnetti si impegnano invece a riportarla sulla retta via e a garantire un futuro a lei e al piccolo. Tra combattimenti bizzarri, inseguimenti improbabili, citazioni farsesche del cinema action d’arti marziali e del noir, momenti teneri e gran risate, i nostri senescenti eroi riusciranno nella grande impresa e finiranno a far la vita che, in realtà, desideravano: quella dei nonni che si godono gli ultimi scorci di vita in serenità circondati dall’affetto dei propri cari, anche se uno di loro finisce volontariamente in galera. Gran ritmo e ottima recitazione fanno di questo film un gioiellino divertente e tutt’altro che scontato.
Deliver us from evil di Hong Won Chan (Corea del sud 2020, 108’ min) Non si ride proprio per niente in questo serratissimo thriller coreano che si avvale di un furioso montaggio e di splendide scene d’azione continue e concitate, senza un attimo di tregua con il supporto di una colonna sonora digital hardcore davvero indovinata.
Il film è freddo, glaciale e violento e racconta di un mondo altrettanto crudele nel quale sembra dominare il caos e la tenebra. Solo il sanguinoso sacrificio dell’eroe può concedere quel minimo di speranza che ci permette di andare avanti all’interno di una catastrofe esistenziale senza via di scampo.
Un ex agente dei servizi segreti coreani, dopo che il governo ha smantellato il suo reparto d’appartenenza, è diventato il miglior sicario sulla piazza. Dopo tanto sangue, vuole mettere “la testa al solito posto” come diceva Totò, accasarsi e fare il maritino tranquillo, perciò accetta il suo ultimo omicidio. Per continuare con i modi di dire, “Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi”, il killer uccide uno Yakuza nippo-coreano che ha come fratello di sangue Rei detto il macellaio, di nome e di fatto perché letteralmente appende ad un gancio, squarta e fa a pezzi le proprie vittime come maiali al mattatoio.
Rei scatena una ferocissima caccia all’uomo nei confronti dell’ex agente che ha un’altra brutta gatta da pelare. La compagna con la quale aveva intenzione di mettere su famiglia viene massacrata a causa sua e per di più questo gli fa scoprire che la donna aveva già una figlioletta che è stata rapita a Bangkok da alcuni trafficanti d’organi. Vola in Thailandia inseguito dal macellaio e si mette sulle tracce della piccola grazie alla mediazione ed al fiuto di una trans molto sopra le righe ma dal grande cuore, unico personaggio “emozionale” della pellicola.
Dopo rocambolesche avventure e un finale “esplosivo” la piccola sarà salvata e potrà crescere felice con la sua nuova “mamma”. Le scene forsennate d’azione permettono comunque al regista di mostrare realtà sociali ignobili come quella del turismo sessuale e del commercio d’organi. Senza alcuna retorica ci viene mostrato uno degli abissi dell’abiezione umana davanti al quale teniamo gli occhi chiusi perché temiamo che “Voragine” guardi dentro di noi.
The Maid di Lee Thongkham (Thailand 2020, 102’min) “It’s very scary, quando ci penso mi viene ancora paura” è questo che dice alla psicoanalista la cameriera mentre parla della sua ultima esperienza lavorativa. Si riferisce al pupazzo a forma di scimmia della bambina che accudiva in una ricca villa. Il babbuino di pezza prendeva vita e la minacciava così come altre oscure presenze nella casa. Niente di particolare, quindi, un film “de paura” come tanti sulla casa infestata dai fantasmi? E invece no! A metà film capiamo che la storia raccontata fino allora è tutta una finzione e che la giovane cameriera sta mentendo spudoratamente come nelle classiche sedute freudiane. Da quel momento in poi sarà massacro!
The Maid è davvero una pellicola sbalorditiva dal punto di vista registico e tecnico, che colpisce duro e sa angosciare con le sue perversioni e i suoi laghi di sangue. Nella prima parte propone un’estetica da telenovela con la ricca signora che fuma da un lungo bocchino, in guanti lunghi di pizzo e la giovane servetta ubbidiente. Ad un tratto si scopre che la signora con l’aiuto del marito adultero ha lasciato morire sepolta viva la cameriera precedente per “rubarle” la bambina. La nuova cameriera è la sorella della defunta che ha architettato un’orribile vendetta.
A colpi di coltello e di veleno stermina tutti quelli che sapevano e non hanno fatto niente ivi compresa la servitù. La scena finale con l’avvelenamento degli intervenuti al ricevimento per il compleanno della Signora (Dress code white) è un’orgia di sangue parossistica (Blood Bath) con la piccola cameriera che si accanisce con la sua lama sui corpi degli intossicati. Il plot ricorda vagamente la prima stagione della serie tv “American Horror Story” e non è certo troppo originale ma sa sorprendere gli amanti del genere con perfino un rimando alla scena di tortura del classico Reservoir Dogs di Tarantino. Ad un certo punto la giovane servetta, che sembra un’innocente bambina ma è invece una pazza furiosa, per non macchiare di sangue la propria immacolata uniforme con tanto di grembiulino, indossa una mantellina di plastica trasparente con cappuccio che regolarmente imbratta, vera e propria “cappuccetto rosso sangue Thailandese”. Ai più oziosi tra gli spettatori, forse per semplice associazione di idee, sono venuti in mente alcuni passaggi dal dramma Le serve di Jean Genet e perfino qualcosa da Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda, tra i quali questo:
“S’è trovata la signora Balducci…stesa a tera in un lago de sangue…con la gola tutta segata tutta tajata da ‘na parte, ma vedesse che tajo dottò…un tajo che manco il macellaro, bhè un orore, du occhi che guardaveno fisso fisso la credenza, la faccia stirata stirata bianca da parè un panno risciacquato come se avesse fatto una gran fatica a morì.”
