L’antico teatro Gian Giacomo Arrigoni è uno scintillante, prezioso scrigno, nella sala superiore della loggia pubblica nel pieno centro di San Vito, cittadina che è a propria volta un forziere traboccante di splendidi tesori artistici e architettonici.
Al centro del palcoscenico, a sala ancora vuota, troneggiava sfavillante uno Steinway & Sons come una promessa, “come una farfalla, una nostalgia…nostalgia al gusto di Curaçao” è proprio il caso di dirlo vista la provenienza caraibica del rapsodico pianista.
Il teatro Arrigoni è il luogo ideale per ricercati concerti da camera viste le sue ridotte dimensioni che rendono l’acustica e l’ascolto un assoluto piacere sensoriale dal gusto superiore. La piuttosto recente completa ricostruzione ha restituito alla città murata un luogo speciale e unico nel quale, come attestano i documenti, si recita e si suona almeno dal XVII sec.
Gian Giacomo Arrigoni (1597-1675), sanvitese di nascita, fu organista della cappella imperiale di Vienna e compositore di una certa fama:
“Egli si contraddistinse …per una vivacità compositiva che lo avvicinò ai maggiori esempi dell’epoca; il suo è un linguaggio musicale concertante con schemi armonici inconsueti, frutto del suo tempo. Lo possiamo inserire in quella cerchia di compositori che vide Claudio Monteverdi capostipite di una scuola che nel Seicento portò una grande spinta verso il superamento degli stilemi antichi e la ricerca di nuove categorie stilistiche dove veniva incoraggiata una maggiore libertà di scrittura rispetto alle regole rigorose di limitazione delle dissonanze” (Luca Canzian, in Choralia 99, dicembre 2022, risorsa online).
Se nella storia della musica l’organista di San Vito si situa nel momento aurorale della musica moderna quando l’orizzonte era il futuro, il pianista contemporaneo di origine cubana che risiede a Brooklyn, New York, si fa interprete di un secolo nel quale la musica attraverso il jazz si è aperta alla disseminazione e alla contaminazione con le altre forme d’arte, prima fra tutte la pittura.
Ciò che chiamiamo “Arte astratta” si è mossa fin dall’inizio tenuta per mano dalla rivoluzione musicale la cui scintilla scaturì dai suoni e dai ritmi degli afroamericani per poi incendiare la musica d’arte d’origine europea propriamente detta che a propria volta accolse le perversioni soprattutto della pittura.
L’avventura del cubismo in musica è ben nota e proprio a quei momenti straordinari ed esaltanti sembra ispirarsi Aruàn Ortiz nella sua più completa sovversione del pianismo jazz contemporaneo.
Una sua incisione del 2017 si intitola, non a caso, “Cub(an)ism” con un gioco di parole all’apparenza scontato, ma che in realtà racchiude in se sia il senso stesso di quel movimento artistico all’alba del ‘900, sia l’approccio e le intenzioni del musicista di Santiago di Cuba. La musica cubista, infatti, si ispirava sia alla musica caraibica, sia alla classica e al jazz e poi naturalmente alle arti figurative e plastiche e il contrario.
“Stravinsky e Picasso hanno segnato un nuovo punto d’inizio attraverso la destrutturazione della realtà e delle apparenze offrendo una nuova “purezza” della musica e dell’arte. Il cubismo è un’arte che dialoga con le forme, in cui, una volta che le forme vengono create, queste assumono vita propria. Sono forme geometriche, spigolose, sovrapposte che creano qualcosa di nuovo, un significato che va al di là della realtà che percepiamo. Ugualmente Stravinsky costruisce la musica attraverso la contrapposizione di timbri melodici e armonici, vorticosi e aspri…una musica e un’arte che esprimono la loro essenza distaccandosi dalla realtà e dall’emotività…” (Lorenza Re, Quando l’arte di Picasso incontrò la musica di Stravinsky, risorsa elettronica 2023).
Aruàn Ortiz ha da poco inciso negli studi Artesuono di Stefano Amerio, “Créole Reinassance” che sarà licenziato l’anno venturo.
Quello del teatro Arrigoni, con la presentazione esclusiva di alcuni brani dal nuovo lavoro, è stato un concerto del tutto particolare, inaspettato e sorprendente. Ortiz è un musicista che spinge alla riflessione e ad andare oltre le convenzioni. La sua musica è in aperto dialogo con le forme e il suo meditabondo incedere è del tutto geometrico e paradossalmente segue linee d’astrazione che a volte preferisce non dominare ma lasciare al riverbero e alla vibrazione della sala. L’esecuzione a San Vito Jazz ha spiazzato e ammutolito, conquistando il pubblico che già aveva decretato il sold out, in realtà, forse aspettandosi qualcosa di più consueto.
