Replica del 12/02/22 ore 20.45. Un teatro Verdi finalmente gremito e festoso ha celebrato lo spegnersi dell’epidemia con due suite per balletto davvero eccezionali che hanno fatto la gioia del cuore e degli occhi dei tantissimi presenti. Non è scontato dirlo, soltanto qualche mese fa sembrava impossibile o quanto meno remoto il ritorno alla normalità e ai teatri pieni e invece il miracolo si è compiuto. Di assoluto rilievo l’interpretazione del Balletto dell’Odessa National Academic Theater of Opera and Ballet con l’orchestra del teatro diretta con mano ferma da Igor Chernetski.

Chi prevedeva la catastrofe degli spettacoli dal vivo ha dovuto ricredersi. Un vistoso calo lo hanno avuto solamente le sale cinematografiche che già prima arrancavano per mancanza di proposte e per un abbassamento del livello qualitativo assolutamente imbarazzante.

Contro ogni previsione, il pubblico ha riscoperto quali esperienze sensoriali sono davvero insostituibili e necessarie per la nostra felicità ed equilibrio come il pane quotidiano. L’Opera, il balletto e il teatro in generale sono cibo per la nostra anima e cura per le nostre ferite più profonde, non ne possiamo proprio fare a meno.

Il grande bastimento del teatro Verdi, che sembra attraccato in fondo al molo Audace pronto per grandi traversate mediterranee e oceaniche, ha superato le procelle di questi ultimi anni forte del proprio glorioso passato nel quale ha navigato sicuro in mari molto più travagliati come le tempeste delle Guerre mondiali, del crollo degli imperi centrali, dell’infamia del Ventennio con le famigerate leggi razziali, l’occupazione nazista, la scampata annessione all’impero sovietico, l’americanizzazione, fino a tutte le miserie dell’età presente.

L’impresa è riuscita e continua, in primo luogo, grazie all’assoluta dedizione delle persone che lo amano e che lo dirigono a livello artistico con abnegazione e talento ma anche all’affetto del pubblico triestino e non solo che di generazione in generazione mantiene vivo il proprio sentimento di attaccamento ad una realtà viva e vitale che è un gioiello splendente della città e dell’Italia intera. Lo si vedeva bene l’altra sera all’ultima replica del meraviglioso balletto; la platea, i palchi, le gallerie erano gremite non solo delle solite teste argentate che rappresentano gli appassionati storici ma da tanti ragazzi e perfino bambini accompagnati dalle famiglie.

Riempiva davvero il cuore vedere i palchi prima dello spettacolo pieni di giovani, alcuni dei quali appartenenti alle varie scuole di ballo della città e della regione. Erano visivamente contenti di partecipare all’evento, in trepidante attesa delle prime note dell’orchestra e della luce del sipario che si apre. E’ l’emozione delle prime volte che non ti abbandona mai, la magia del teatro rimane intatta e non si spegne mai, è sempre la prima volta.

Carmen-Suite di Georges Bizet e Rodion Ščedrin
La prima della Carmen la sera del 3 marzo 1875 all’Opéra-Comique di Parigi fu un fiasco talmente clamoroso che Bizet dal dispiacere si ammalò gravemente e finì con il suicidarsi per la vergogna, e, anche se c’è chi sostiene che sia stato “suicidato” dall’amante della moglie in concorso con quest’ultima, è certo che non si riprese più dallo sconforto. Non fece in tempo a vedere il successivo trionfo viennese che lo consegnò post-mortem alla gloria di tutti i palcoscenici del mondo.

“Io invidio a Bizet il coraggio di questa sua sensibilità meridionale, brunita, arsa dal sole…Ah finalmente l’amore, l’amore ricondotto indietro verso la natura!…L’amore come destino, come un destino cinico, innocente crudele, l’amore esatto nella sua forma natura. Io non conosco altro esempio dove la tragica ironia costituisce il nocciolo dell’amore sia stata espressa con tale severità, con formula così terribile come nell’ultimo grido di Josè : Oui, c’est moi qui l’a tuée. Carmen, ma Carmen adorée (Friedrich Nietzsche).

Il filosofo dell’Eterno ritorno dell’uguale che per non smentirsi sosteneva di aver visto l’opera di Bizet per 26 volte, si riferiva alla sontuosa, fluviale edizione originale che ha una durata di 4 ore e mezza.

Il balletto andato in scena al Verdi è una coreografia della suite che Rodion Kostantinovič Ščedrin trasse dal capolavoro di Bizet nel 1967. Cinquanta minuti scarsi di pura delizia basati sui temi principali e sulle arie immortali della Carmen in un condensato di emozioni superbe che acquistano, se è possibile, ancora più smalto e carisma a passo di danza. Folgorante, in questo senso, l’interpretazione sanguigna e vibrante dell’étoile Olena Dobrianska che impersona Carmen con una fisicità imperiosa e muscolare, carica di quella sensualità che Nietsche avrebbe definito Dionisiaca. Il grande pregio però del Corpo di Ballo Ucraino è la sua assoluta compattezza, anche le figure di seconda fila contribuiscono alla perfetta riuscita della drammaturgia come la prima ballerina; senza eccessivi protagonismi tutti ballerini sono in scena, testimoni e artefici di un evento perfettamente collettivo e letteralmente coreutico che riguarda ciascun danzatore insieme a tutti gli altri.