Hand Rolled Cigarette di Chan Kin-long (Hong Kong 2020, 100’min) Senza ombra di dubbio uno dei temi portanti tra i film della rassegna udinese di quest’ultima edizione è stata l’identità declinata in varie modalità; da quella di genere, a quella psicologica, individuale, nazionale, sociale, politica e ancora molto altro.
Il lungometraggio dell’esordiente Chan Kin-long, in questo senso, è emblematico e scava in un contesto della società di Hong Kong piuttosto insolito. Come in tutte le grandi metropoli del mondo esistono i ghetti nei quali sono costretti a sopravvivere soprattutto gli immigrati da ogni parte del mondo ed i reietti che non appartengono alla buona società per i loro trascorsi. Il film inizia con una scena in flashback ambientata nel 1996 quando Hong Kong apparteneva ancora alla corona britannica. Una pattuglia del Military service corps inglese formato da giovani soldati di etnia cinese è impegnato in una ricognizione nei boschi. Veniamo così a sapere che con il prossimo ritorno della città alla Repubblica popolare cinese solo agli ufficiali più alti in grado sarà offerto il passaporto inglese, gli altri saranno congedati e dovranno rifarsi una vita. Sanno bene che tutti in città li considerano collaborazionisti dei colonizzatori inglese e li disprezzano. Per questo non sarà facile ma non hanno alternative. Al capo pattuglia che rolla continuamente a mano le sue sigarette che distribuisce in segno di amicizia viene in mente di fare una speculazione finanziaria coinvolgendo alcuni dei suoi sottoposti ma il progetto fallisce miseramente e un commilitone finisce per suicidarsi. L’amicizia del gruppo si spezza.
L’azione si sposta di 23 anni al 2019, il capo-pattuglia che non è riuscito ad integrarsi nella nuova realtà vive da emarginato trafficando in animali rari con le triadi, vive negli slums in mezzo a immigrati da ogni parte dell’Asia che sopravvivono nell’illegalità e non gliene va dritta una. Coinvolto in una doppia truffa ai danni di spietati mafiosi, sacrificherà la propria vita per tirare fuori dai guai un immigrato del sud est asiatico ancora più sfortunato di lui.
Nel finale conciliatorio si scopre che l’eroe morto, con il denaro sottratto ai mafiosi, ha ripianato l’enorme debito lasciato dal proprio commilitone suicida tanti anni prima riabilitandone la memoria. E’ vero, la sceneggiatura a volte appare un po’ farraginosa ma il film regala buone scariche di adrenalina soprattutto per le scene action e di combattimento molto crude e realistiche ma soprattutto restituisce l’immagine di una Hong Kong multietnica, multi culturale, contaminata, in continuo divenire nel bene e nel male. Il futuro è adesso!
Endgame di Rao Xiaozhi (China 2021, 119’min) Concludiamo questa rassegna di film con un film gioioso e gaio quanto intelligente che magnifica la grande versatilità di una delle più grandi super-star del cinema cinese degli ultimi tre decenni Andy Lau, presente al Feff 23 con ben tre pellicole. La sua grandezza sta nel fatto che, oltre a saper impersonare i personaggi più diversi, dagli intrepidi poliziotti, ai criminali, agli eroi in costume ecc. sa anche prendersi in giro e sdrammatizzare la sua icona di idolo cinematografico. Soprattutto adesso che non è più un giovanotto, pur prestandosi ancora ad interpretare improbabili eroi in altrettanto implausibili blockbuster, si riserva delle parti anche in commedie divertenti e scanzonate come Endgame.
In una brillante commedia degli equivoci, di raffinatissima confezione, dalla fotografia sgargiante e dalle scenografie perfette, si mette in scena il fortuito scambio della vita tra due personaggi tra loro assolutamente opposti. Per la solita banale amnesia, un ricchissimo killer della mafia si troverà nei panni del più misero e inetto degli attori di Hong Kong, da qui mille calembour, fraintendimenti, capitomboli, rovesciamenti di prospettiva, citazioni cinefile, fino all’esilarante conclusione con tanto di fuori-scena ed easter eggs nei titoli di coda.
L’attore blasonato fa di se stesso una macchietta anche se poi, naturalmente, si riscatta perché anche nella parte più infima il suo talento viene riconosciuto ed acclamato, è un gioco narrativo antico come il teatro; amnesia, agnizione e poi nuovamente oblio sono sempre stati il motore propulsivo di ogni storia a memoria d’uomo ma, forse proprio per questo, funzionano sempre a dovere, affascinando e divertendo, a patto che questi elementi vengano utilizzati in modo adeguato. Senz’altro Andy Lau e il suo regista lo hanno saputo fare alla perfezione.
Tutto il film è giocato su un continuo rimando a Finale di Partita (Endgame) di Samuel Beckett; non c’è motivo di non sfruttare l’occasione per concludere degnamente questa serie di articoli sul Feff 23 senza dimenticare il motto, Moving Forward, che è come un arrivederci alla prossima edizione.
Per amor di contraddizione concludiamo il nostro finale dall’inizio di Endgame:
“Finita, è finita, sta per finire, sta forse per finire…I chicchi si aggiungono ai chicchi a uno a uno, e un giorno, all’improvviso, c’è il mucchio, un piccolo mucchio, l’impossibile mucchio…Non possono più punirmi…Me ne vado nella mia cucina, tre metri per tre metri, ad aspettare che mi faccia un fischio…Sono dimensioni ideali, mi appoggerò alla tavola, guarderò il muro, aspettando che mi faccia un fischio.”
© Flaviano Bosco per instArt