Continuiamo il nostro viaggio musicale di villa in villa fino ad arrivare in quel di Muzzana del Turgnano
Quello che abbiamo trovato è una pozzanghera etnica, (letteralmente Etno-ploč nella quale inzaccherarci felici di musiche e culture balcaniche, mediterranee, afroamericane e chi più ne ha più ne metta, in una ironica, gioiosa, allegra, ma non superficiale, riflessione per sax, fisarmonica e tromba sulla realtà del confine e sul suo attraversamento.
Sua Divina Grazia Angelo Floramo, chierico vagante, anarchico e simposiarca delle culture della Piccola Patria e oltre, sostiene che esiste una sostanziale differenza tra il concetto di confine e quello di frontiera. Il primo, nel caso peggiore, è un’approssimazione geografica decisa a tavolino per motivi politici, burocratici, pseudo scientifici o più semplicemente per comodità. Alcuni, per separare una parte dall’altra per un’infinità di biechi motivi, di solito in modo arbitrario, più o meno cruento e scellerato, decidono di tracciare una linea dentro la quale si rinchiudono facendo finta di riconoscersi in quella prigione mentale nella quale si sono autoesiliati.
La frontiera è, invece, un luogo aperto dalle dimensioni sempre indefinibili che fa da cerniera tra mondi diversi e permette loro di compenetrarsi, fondersi, contaminarsi. E’ una zona che non appartiene a nessuno ed è di tutti; è il lento sfumare di un colore in un altro, il mescolarsi della pioggia che diventa torrente o di un affluente che si getta in un fiume. Nella frontiera tutti possono sentirsi diversi e riconoscersi l’uno nell’altro, imparando a convivere e a scambiarsi l’esperienza del vivere. E’ uno spazio fisico ma soprattutto sentimentale, spesso lo si lascia quasi malincuore, lo si fa lentamente, ci si vorrebbe trattenere il più a lungo possibile confondendo la propria ombra con quella degli altri viandanti.
Il confine, invece, si teme, si immagina chiuso, sbarrato, invalicabile. Lo si attraversa in fretta, giusto il tempo necessario, sperando di non avere delle noie con le guardie, oppure lo si guarda da lontano con rabbia perché è la fonte delle nostre paranoie, il limite che abbiamo imposto stoltamente al nostro orizzonte, alla fantasia, alla speranza. A volte, al contrario, il confine lo subiamo come un abuso, una cortina che ci separa da ciò che riteniamo giustamente un nostro diritto inalienabile quello alla libertà di movimento e alla scoperta di nuove prospettive esistenziali.
Sembrava che non ci fosse più bisogno di ripetere questi concetti, lo si è fatto fino alla nausea, anche gli Etnoploč ci lavorano da molti anni, certe cose ormai dovrebbero essere chiare a tutti, soprattutto in un’area come la nostra del nord est italiano che i confini li ha pagati sempre a prezzo del sangue di milioni di fratelli costretti ad assassinarsi tra loro per i motivi più abietti e rapinosi.
E, invece, non è così, purtroppo, qualcuno ignora completamente la nostra storia, oppure fa finta perché gli conviene, tanto da pensare a ricostruire quella famigerata cortina di ferro che tanti lutti ha causato.
Per questo serate-concerto come quelle di Muzzana del Turgnano non sono solo piacevoli e divertenti ma sono nuovamente utili e necessarie perché, evidentemente, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire e allora bisogna suonargliele.
Proprio questo hanno fatto Ipavec, Purich e Špacapan con la loro musica che ha proiettato i numerosi spettatori sulle Strade dell’est d’immensi orizzonti che come dice Battiato Dicono storie di principesse chiuse in castelli per troppa bellezza. Fiori di Loto giardini stupendi e Leningrado oggi…strade dell’est.
C’è davvero stato spazio per tutto questo e molto altro tra le note del terzetto, ma sono percorsi che abbiamo scoperto essere già dentro di noi, sangue del nostro sangue e cicatrici nella nostra carne, anche se qualcuno non lo vuole ammettere e si appresta ad infliggerne di nuove.
Spesso purtroppo ci comportiamo come tanti topolini che, irretiti dal flauto del loro maligno pifferaio lo seguono ciechi incuranti del baratro che li inghiottirà. Certo non è stato questo il caso.
Il concerto si è aperto con un brano d’ispirazione Klezmer, la musica dell’erranza per definizione, in cui si è fatto notare l’ottimo scambio di battute tra il sax e la tromba con la fisarmonica a garantire un sottofondo suadente e ritmico
Sono seguiti due brani nei quali il paesaggio sonoro era quello dell’Armenia e il mondo intero è sembrato subito un’allegra danza spensierata e leggera, come durante un matrimonio di campagna dei tempi andati con le spose con le spighe di grano tra i capelli. Soprattutto il secondo brano, C’era una volta un giardino segreto, ha fatto viaggiare la fantasia verso luoghi reconditi e segreti proprio come i verzieri cantati dalla poesia cortese.
