La tentazione di iniziare questo articolo con il vecchio adagio “dietro a un grande uomo c’è sempre una grande donna” è molta. Perché volendo mettere in un mixer l’ora e mezza abbondante di “Einstein & me” e farne un estratto molto concentrato, è questo il messaggio che probabilmente ne ricaveremmo.
Sarebbe però una conclusione che -per quanto corretta- risulterebbe sterile e non prenderebbe in considerazione molte delle sfaccettature proposte da una brava Gabriella Greison, che dopo “Monologo quantistico” torna a calcare i palchi con il suo peculiare mix di scienza e spettacolo. A differenza del testo basato sulla “cena dei fisici quantistici”, però, stavolta la Greison si concentra su una figura sola: Mileva Maric, la prima moglie di Einstein, che lo ha affiancato per oltre vent’anni vivendone l’ascesa da studente svogliato e con la testa tra le nuvole alla formulazione della teoria della relatività. E cerca di fare luce su una figura che ha avuto un forte impatto sulla formazione dell’eclettico scienziato ma che è stata dimenticata dalla storia.
Per tratteggiare al meglio questa figura di donna divisa tra scienza e amore, tra i suoi sogni e la famiglia, tra il successo del marito e il suo -ai propri occhi- insuccesso, la Greison torna a muoversi in equilibrio tra due registri, come già fatto in “Monologo quantistico”: uno maggiormente scientifico e uno più umano, per cercare sì di raccontare grandi figure della nostra storia ma restituendo anche il loro lato più privato e “normale”.
Equilibrismo che la Greison porta avanti su due piani diversi: quello del linguaggio e quello della vicende narrate.
Innanzitutto il linguaggio. Essendo sia fisica che donna di spettacolo (scrittrice, giornalista, attrice), la Greison sa dosare molto bene le comunicazioni proprie di questi due mondi. La sua Mileva -per sua stessa ammissione una secchiona, orgogliosa di essere la quinta donna in assoluto a frequentare una facoltà scientifica- non lesina terminologia scientifica, usata per descrivere con parallellismi e simbologie ogni aspetto della vita. Lo fa però in maniera molto efficace, senza essere pesante o incomprensibile allo spettatore che di fisica non sa nulla. Certo, non tutti i termini tecnici possono essere compresi dall’intera platea ma l’intelligenza con cui il testo è scritto fa si che il senso di frasi e situazioni non venga mai precluso a nessuno.
Per quanto riguarda le vicende narrate, anche qui si passa continuamente da scene maggiormente “tecniche” ad altre più concentrate sui rapporti umani. Ed è una scelta azzeccata, visto che l’amore tra Einstein e Mileva si mosse sempre su questi due binari: nacque e si alimentò tra i banchi del Politecnico di Zurigo, dove i due condivisero non solo sentimenti e gesti dolci ma anche la loro passione per la scienza, lo studio delle teorie su cui poggiava la fisica dell’epoca, la voglia di dire la propria in quel mondo.
C’è inoltre una sorta di lungo passaggio di testimone tra questi due linguaggi, con il tecnicismo a lasciare pian piano sempre più il posto alla parte psicologica, introspettiva, umana. La storia di Mileva è infatti principalmente quella di una donna piena di sogni che col tempo si trova costretta -sia per le convenzioni sociali dell’epoca, sia per il crescente successo del marito- a perderli sempre più di vista. Dal momento in cui si scopre incinta del primo figlio ed è di conseguenza costretta a interrompere gli studi, la sua esistenza si scopre sempre più all’ombra del marito. Che nei primi anni di matrimonio continuerà a coinvolgerla nei suoi studi e in un continuo scambio di opinioni su teorie e teoremi, ma che in seguito la escluderà sempre più e inizierà a preferirle in questo un caro amico italiano. Ed esattamente come Mileva si trovò sempre più esclusa dal dialogo scientifico, così anche in scena quel tipo di linguaggio viene sempre più lasciato da parte.
