Con la solita Lieve, adrenalinica, sulfurea violenza sonora che li caratterizza e sa sorprendere, sempre con la stessa meraviglia di un pugno in faccia, i Marlene Kuntz, trent’anni di dischi e di concerti senza una ruga sul cuore, hanno conquistato il pubblico del castello di Udine con un’esibizione memorabile.
All’interno della rassegna Udine Vola 2020, il gruppo, capitanato dal poeta Cristiano Godano, ha voluto la prima tappa del breve tour di ripartenza dopo lo stop dovuto al morbo intitolato: Andrà tutto bene? Electroacustic show. È l’interrogativo che ci ha tormentato in tutti questi mesi e che aveva proprio bisogno di una risposta in musica all’altezza della situazione.
Scrive Cristiano Godano storico leader della band:
“In conformità alle regole del distanziamento sociale, la scaletta del concerto proporrà canzoni tra l’acustico e l’elettrico adatte a un pubblico seduto, cercheremo di mitigare la parziale delusione con una intensità speciale alla Marlene”.
Giulio Gallo, fonico professionista con una solida e lunga esperienza, dal palco, legge con enfasi e partecipazione sentita, un comunicato che sensibilizza il pubblico sulla situazione critica di tanti lavoratori dello spettacolo. In questo periodo, molti di loro rischiano il posto di lavoro e la sussistenza economica per i tanti concerti saltati a causa del Covid e a causa di tutti quei criminali che se ne approfittano per ribassare i prezzi delle prestazioni riducendo i tecnici alla fame. I Marlene Kuntz dal palco si uniscono all’appello. Dice Godano: Magnifico questo posto qua, mi associo a quello che ha detto Giulio.
Si parte con Ti giro intorno da Il Vile (1996) il secondo album della band, una ballad piena di sensualità e furore, come l’attimo che precede l’intensità che sarà: “è come esaudire la gravità prendere posto nel vortice…” canta ambiguo e suadente Cristiano Godano più in forma che mai. Segue lo splendido La lira di Narciso, rimpianto liquido e fluido di qualcosa che non può più darsi: “Ed ora, qui, nessun profumo sa di te. Non ci sei più”. Comincia a farsi notare il tocco del polistrumentista Davide Arneodo (Perdurabo) che è stato davvero determinante nell’arricchire il suono della band regalando alla consueta ruvidezza una dimensione quasi infantile di follia e incoscienza sia con il violino dal trillo diabolico sia con le varie minimali percussioni sia con le tastiere. Continua la parte più introspettiva e riflessiva del concerto con L’abbraccio che racconta di un sogno d’amore che mai si realizzerà con uno stile allucinato e per l’appunto onirico : “Un giorno o l’altro, che sia un sogno non si sa, Ma se succede io ti rubo l’anima, io so che un sogno i testimoni non ce li ha, ma voglio essere ladro anche nella realtà”.
Catastrofe racconta di un dialogo con un poveraccio ridotto in mezzo alla strada e di quel sottile senso di colpa che si insinua dentro di noi che fingiamo di provare compassione pensando che basti l’empatia per avere la coscienza pulita. In realtà, non riusciamo comunque a fare niente per evitare che certe esistenze si perdano. Sostiene la ritmica il basso di Luca “Lagash” Saporiti che, come sempre, strappa accordi al buio e trasforma il semplice accompagnamento in una tensione sonora pulsante e madida, perfetta per l’erotica Sapore di miele, che esalta la carne e i suoi umori in un amplesso bagnato e torrido: Dalla tua pelle dentro alla mia bocca, quando torni a farti la mia faccia…Ancora e ancora finché lo vuoi. Dammi il tuo nettare, mia bella Venere che tornerò il tuo duro Satiro”. Non serve aggiungere altro, sesso e rock’n’roll sono un binomio che funziona sempre.
Ancora un’altra canzone d’amore che tradisce immediatamente le proprie influenze e ispirazioni la splendida Musa tra Cccp e Csi di Zamboni, Ferretti, Canali, Maroccolo che sono, naturalmente le radici dalle quali il gruppo ha attinto la sua linfa fin dall’inizio. Il brano “strega e rapisce” anche grazie al drumming solido e per certi versi “mimetico” di Luca Bergia. Il batterista sembra sempre starsene quasi in disparte, in questo e negli altri brani, ma risulta sempre determinante per la resa sonora complessiva, seguendo una tradizione che nel rock è più diffusa di quello che siamo abituati a pensare, vedi Charlie Watts nei Rolling Stones.