Un uccello (mimato dalla tromba) raccontava una qualche sua antica storia, ne interveniva un altro per dire la propria versione (al suono del sax) e poi un altro ancora (tromba con sordina). Si apriva così un dialogo, gentile e garbato, tra le fronde degli alberi nel segreto di un giardino da cui il titolo del brano. Tutto quel cinquettare non disturbava affatto il giovane che, s’immaginava, steso all’ombra, con le mani dietro la testa e lo sguardo perso verso l’alto delle fronde, mentre pensava al suo amore lontano.
Attese è una composizione di Piero Purich il sassofonista che ha descritto come noi tutti passiamo la vita ad aspettare qualcosa che non si da mai. Nell’abile gioco tra il sax tenore e il flicorno di Matej Špacapan, l’orizzonte si è fatto più largo e lo sguardo è diventato pensoso.
Ognuno di noi cerca ostinatamente di scorgere qualcosa che ci appare molto distante verso quella linea che crediamo separare il cielo dal mare. Ma per quanto ci sforziamo non riusciamo a distinguere alcunchè. Quando poi casualmente riusciamo a scrutare nel futuro con chiarezza, ci è già addosso e si chiama presente; in un attimo se n’è già andato, ci è passa davanti senza curarsi di noi, che non possiamo fare assolutamente niente per arrestarlo.
Una meravigliosa favola ha fatto da sfondo ad uno dei momenti più riusciti ed immaginifici del concerto. L’origine del popolo sardo si perde nella notte dei tempi ed è raccontata da una strana leggenda. Gli abitatori dell’isola sarebbero i discendenti di quelli provenienti da una terra antichissima e magica cui la fata Thule aveva insegnato a camminare sul fondo del mare per raggiungere la terra promessa. Camminando pesantemente tra le rocce dei fondali come tanti palombari quegli antichi uomini potevano vedere tutto ma non respirare. La fisarmonica di Aleksander Ipavec ha esaltato l’elemento acqueo della storia mentre il sax raccontava la propria passeggiata in fondo al mare e la tromba precisava e ribadiva. Alla fine dopo essere stato trasportato nel mare dalla musica e dopo tanto cammino anche il pubblico è emerso sulla nuova terra contento dello strano percorso intrapreso.
In Cross the Borders il trio ha ricordato di quando cadde il confine italo-sloveno e si trovarono ad attraversare quella cosa che formalmente non c’era più a che, in realtà, era ed è ancora dentro la mente di ognuno di noi. Dobbiamo sforzarci di combattere il confine che c’è nella nostra testa.
Il soffiare rumorosamente nella tromba risultava così come il fastidioso ronzio di un moscone che tormenta una guardia di confine nella sua solitaria garitta. Un richiamo alla fisarmonica della fantastica In cerca di cibo di Trovesi Coscia ha subito fatto capire a tutti qual è una delle motivazioni principali e il punto di partenza di ogni viaggio di migrazione.
Il motivo ricorda che la musica con il suo incedere impetuoso e minaccioso può travolgere e distruggere ogni confine che però viene riedificato dalle chiacchiere maligne per poi cadere di nuovo in una cacofonia di suoni piuttosto spiacevole. I momenti rumoristici e free form pur essendo evocativi non sono sembrati sempre efficaci.
Guccini dice che gli americani ci hanno fregato con la lingua e noi stessi li abbiamo aiutati parecchio legando la nostra sensibilità alle loro vocali trascinate, biascicate e alle finali tronche. Tutto molto cool anche se nelle nostre lingue e dialetti il termine suona quasi dispregiativo. Ma cosa sarebbe successo se il blues fosse nato in Bosnia? In Balkan blues il Trio ha cercato di spiegarlo in un travolgente pastiche sonoro di melodie e ritmi tra il Delta del Mississipi e il lento scorrere del Danubio. Naturalmente l’intento dei tre era paradossale, ma con tutto il rispetto, meno male che non è andata come si sono voluti immaginare, sarebbe stata tutta un’altra storia, avremmo perso due meravigliose tradizioni musicali che si possono felicemente incontrare oggi proprio perché sono così diverse e distanti.
Aria e Terra sono due movimenti di una suite sugli elementi composta dal fisarmonicista con i quali ci si è avviati al finale del concerto. Nella prima parte l’insistenza del soffiato rumoristico negli strumenti alla lunga è sembrato stucchevole pur non essendo di cattivo gusto. La terra, invece, è stata descritta con la baldanza e l’allegria di una banda zingara tutto svolazzi e ghirlande di fiori.
Basta poco per essere felici: una bella giornata di sole, la corrente di un ruscello, uno spirito luminoso e franco che pensi ad unire le persone e non a dividerle con filo spinato e un bicchiere di vino fresco che, da quando esiste il mondo, è sempre servito a spianare le divergenze e a sanare i conflitti molto meglio delle baionette e delle guardie di frontiera.
Lo ha capito il pubblico che ha chiesto a gran voce un bis, generosamente concesso. Sono subito risuonate le bellissime note di No potho Reposare (Non posso riposare) del compianto Andrea Parodi dei Tazenda. Negli ultimi versi di quella canzone gli unici confini che gli uomini dovrebbero conoscere:
La bellezza dei tramonti, la prima alba, l’aurora, il sole splendente, i profumi, i canti della primavera, gli zefiri, la brezza che fa splendere il mare. L’azzurro del cielo, le cose migliori ti dono, mio angelo.