È stata un’occasione ghiottissima dell’estate pordenonese, la proiezione della versione restaurata del film Easy Rider di Dennis Hopper che ha celebrato degnamente il cinquantenario della pellicola. Non capita molto spesso di vedere sul grande schermo il capolavoro postremo della controcultura americana, l’opera che ha segnato indelebilmente la fine dell’epoca dei fiori ed ha testimoniato mestamente il tramonto delle illusioni di libertà e di pace che avevano fatto pulsare il cuore di tanti giovani in tutto il mondo. Infatti, la risposta del numeroso pubblico è stata immediata con lunghe file al botteghino.

Cinemazero ha voluto impreziosire la proiezione con una presentazione all’altezza della situazione. Sotto il grande schermo, allestito nell’accogliente piazzetta Calderari nel cuore di Pordenone, erano allineati molti chopper da collezione che hanno mandato in visibilio gli appassionati delle due ruote.

Moreno e Miki Persello, padre e figlio, motociclisti e organizzatori della storica Biker Fest di Lignano Sabbiadoro e editori di prestigiose riviste del settore, hanno spiegato che la loro passione per il motociclismo ha molto a che fare con la visione del film che rimane un mito generazionale.

Il padre lo vide da adolescente in un cinema di Fagagna, a quei tempi negli anni’70 esisteva una Comune libertaria a Colloredo di Montalbano che ha trasmesso i valori della controcultura anche nella profonda provincia friulana, apparentemente così lontana e schiva dai grandi fermenti culturali e invece sempre pronta a ricevere, a far germinare e fruttificare semi che altrove finiscono per marcire. Quell’eredità non è andata perduta e vive nel cuore di tanti Bikers che continuano a rombare senza che la paura di essere liberi li corrompa, in questi tempi nei quali il terrore del diverso e dell’altro ci viene inoculato per endovenosa quotidianamente da chi vuole comprimere le nostre libertà attraverso le leve della paura, come ha detto, giustamente, Miki Persello.

La seconda parte del prologo alla proiezione è stato un divertentissimo siparietto comico in cui Alfeo Carnelutti detto il Cocco e il giovane regista Stefano Giacomuzzi hanno raccontato del loro viaggio in moto da Pozzis di Verzegnis (UD) a Samarcanda in Uzbekistan, durante il quale è stato girato uno splendido documentario di prossima uscita. Il Cocco è una sorta di leggenda dai risvolti tenebrosi e criminali della montagna friulana. È un ragazzo selvaggio di settant’anni suonati che ne ha letteralmente combinate di tutti i colori; ora vive da eremita nello sperduto villaggio di Pozzis ma ha conservato intatto tutto il proprio spirito indomabile e d’avventura. Ha un modo di parlare sboccato e irriverente ma, nonostante il carattere ingestibile, è veramente un personaggio interessante e fuori dal comune.

Tutte queste premesse hanno avuto l’effetto di far crescere il climax d’attesa per la proiezione principale della serata che finalmente ha avuto inizio.

Il restauro della pellicola in 4K a cura de Il Cinema Ritrovato in collaborazione con la Cineteca di Bologna, ha restituito a Easy Rider tutto lo splendore della luce e dei colori pensati dal direttore della fotografia il grande László Kovács, che i dieci lustri passati avevano reso pastosi e scuri. Il film restituito nel suo splendore originario è pronto per regalare ancora tanti viaggi psichedelici a tutte le persone libere e a tutti quelli che dicono con Bob Dylan “di non odiare un bel nulla eccetto l’odio”.

Le fucilate del finale della pellicola chiudono un’epoca e la consacrano sugli altari del mito. Di li a pochi mesi sarebbero morti: Janis Joplin, Jimi Hendrix, Jim Morrison, Brian Jones e via di seguito gettando nello sconforto un’intera generazione. Si sarebbero sciolti i Beatles e la stagione dei grandi happenings Peace&Love si sarebbe chiusa nel sangue di uno spettatore pugnalato dagli Hell’s Angels al concerto di Altamont.

Proprio mentre si girava Easy Rider le feroci, affilate lame della Family di Carles Manson e delle sue bambole assassine avevano cominciato a incidere le carni di quell’epoca furibonda con i loro richiami a Helter Skelter fino ai massacri di Cielo Drive, Los Angeles. L’ultima fatica del regista Quentin Tarantino, Once Upon a Time in Hollywood, d’imminente uscita nei cinema italiani rievocherà la cupa, surreale atmosfera di quei mesi dell’estate 1969.

Per introdurci al significato profondo del film senza pretese di completezza, non bastano certo queste poche righe a comprenderne ogni sfumatura, accosteremo, brevemente, all’analisi alcuni dei testi tradotti delle canzoni della magnifica colonna sonora anch’esse simbolo di un’epoca. Sono solo brevi appunti, veloci suggestioni in punta di penna, poche annotazioni che possono apparire scollegate tra loro e inconcludenti ma che, invece, cercano modestamente di tracciare un percorso nel film meno convenzionale di altri.

Solleviamo il cavalletto, spingiamo in basso la leva dell’accensione e rombando partiamo una buona volta, proprio come dicono gli Steppenwolf nella celeberrima Born to be Wild: “Fai correre il tuo motore, a testa bassa sull’autostrada, cercando l’avventura e qualunque cosa capiti sulla nostra strada”.