In questo senso, molto peso ha di certo la coreografia storica di Alberto Alonso ma anche la fantastica scenografia di Evgenii Gurenko, astratta, cinematografica e tutta virata ai colori sanguigni e alle atmosfere cupe, morbosamente sensuali. La scena nella quale si svolge tutto il dramma è concepita come un’arena per la corrida, un’enorme testa di toro stilizzata sovrasta tutto e tutti a rappresentazione delle forze telluriche e ctonie della passione ferina che agiscono, più in basso, tra gli spalti e la sabbia della tauromachia che, invece, vedrà il sangue di Carmen, in una similitudine tutt’altro che priva di significato. Inquietante la figura del destino nero e luciferino interpretato dalla scheletrica Maria Riazanteseva, vero demone dalle profondità dell’Ade. Come si dice, tradotto dal francese, nella famosa aria Toreador (Votre toast, je peux vous rendre):

“Il toro si slancia, balzando fuori dal recinto! Si butta in avanti! Entra Colpisce! Un cavallo corre, portando un picador! “Ah! Bravo toro!” Urla la folla, il toro va e ritorna, viene e colpisce ancora!…L’Amor! L’Amor! L’Amor! Toreador, Toreador, Toreador!”

Scheherazade di Nikolaj Andreevič Rimskij-Korsakov.
Dopo il breve canonico intervallo, il sipario del verdi si è alzato su una scenografia completamente diversa che ritraeva l’interno di un harem con uno stile orientaleggiante tipico dell’arte francese della fine del XIX sec. Erano le seduzioni esotiche di un medi-oriente fantasioso che affascinavano il cuore di tenebra dell’Europa che allora era nel pieno dell’epoca coloniale, dove l’ipocrisia dell’Occidente diceva di portare civiltà e buon governo; erano sempre e solo i soliti massacri, la rapina delle risorse e delle ricchezze locali. La falsa coscienza d’Europa voleva però solo odalische, stoffe colorate, sultani crudeli, turbanti e lame affilate.

Rimskij-Korsakov non intraprese subito la carriera di compositore ma proprio come Joseph Conrad che fu grandissimo scrittore, prima fu a lungo ufficiale di marina e viaggiò i sette mari raccogliendo storie, leggende e musiche le più diverse. Proprio quella esperienza fu determinante, naturalmente nella formazione del futuro compositore regalandogli soprattutto per quanto riguarda le opere liriche moltissimi spunti per narrazioni avvincenti e strane. Tra i tanti titoli si ricordi quello più bizzarro ed evocativo: “La leggenda dell’invisibile città di Kitez e della fanciulla Fevoornija” (1903).

Invece l’harem del balletto Scheherazade si vede eccome. Sul palcoscenico tutte le ballerine del corpo di ballo di Odessa languidamente attendono la “vigilia dei loro sensi”, anche Zobeide, la preferita “momentaneamente” dal sultano, langue e attende l’amore con la maiuscola. La storia è un adattamento ad opera di Michel Fokine per i Balletti Russi dell’originale di Korsakov. La vedova di quest’ultimo criticò aspramente lo stravolgimento dell’opera del marito ma ci fu poco da fare. La sua musica fu saccheggiata e resa compatibile con il nuovo libretto e le coreografie. Non si può nascondere il furto ma a noi cento anni dopo, resta un meraviglioso spettacolo con musiche assolutamente coinvolgenti e una coreografia piacevolissima.

In termini moderni la storia che si racconta con i movimenti del corpo è, per la precisione, un prequel della vera storia dell’Odalisca che scampa alla mannaia raccontando al sultano ogni notte una storia diversa fino a mille e oltre. Quello che si mette in scena è l’antefatto che ha scatenato l’ira del Sultano che per il tradimento della sua Zobeide ha deciso di “sposare” una vergine ogni notte e di ucciderla al mattino.

L’amata Zobeide, in passato, sfruttando una sua assenza, lo tradisce nell’harem con lo “schiavo d’oro” in un’autentica orgia che coinvolge anche tutte le altre cortigiane e i loro rispettivi amanti. Il sultano però aveva fatto solo finta di andarsene per mettere alla prova la fedeltà delle proprie mogli. Ritornato improvvisamente coglie tutti sul fatto e li fa passare a fil di spada in un’orribile strage. Donna Zobeide volendo lasciare comunque un segno d’orgoglio anche nella sventura, si suicida con il pugnale del sultano in un cupo dissolvi da autentica tragedia. Certo le musiche originali sono state stravolte e adattate ma sono di una bellezza talmente elevata da resistere a qualunque oltraggio.

Lo spettacolo è bello e funziona alla meraviglia, Ekaterina Andrenko che interpreta Zobeide in questa versione dello storico spettacolo di Fokin è travolgente nelle flessuose movenze del suo corpo che appare d’adolescente di una sensualità quasi efebica. Molto coinvolgenti anche le scene con tutte le ballerine in scena con i loro costumi sgargianti tutti sbuffi e ricami, divertenti anche se un po’ stereotipate le scene con l’eunuco di corte che si fa buggerare dalle odalische.

Una delle quartine del poeta persiano Omar Khayyam ci può aiutare a concludere queste righe nel ricordo di un’altra meravigliosa serata al teatro Verdi di Trieste tra le seduzioni della musica e della passione: “Guai a quel cuore in cui non è ardore di passione, che non è pazzo per l’amore d’una bella persona. Un giorno che tu abbia trascorso senza amore, non v’è per te altro giorno più perduto di quello.”

Flaviano Bosco © instArt