Il pianista cubano, invece, non ha fatto sconti a nessuno e non ha blandito il proprio pubblico con facili ritmi e melodie esotiche, ma tutto il contrario.
La sua musica ad un primo ascolto ha bisogno di essere rielaborata, pensata e perfino digerita.
Ortiz ha uno stile molto personale con una grandissima gamma di influenze che rielabora in modo tutto suo. La sua musica appare atonale e improntata verso una free form aggiornata ritmicamente al cupo presente.
San Vito Jazz, grazie alla sensibilità del direttore artistico Flavio Massarutto, come al solito educa all’ascolto il proprio pubblico con proposte che guardano al futuro senza mai volerlo “sedare” con le solite scontate formule.
Da un pezzo per fortuna si è smesso di interrogarsi su cosa sia il jazz, la domanda a poco più di cento anni dalla prima incisione ha completamente perso il suo significato. Nel frattempo quell’originaria forma musicale che tanto doveva al ragtime, ai ritmi caraibici e africani e chi più ne ha più ne metta, è diventata qualcosa d’altro che non è più catalogabile come genere ma che si individua come flusso oppure come attitudine del musicista.
In questo senso, Ortiz, con i piedi ben piantati nella sua formazione classica e con le radici saldamente ancorate nella profonda rena della tradizione afrocubana, rilegge e riscrive la grammatica di quei suoni che sanno anche emanciparsi da alcuni stilemi che hanno musealizzato uno stile musicale nato come espressione popolare e diventato quasi subito intrattenimento esotico per la borghesia bianca.
Come ha detto rivolgendosi all’attento pubblico in sala: “Continuo a celebrare, reinterpretare e rivisitare l’eredità culturale della mia città natale Santiago de Cuba…Blending different rivers of influences.”
Il pianista integra una varietà di stili che lo hanno influenzato e abitano naturalmente il suo processo creativo come la musica seriale, le tecniche di composizione classica, il jazz d’avanguardia e naturalmente, le poliritmie e le suggestioni etniche e folkloriche creole.
Solo a partire dal Be Bop, il jazz cominciò a rivelare la propria intima essenza di rivendicazione sociale, di lamento e di critica verso un sistema oppressivo e segregazionista. A chi lamenta la perdita di questa forza propulsiva rispondono proprio musicisti come Ortiz che continuano ad essere, a proprio modo, abrasivi e militanti utilizzando, forzando e violando le forme canoniche della musica d’improvvisazione.
Quando sono cominciate a vibrare le prime note di “L’ouverture op.1 Château de Joux” nello spazio del teatro, immediatamente ognuno si è reso conto di trovarsi davanti a qualcosa di davvero inconsueto e persino inaudito. Le note gravi, erratiche e vetrose che graffiavano l’atmosfera rendendola a tratti cupa e a tratti spettrale hanno generato attese e silenzi capaci di scardinare ogni aspettativa. Nella sua lunga suite di brani e variazioni intagliate l’una nell’altra Ortiz ha saputo essere ipnotico, drammatico, translucido, contratto ed esoterico e a volte ego-riferito, modulando i propri suoni sia a partire dalla completa informalità, sia dal rigore geometrico più gelido e brutale.
Chi si aspettava il tradizionale approccio luminoso e colorato del pianismo caraibico più scintillante e consueto ha subito dovuto ricredersi e riconsiderare tutte le proprie convinzioni in un attimo trasformatesi in stereotipi davanti alle vitree, esoteriche alchimie di Ortiz.
Chi si voleva gustare qualcosa come la musica dello stupefacente Gonzalo Rubalcaba ha sbagliato indirizzo, niente esotismi o piacevolissime danze colorate.
Il cielo dei Caraibi per Ortiz sa anche essere grigio e i Tropici piuttosto Tristi, si perdoni il gioco di parole sul filo della banalità.
Il jazz riprende il suo viaggio da dove era cominciato, da quelle isole dei Caraibi dove attraccavano le navi negriere provenienti dall’Africa con il loro carico di dolore e di futuro, passa per New York, scavalca di nuovo l’Atlantico e sbarca a San Vito al Tagliamento seguendo il fiume carsico dell’ispirazione artistica che abbraccia tutto il nostro pianeta e che rimane uno degli enigmi più affascinanti e indecifrabili di ogni tempo.
Come diceva Picasso: “La pittura è una professione da cieco: uno non dipinge ciò che vede, ma ciò che sente, ciò che dice a se stesso riguardo a ciò che ha visto” e tanto vale per la musica che, come NON ha mai detto Beethoven: “è una professione da sordo”.
Scaletta: L’overture op.1 Château de Joux, Dominant Force, Cuban Cubism, Seven Aprils in Paris, Cantos de Tambores y Caracoles, Deuxiéme Miniature-Dancing, Lo que yo quiero es Chan-Chan, Skippy (Thelonious Monk)
Flaviano Bosco / instArt 2025 ©