A rimanerle vicina in tutto ciò sarà la sua amica immaginaria, Marie Curie: la famosa fisica sarà sempre per lei un punto di riferimento, la prova che anche le donne possono dire la loro se abbastanza battagliere da combattere un mondo ancora fortemente maschilista. Ma sarà anche indirettamente la causa di una delle sue più grandi delusioni: nel 1903, infatti, quando fu assegnato il Nobel per la fisica al marito Pierre quest’ultimo si rifiutò di ritirarlo se non fosse stata citata anche la moglie come co-vincitrice. Quando invece Einstein divenne famoso per la teoria della relatività, l’unico che il fisico citò come aiutante fu il suo amico italiano, non la moglie che pure l’aveva assistito e che aveva realizzato per lui tutti i calcoli matematici su cui la teoria si fondava.
Buona in generale la messa in scena dello spettacolo. La scenografia è certamente minimale ma ha un ruolo importante: l’albero rachitico presente sul palco cambia colore nel corso dell’ora e mezza a rappresentare lo stato della vita e dei sogni di Mileva: da verde come la sua speranza per il futuro a grigio come la lenta agonia dei suoi desideri. Interessanti anche le luci, che in alcune occasioni usano molto bene le ombre o gli occhi di bue per rendere anche visivamente quella che per Mileva è stata una lenta discesa verso un anonimato così diametralmente opposto al suo giovanile voler cambiare il mondo.
Tale minimalismo serve anche ovviamente a focalizzare l’attenzione su Gabriella Greison, che di rosso vestita si carica sulle spalle il gravoso compito di creare atmosfere e personaggi. E’ brava la fisica milanese in ciò, anche se si può in alcuni casi notare come quella dell’attrice non sia il ruolo in cui ha più esperienza. Rivelato da qualche sbavatura in alcune battute ma soprattutto dal non riuscire con troppa efficacia a far distinguere i vari personaggi nelle scene che presentano dialoghi tra Mileva e Einstein. Considerato che in alcuni rarissimi casi Albert viene rappresentato dalla voce fuori campo della “guest voice” Giancarlo Giannini, non è molto chiaro perché non si sia scelto di usare quest’espediente tutte le volte in cui lo scienziato prende la parola.
Dal punto di vista narrativo l’unica perplessità riguarda la parte finale dello spettacolo, che dopo aver mantenuto per oltre un’ora un buon equilibrio e una certa neutralità perde quest’ultima e fa quasi passare l’idea di un Einstein “colpevole”. Come nella scena in cui vengono lette le condizioni che lo scienziato impose a Mileva per continuare a vivere sotto lo stesso tetto (e che francamente erano vergognose e insostenibili, ma tristemente in linea con l’idea di uomo e donna dell’epoca). O nella scena finale in cui Mileva, divorziata e finalmente di nuovo libera, torna a essere la donna piena di entusiasmo di vent’anni prima.
A ben vedere, però, lo spettacolo fornisce anche una chiave di lettura diversa a tutto ciò. E lo fa nel lungo dialogo tra Mileva e l’immaginaria amica Marie Curie in cui la prima chiede all’altra perché le loro vite sono finite in modo così diverso e la seconda risponde che sì, forse Mileva non è diventata una scienziata famosa ma è stata una brava madre, benvoluta dai figli e quindi importante per loro. Mentre lei, così presa dai suoi studi, avrà certo vinto un Nobel ma i suoi figli sono per lei degli estranei e sospetta addirittura che non la sopportino.
Come se quel dualismo più volte citato (scienza/”umanità”) sia destinato prima o poi a crollare e si sia obbligati a scegliere a quale delle due parti rimanere devoti: Marie Curie scelse la prima, e così anche Einstein. Mentre Mileva seguì l’altra strada, non meno nobile né impegnativa ma certamente molto più piena di rimorsi, dubbi e infestata dai fantasmi del fallimento.
In ultima analisi va quindi riconosciuto alla Greison il grande merito di aver riportato alla ribalta una figura che rappresenta in modo molto efficace delle problematiche fortemente attuali e associabili a un mondo che da un lato ci sprona a essere sempre “di successo” ma dall’altro a rimanere “umani” e stare in pace con noi stessi.
Luca Valenta / © Instart