Normalmente pensando a “Salomé” la mente corre subito a Strauss e alla sua opera in atto unico. Tale versione è stata infatti rappresentata una quantità innumerevole di volte, in numero certamente superiore rispetto all’omonimo dramma scritto in francese da Oscar Wilde, su cui Strauss si è basato. A ridare recentemente lustro al testo originale è stato il Teatro Stabile di Napoli, che grazie alla regia del suo direttore Luca De Fusco ha riportato sulle scene la drammatica vicenda della principessa di Giudea. E che in questo inizio di 2019 abbiamo potuto applaudire sul palco del Politeama Rossetti, che alla produzione dello spettacolo ha anche voluto concorrere.
Amore e morte: è questo il connubio classicamente associato alla figura di Salomé, così persa nella passione per il profeta Iokanaan da chiedere a Erode la sua testa su un piatto d’argento per poterla finalmente baciare, dopo che lui l’aveva più volte rifiutata. A ben guardare, però, una definizione migliore l’ha data Steven Berkoff, che nel 1993 firmò la regia del suo personale adattamento per il Festival dei Due Mondi di Spoleto e che la definì uno “studio sull’ossessione”.
Ed ossessione è esattamente ciò che trasmette con lucidità cristallina la produzione del Teatro di Napoli, con una messa in scena elegante in cui elementi scenici e personaggi concorrono nel rendere la vicenda allo stesso tempo viscerale e aliena, quasi lunare.
Non a caso a dominare la scena è un’enorme Luna che nel corso della rappresentazione cambierà colore, luminosità e fase a indicare l’oscillazione degli eventi e delle sorti dei personaggi. Ed è sempre alla Luna che si pensa quando Salomé appare in scena, bianchissima e con il capo adornato non di capelli ma di piccole gemme che su quel cranio nudo ricordano i crateri del nostro satellite. La Luna è Salomé, Salomé è la Luna: distante, irraggiungibile, indifferente agli uomini che in nessun modo possono modificare il suo moto. Gaia Aprea è perfetta nel rendere Salomé una creatura aliena, che si muove sulla scena quasi incurante degli altri personaggi e semplicemente li usa per ottenere ciò che vuole. Nemmeno la scena che più dovrebbe svelare le pulsioni passionali della principessa (il dialogo con Iokanaan) la vede cedere totalmente alle emozioni, che rimangono in parte intrappolate nella rete del suo freddo calcolo. E’ un personaggio che -scevro dall’umanità che tali emozioni le avrebbero donato- agli occhi degli spettatori si presenta puramente “negativo”: una donna capricciosa e centrata solo su se stessa. Estremamente interessante e azzeccata quindi la scelta di far mutare la testa di Yokanaan, che nella scena finale diventa quella della stessa Salomé. Ed è su questa che la principessa soddisferà finalmente il suo desiderio, baciandola sulle labbra.
Il testo presentato (nella traduzione di Gianni Garrera) risulta piuttosto semplice e lineare, forse addirittura troppo a un occhio non esperto. E’ questo in realtà un grande merito ed è certamente una scelta voluta, in forte continuità con l’opera originale. Quando fu pubblicato il testo di Wilde fu infatti criticato più o meno unanimemente per l’eccessiva semplicità sintattica, che alcuni attribuirono all’averlo scritto in francese (lingua non perfettamente conosciuta dell’autore) mentre altri ne sottolinearono l’importanza come tratto distintivo di Wilde, capace di tratteggiare personaggi estremamente sfaccettati con parole semplici.
Altrettanto semplice e minimale la messa in scena, che senza l’uso di particolari scenografie o costumi riesce a concentrare tutta l’attenzione sugli attori e sulla sempre presente Luna. Ci sono però alcune scelte che hanno lasciato qualche perplessità, come l’affidare i vaticini di Iokanaan (intrappolato nella cisterna) a brevi filmati proiettati sopra la Luna: si sarebbe preferita una maggior presenza in scena del bravo Giacinto Palmarini, che sia nella recitazione che nei colori tipici (su di lui quasi sempre uno spot rosso) fa da perfetto contraltare alla freddezza di Salomé. Sono le sue frasi profetiche a smuovere gli animi sia della principessa che di Erode e di Erodiade e la scelta di demandarle alle proiezioni su schermo le fa sembrare troppo lontane per poter colpire gli altri protagonisti come effettivamente fanno.
