Cinema e teatro: due medium profondamente diversi. Nei tempi, nei ritmi, nel modo di recitare. DI conseguenza quando si cerca di trasporre un’opera da uno di questi medium all’altro si corre sempre un rischio notevole, perché ciò che funziona in uno dei due potrebbe non farlo nell’altro, a meno che non venga fortemente rivisto e adattato.
Insomma, un piccolo “eterno dilemma” che torna alla ribalta per “La classe operaia va in paradiso”, ospite del Politeama tergestino nella recente versione di De Paolo e Longhi. L’iniziale timore di trovarsi davanti una trasposizione pedissequa, senza personalità propria, era a dire il vero smussato già dalla frase -in calce, quasi a sottotitolo- che campeggiava sui cartelloni: “liberamente tratto dal film di Elio Petri”.
Frase quanto mai veritiera, su questo non si può discutere. Lo spettacolo con Lino Guanciale fa di tutto per “andare oltre”, per uscire dagli schermi del consueto e lanciare continui ammiccamenti al pubblico con costanti tentativi di sfondamento della quarta parete: più volte gli attori si muovono in platea, e nei siparietti musicali (sì, avete letto bene: siparietti musicali. Se non vi giunge immediato il nesso con il film non preoccupatevi, ci torneremo dopo) il cantante si rivolge direttamente ad alcuni degli spettatori in sala.
E’ solo uno degli aspetti di un approccio generale che guarda e ammicca -senza nemmeno celarlo- al metateatro, con un effetto matrioska che all’atto pratico porta solo a una notevole confusione. Tutto viene chiarito già nelle prime scene, quando a salire sul proscenio non è Lulù Massa ma un regista e uno sceneggiatore, impegnati nella difficile genesi del film da cui lo spettacolo prende il titolo. Nello specifico siamo al momento del casting: viene loro presentato il candidato protagonista (Lino Guanciale), che assieme a loro abbozza andatura e modo di parlare di Lulu Massa, scartando l’accento romano e preferendo quello milanese. Diviene subito palese, quindi, come la piece teatrale non voglia essere la trasposizione del film quanto piuttosto una sorta di monumento a ciò che la pellicola ha rappresentato, studiandola da diversi aspetti: la sua gestazione, le sue scene più iconiche, l’impatto che ha avuto sulla popolazione in epoche diverse.
La trovata in sé è anche buona e certamente lodevole. Ma come recita il vecchio e celebre adagio “tra il dire il fare c’è di mezzo il mare” e purtroppo all’atto pratico quell’intenzione si trasforma in un pot-pourrì acerbo e mal raffinato di idee e scelte stilistiche così diverse e così poco amalgamate da risultare difficili da seguire, spesso indigeste. Anche là dove le intuizioni sarebbero fortemente d’impatto, il loro essere malamente mescolate a elementi così differenti e discordanti toglie loro forza. Rimanendo nell’ambito dei luoghi comuni, “il troppo stroppia”.
Per rendere le cose più chiare e lineari cercheremo ora di schematizzare. La narrazione dello spettacolo segue diverse linee, che si intersecano in continuazione.
La prima è quella già citata della “creazione del film”, in cui regista e sceneggiatore discutono di vari aspetti della pellicola, a partire dalla forza che avrà in un’epoca come gli anni settanta -fortemente segnati dalle diseguaglianze tra “padroni” e lavoratori.
La seconda è quella del film vero e proprio, quindi la riproposizione di alcune scene chiave della pellicola.
La terza potremmo chiamarla “le reazioni del pubblico”. Più volte vengono proiettati in scena gli ultimi istanti del film e i suoi titoli di coda, e al termine di questi il palco si trasforma in una sala cinematografica, da cui due spettatori (ogni volta diversi e appartenenti a decadi differenti) escono e iniziano a discutere della pellicola. Ben presto però il loro dialogo si sposta sulla loro vita o quella della società dell’epoca.
A queste tre narrazioni si aggiungono poi altri elementi che -occupando però una minima parte delle tre ore- non hanno la consistenza adeguata per essere calcolati come quarto punto di questa lista. In questa parte ricadono i siparietti musicali precedentemente citati, in cui uno degli attori si aggira in platea con chitarra sotto il braccio e intonando brevi melodie che parlano principalmente del lavoro come schiavitù. Canzoncine tutto sommato carine ma che nella loro leggerezza non riescono nell’intento di critica sociale e stonano con l’atmosfera del resto della piece. In questa categoria potremmo inserire anche la scena iniziale, in cui un Lino Guanciale ancora “operaio X” (e non Lulu Massa) ingabbiato in una catena di montaggio cita con crescente disperazione nomi, luoghi e circostanze di diverse morti sul lavoro in Italia negli ultimi cinquant’anni. Un incipit decisamente forte che -questo sì- è critica sociale che funziona e che si pone come uno dei momenti migliori dello spettacolo, se non il migliore.