Graffiano il pubblico ancora brani dilatati e potenti come La tua giornata magnifica, Notte Schiele, lei, me, Fantasmi fino ad arrivare a Lieve, brano attraverso il quale una generazione intera ha conosciuto i Marlene Kuntz, solo però quando la sentirono cantare da Giovanni Lindo Ferretti che ne fece una cover inserita nell’album dal vivo dei CSI In quiete: “Forse, davvero, ci piace, si ci piace di più”.
Si chiude con una versione sparata e urticante di Io e Me, potente e straniante. La fine dell’inizio.
Il concerto ha provato, fuori di ogni ragionevole dubbio, che quello dei Marlene Kuntz è ancora un rock tellurico, strascicato, ruvido, ipnotico, abrasivo che fa sempre bene il suo sporco lavoro tra le chitarre e il sudore di una notte particolarmente afosa e con un umidità che tramortisce.
Una piacente quarantenne tra il pubblico all’approssimarsi del concerto dice al suo compagno che non sembra essere il marito ufficiale: “Sono emozionata” e poi via di abbracci, parole e limone per tutto il concerto prendendo respiro ogni tanto solo per canticchiare a tempo qualche strofa e per applaudire fino a spellarsi le mani.
E’ nella passione, un po’ stagionata, di quella bionda il senso del concerto della band piemontese. I Marlene Kuntz per nulla nostalgici continuano sulla loro strada lastricata di solida pietra che, a stare al concerto al Castello di Udine, sembra ancora piuttosto lunga. Pestano giù duro sugli strumenti come ai bei vecchi tempi andati che forse abbiamo ancora davanti su un palcoscenico essenziale animato da un impianto che spara su di loro e sul pubblico livide luci bianche e blu elettrico, che li fa apparire come degli spettri in una tenebra di luce; niente inutili coreografie o costumi di scena, solo una grandinata secca di canzoni con qualche breve introduzione di Godano a qualche brano particolarmente significativo.
Come quello dedicato a Osip Mandel’stam attraverso le parole d’amore della moglie (Osja, amore mio). Il cantante dice di aver composto la canzone dopo aver letto l’autobiografia della donna (Nadja Chazina, L’epoca e i lupi) che per salvare le opere del marito dalla furia censoria del regime stalinista e dalla damnatio memorie riservata ai dissidenti e agli oppositori, imparò a memoria l’intera sua opera poetica verso per verso, per poi ricopiarla e farla pubblicare con un assoluta dedizione all’amore per il marito che durò tutta la sua vita. Scrive la Chazina: “Per me in quella notte di maggio, si profilò un …compito, ed è per esso che ho vissuto e continuo a vivere. Modificare il destino di Osip Emil’evic era al di sopra delle mie possibilità, ma sono invece riuscita a salvare una parte dei suoi scritti e molti ne ho conservati nella memoria. Io sola potevo salvarli”. (pp.31-32) Il brano dei Marlene Kuntz è tenerissimo e di grande poesia, perfettamente sostenuta dalle note suonate dagli strumenti che concludono con una generale, efficacissima distorsione finale in un noise velenoso e minerale che sottolinea la tragedia di quell’amore.
Quello che rende la musica dei Marlene Kuntz così viva dopo tanti anni è quella voglia inesausta di esprimersi attraverso un gioco di energie che prima trattenute, di colpo vengono rilasciate fino a tracimare rompendo gli argini dei volumi e delle frequenze intuibili. Una band solida, rabbiosa e quadrata con ancora tanto da dire e da suonare, un suono rozzo, tagliente, stupefacente negli strumentali luciferini, urticanti e acidi che riportano alla dimensione liturgica la magia della distorsione com’era ai tempi del loro fantastico EP Come di sdegno del 1998, nel quale, non a caso, si avvalevano della collaborazione di quel Mauro Teho Teardo che ben conosciamo, che portò in seguito alla pubblicazione di Ho ucciso paranoia e alle incredibili improvvisazioni in studio che vanno sotto il nome di Spore.
Niente di quella furia muscolare è andato perduto e, musicalmente parlando, hanno ancora energia da vendere e una gran voglia di suonare e di sentire la forza del pubblico. Dopo il lungo set di due ore senza alcuna pausa, la band generosissima e sotto il diluvio degli applausi è tornata sul palco perfino per il tris (Infinità, Ineluttabile, Nuotando nell’aria)
“Il fatto che foste seduti non è stato per nulla brutto né per noi, né per voi, spero…Grazie Udine.
Dici bene, Cristiano, grazie a voi e… alla prossima volta.
© Flaviano Bosco per instArt