Piuttosto debole anche una delle scene più iconiche del dramma, la danza dei sette veli: se da un lato il ballo lento e dal sapore tangueiro consente di sottolineare ancora una volta l’estraneità di Salomé dal resto del mondo, dall’altro pone nello spettatore una notevole fatica nel giustificare l’eccitazione erotica e sensuale che la danza dovrebbe scatenare in Erode.
Le perplessità su certe scelte di regia passano però in secondo piano rispetto al fattore che più di tutti vince e convince, e cioè le prove degli attori. La compagnia scelta è davvero ottima, comprese le figure secondarie. Nota di merito per Gianluca Musiu che nei panni del capitano delle guardie tratteggia con efficacia un giovane in bilico tra desiderio, lascivia e insicurezza.
Di Palmarini si è già detto ma è bene sottolineare nuovamente la fisicità e la passione che sa infondere a Iokanaan e che ben rappresentano un uomo che ha negli occhi solo Dio. Ottima anche Anita Bartolucci, che porta in scena un’Erodiade stanca, rancorosa e particolarmente pungente quando vedrà la figlia dare un’imprevista vittoria al suo rancore con la richiesta della testa del profeta. In poche parole, deliziosamente insopportabile.
Se però in ultima analisi lo spettacolo funziona è merito dei due lasciati volutamente per ultimi: Gaia Aprea e Eros Pagni. Per loro due prove d’attore maiuscole, ai poli opposti l’uno dall’altra ma ugualmente efficaci.
La Aprea è -come già detto- una Salomé aliena, distante, concentrata solo sui propri desideri. Tutto in lei trasmette distacco: dall’incedere sempre lento e regale alla recitazione volutamente monotóna (fondamentale sottolineare l’accento sull’ultima “o”) e annoiata. Per finire con lo sguardo che spesse volte non incrocia nemmeno quello dell’interlocutore. Solo nel finale, quando avrà infine tra le mani la testa di Iohannan, Salomé si abbandonerà in parte alle emozioni: bravissima in quest’occasione la Aprea a svelarle, facendo oscillare la principessa da un’accennata lussuria al sentirsi quasi persa (per la vuotezza della sua vittoria) fino al compiacimento per aver alfine ottenuto ciò che voleva.
Perfetto contraltare dell’algida principessa, un magnifico Eros Pagni porta in scena un Erode dalle mille sfaccettature, complesso, soverchiato da emozioni. E’ magistrale Pagni nel saper passare continuamente da uno stato d’animo all’altro, con estrema naturalezza. Riuscendo a rendere Erode l’unico personaggio davvero “umano” sulla scena, roso dai dubbi e tormentato dai suoi stessi desideri per Salomé. Sorprendentemente affascinato dal profeta, stanco e sconfitto quando cederà alla richiesta della principessa, disgustato quando infine ne ordinerà l’uccisione.
Tristezza, felicità, ironia e persino qualche momento comico: tutto funziona nella recitazione di Pagni. Il suo Erode è re eppure uomo fragile quanto e più di noi, “vittima” dei capricci della principessa. Il suo sgomento che si trasforma sempre più in disperazione durante il monologo in cui cerca di convincere Salomé a cambiare la sua richiesta dopo la danza (ottima la scelta scenica di far scendere la Aprea in platea, con le spalle voltate al palco a sottolineare la totale distanza -fisica e umana- tra i due) rimane ben scolpito negli occhi e nella mente. Fino agli ultimi secondi dello spettacolo, in cui si scioglie in un sottile senso di vendetta e soddisfazione quando la voce amara di Pagni pronuncia il “ammazzate quella donna” su cui le luci si spengono.
Luca Valenta / © Instart