Il geniale film di Hopper fotografa il fallimento di una generazione che credeva nei fiori, nell’amore universale e nella pace, schiacciata dalla storia, dal pregiudizio e anche dal potere del denaro. Emblematico il dialogo finale tra i due motociclisti-spacciatori protagonisti del film. Billy dice a Capitan America: “Ce l’abbiamo fatta! Un uomo quando ha i soldi ha tutto!” L’altro risponde:”Siamo fregati Billy, siamo fregati! (We blow it Bill, we blow it!).

Canta Hendrix in If 6 was 9: “Colletti bianchi conservatori giù in strada mi puntano contro il loro dito di plastica. Sperano che presto il mio modo di essere crolli e muoia. Ma sventolerò alta, alta la mia bandiera Freak!”

È inutile ricordare l’importanza sociale ed estetica di questa pellicola e nemmeno la sua enorme popolarità in patria e fuori. Meglio concentrarsi allora sulle sue qualità cinematografiche che, generalmente passano in secondo piano. Come affermava, sbagliando clamorosamente, il critico cinematografico Gianni Volpi: “Easy Rider conta più di quanto vale”. Se consideriamo in che modo l’opera si contestualizza nella storia del cinema americano, ci rendiamo subito conto che non è per niente una bizzarria anticonvenzionale, ma che è profondamente radicata in quel canone cinematografico e intrisa di una tradizione estetica che viene da molto lontano ed è perfettamente tracciabile.

Da questo punto di vista il film di Hopper altro non è se non un western, atipico quanto si vuole, ma sempre un racconto sulla Frontiera americana e sul suo sogno infranto. Del genere ripercorre tutti i classici stilemi: ci sono i fuorilegge con i loro cavalli (i due motociclisti spacciatori), i pionieri nella prateria (la Comune dove si semina il pane amaro del futuro), il paesaggio (la Death Valley in Arizona), il viaggio verso la speranza, la cittadina ben pensante e crudele, l’amicizia virile, il cimitero, il bordello, i nativi americani, l’avvocato ubriacone, l’accampamento attorno al fuoco, le fucilate e via di seguito.

Cantano i The Birds in Wasn’t born to follow: “Oh piuttosto me ne andrei e farei un viaggio verso il posto dove la cresta di diamante sta scorrendo e correrei attraverso la vallata, sotto la sacra montagna e vagherei per la foresta dove gli alberi hanno le foglie a forma di prisma e danno colore alla luce, un colore di cui nessuno conosce il nome”.

Mi si passi l’azzardo, ma Easy Rider sembra una pellicola girata, nè più nè meno che da un John Ford in acido. È vero non ci sono i cavalli ma ci sono le motociclette; non c’è il saloon con il brucia-budella ma ci sono l’erba, la coca e L.s.d.; non c’è il settimo cavalleggeri ma ci sono gli squallidi borghesi redneck con il fucile a pallettoni sui loro pick-up; non ci sono i pellerossa ma ci sono gli Hippies.

Dicono gli Steppenwolf in The Pusher: “Bene, ora se fossi il presidente di questa terra, lo sai che dichiarerei guerra totale allo spacciatore. Lo colpirei forte se si alzasse e gli sparerei se iniziasse a correre. Si, lo ucciderei con la mia Bibbia, il mio rasoio e la mia pistola”.

È questo il senso delle magnifiche immagini che Hopper e la sua troupe girarono nella Monument Valley e dei lunghissimi piano-sequenza sull’orizzonte sterminato, aperto e desertico della Prateria. Il regista si appropria di quella visione libertaria e delle prospettive del possibile che la poetica del western ha sempre cercato di interpretare e tradurre. Lo fa, è vero in modo piuttosto innovativo utilizzando il particolare montaggio anticipatorio che gli ha dato la fama, oppure ricorrendo ai colori e alle suggestione della psichedelia, ma l’intreccio narrativo non avrebbe potuto essere più convenzionale: due fuorilegge attraversano la frontiera per i loro traffici, per poi intraprendere un viaggio verso la libertà che ovviamente finisce molto male. Niente di troppo nuovo dunque? Apparentemente no.

Ancora gli Steppenwolf: “Ah ma lo spacciatore è un mostro, buon Dio lui non è un uomo normale, lo spacciatore per una moneta ti venderà molti sogni d’oro. Ah ma lo spacciatore rovinerà il tuo corpo e lascerà la tua mente ad urlare”.

La vera carica rivoluzionaria della pellicola sta proprio nei suoi contenuti e rappresenta compiutamente la volontà di quella generazione di riappropriarsi di quel sogno di libertà dei lori avi che l’ottusa società del capitalismo imperante aveva loro scippato. Un desiderio non troppo dissimile da quello dei primissimi pionieri della frontiera americana, o da quello degli Outlaws del Far west, degli Hobos e degli Okies della Dust Blowl.

Il loro nome era Hippies e il loro sogno sarebbe stato spazzato via definitivamente solo dall’eroina e dal Vietnam. Non a caso Coppola volle Hopper nel suo meraviglio Apocalypse Now.

Sui titoli di coda parte la fantastica “Ballad of Easy Rider” dei Birds

Il fiume scorre, scorre verso il mare, ovunque vada è dove voglio essere…Tutto ciò che voleva era essere libero e questo è il modo in cui si mostrò. Scorri fiume scorri”.

© Flaviano Bosco per instArt