Ma torniamo alle tre linee narrative. Della prima si è già detto e risulta tutto sommato godibile. Forse non funzionano del tutto i tentativi di interazione con il pubblico ma in generale gli interventi del “regista” e dello “sceneggiatore” si integrano bene con le repliche delle scene del film.
La seconda invece porta con sé un grande mistero. Lascia infatti perplessi come -all’interno di un quadro generale di libertà interpretativa totale- in queste scene si sia invece optato per una fedeltà quasi assoluta ai testi originali, riportati parola per parola dai bravi attori sul palco. Questo non riuscendo però a mantenere il senso e la gravità degli spezzoni originali e dando al tutto una venatura a volte buffonesca, a volte macchiettistica. La scena dell’uscita amorosa tra Lulu e Adalgisa, ad esempio, nel film è un piccolo capolavoro che riesce a muoversi in bilico tra dolcezza e tristezza. Mentre qui diventa qualcosa che sfocia quasi nella comicità, depredato di quella sottile aura di amara poesia che aveva nel ’71.
O ancora, il momento in cui Lulu perde il dito: nel film sembra quasi una scena minore, in cui la camera mai indugia sulla ferita e l’operaio minimizza l’accaduto. Nello spettacolo rimane la citazione “è solo un graffietto”, certo, ma tutto il resto parla un linguaggio epico, tra Guanciale che leva in alto a lungo la mano mutilata, il silenzio sul palco o le luci concentrate su di lui.
Delle tre linee narrative, quella che rimane –“le reazioni del pubblico”- è forse la più originale, certamente quella che più di ogni altra vuole rappresentare il legame del film con la società di qualsiasi epoca. In queste parti assistiamo ogni volta a una sorta di salto temporale, ben chiaro grazie alle date proiettate sul palco: se ad esempio la prima coppia a uscire dal “cinema” appartiene agli anni ’70, nel corso del loro dialogo verranno raggiunti da -e cederanno poi loro la parola- altre due figure, queste relative ai giorni nostri o comunque a un’epoca più moderna. L’espediente potrebbe anche funzionare, se non fosse che i vari dialoghi non affondano mai davvero in denunce e critiche delle società delle relative epoche e quando lo fanno scadono in luoghi comuni banali e talvolta irritanti. Come esempio basti citare la coppia di gay rappresentante i giorni nostri: nella loro discussione su qual è il personaggio del film che più li ha colpiti, il primo si dilunga in modo marcatamente effeminato su quanto sia bello e bravo Volonté; quando il secondo racconta invece come a lui sia piaciuto soprattutto il personaggio di Adalgisa il primo con evidente gelosia risponde “perché tu sei come lei, troia!” e se ne va arrabbiato. Ma davvero nel 2019, quando non dovremmo nemmeno più parlare di minoranze, ha senso ricorrere a questi tristi stereotipi? Che non solo non aiutano ma se possibile danneggiano una fetta di popolazione che -nel suo lungo impegno nel veder riconosciuta una parità di diritti e di dignità ancora non raggiunta- sta tentando di emanciparsi proprio da semplificazioni come questa?
Molto buone le performance della compagnia: gli otto attori si prodigano con generosità, ciascuno dividendosi tra diversi ruoli e riuscendo così a coprire con efficacia tutti i personaggi messi in scena. Che sono davvero tanti, se si sommano quelli del film (operai, studenti, famiglie di Lulu, medici) a quelli del “making of” e delle “reazioni del pubblico”. Un discorso a parte va fatto per Lino Guanciale: è innegabile che sia un ottimo attore e anche la prova data in quest’occasione è maiuscola per quanto riguarda impegno e immedesimazione. Il problema è la caratterizzazione data a Lulu Massa, che risulta spesso ironico, macchiettistico e a tratti sopra le righe, perdendo così tutta l’intensa drammaticità del personaggio originale. Che nel film traspariva anche nelle scene all’apparenza più “leggere”, come la famosa parte del “un pezzo, un culo” che qui si avvicina più ai modi caricaturali che avrebbe uno standing comedian. Ovviamente non si vuole ora attribuire questa caratterizzazione esclusivamente a Guanciale, anzi è probabile che sia prima di tutto una scelta registica. Né si vuole sminuire le grandi capacità attoriali di Guanciale: solo sottolineare come le scelte fatte per il Lulu in scena non rendano giustizia alla forza drammatica della sua controparte di celluloide.
Ma è più in generale lo spirito di denuncia originario che viene a mancare all’intero spettacolo: nel suo voler guardare al film “a tutto tondo” deve per forza fare alcuni passi indietro por poter allargare l’orizzonte e studiare anche ciò che sta ed è stato attorno alla pellicola. Ma di passi ne fa forse troppi e arriva a una distanza tale da perdere di vista il significato originale e perdersi in quel metateatro che avrebbe sì potuto esserci ma solo come corollario di quel nucleo forte e potente che la pellicola -anche a distanza di quasi cinquant’anni- è e rimane.
Luca Valenta /©Instart