Lo stato della musica contemporanea nel nostro paese è inutile negarlo oscilla, per quanto riguarda il gradimento del grande pubblico, dall’orrido al miserrimo come diceva Woody Allen. Pur vantando una tradizione musicale in questo ambito di assoluto rilievo, basti citare Luigi Nono, Luciano Berio, Bruno Maderna, l’interesse per questo genere musicale rimane elitario e spesso confinato in ristretti circoli di appassionati. È vero che lo stesso discorso si può fare nel nostro paese per l’educazione musicale in genere ma basta dare anche solo un’occhiata ai cartelloni e alle stagioni dei teatri regionali per notare la totale assenza della musica contemporanea. Già è rarissima la presenza di composizioni di Schönberg, non è il caso nemmeno di parlare di Webern, Berg, Cage o Stokhausen, dei grandissimi autori italiani già citati nemmeno l’ombra. Non va troppo meglio nemmeno nei grandi centri e nella capitale; se non fosse per le meritorie manifestazioni come Contemporanea Agorà dirette da Cristina Scudieri e Vittorio Vella la questione non esisterebbe nemmeno.
Per tutto questo è una vera emozione, in una sera di ottobre, trovarsi davanti uno dei maggiori compositori italiani e una delle più grandi interpreti europee di quel repertorio così negletto.
Stefano Gervasoni è stato a lungo uno dei giovani più promettenti della musica d’arte europea ed è ora un affermato compositore a livello internazionale; Sophie Klussmann è una soprano dalla sfolgorante carriera nei teatri di tutto il mondo grazie ad un’incredibile versatilità e bravura che le consentono di affrontare un vasto repertorio, dalla musica barocca fino alla musica d’arte contemporanea.
Due figure d’artista affascinanti e fuori dagli schemi della consueta macchina schiacciasassi dello spettacolo.
La formula della manifestazione udinese, che prevede l’incontro diretto con gli artisti, in questo caso un lungo interessante dialogo informale tra il compositore e il musicologo Tosolini, cui è seguito un concerto, è sembrata assolutamente vincente nonostante il flagello delle norme anti-covid che certo ostacolano ogni tipo di avvicinamento e che anzi ci inducono a fare di tutto per mettere in pratica il contrario e mantenerlo.
Il Teatro San Giorgio, a causa dei protocolli o forse anche grazie ad essi, ha rovesciato completamente la propria prospettiva con un radicale cambio di fronte rispetto al passato. Lì dove prima era il palcoscenico, ora ci sono dei gradoni che ospitano il pubblico rigorosamente distanziato. Al posto della platea un grande spazio scenico che perfino vuoto e senza alcun intervento scenografico regala agli spettatori un fascino del tutto particolare. Non nuovo alle sperimentazioni di questo tipo, il San Giorgio è un luogo che si è sempre prestato ai più insoliti scenari e fondali sia da un punto di vista concettuale che più prosaicamente logistico.
Michele Biasutti ha piacevolmente conversato con Stefano Gervasoni a partire dalle tappe principali della carriera del compositore dai suoi anni di studio e formazione fino all’affermazione internazionale soprattutto a partire dal suo rapporto con l’IRCAM (Institut de Recherche et Coordination Acoustique/Musique) di Parigi. L’istituto, dalla sua creazione per iniziativa di Pierre Boulez nel 1977, è punto di riferimento mondiale per l’espressione musicale e la relativa ricerca scientifica. Come è scritto sul sito dell’istituzione: “In questo luogo unico collidono sensibilità artistica e innovazione tecnologica e scientifica”. Nel 1988 Gervasoni vinse un concorso che come premio prevedeva di poter frequentare in residenza i corsi dell’istituto per un anno. Fu tra i primissimi italiani a frequentare il corso di Composizione informatica insieme al compianto goriziano Fausto Romitelli, rendendosi subito conto che l’idea di coniugare con gli strumenti informatici la ricerca acustica a quella più squisitamente musicale garantiva moltissimi stimoli e prospettive.
L’ausilio informatico di alcuni software permette di razionalizzare o meglio normalizzare alcuni procedimenti compositivi che riguardano le strutture armoniche o ritmiche, tutto ciò ancora prima di scrivere una partitura, per comprendere più in profondità il motivo principale che si vuole sviluppare; vi sono anche tutte le informazioni che l’informatica può rendere disponibili dal punto di vista dell’esecuzione, sintesi, trattamento e riproduzione dei suoni dal vivo. In queste discipline, suo maestro negli anni successivi all’Ircam fu Alvise Vidolin, regista del suono e musicista informatico, presente al dialogo e collaboratore di Gervasoni.
Secondo alcune scuole di pensiero misticheggianti, il suono è una materia talmente viva che l’uomo non può consentire alla macchina di controllarlo, in realtà la macchina offre straordinarie possibilità di gestione e di creazione di sonorità che sarebbero del tutto al di fuori della nostra portata in altro modo. Tutto dipende però dalla cura e dalla perfezione degli strumenti tecnologici che utilizziamo e come li facciamo interfacciare con gli strumenti acustici.
Un ricordo particolarmente significativo degli anni dell’Ircam è, per Gervasoni, quello che riguarda il periodo nel quale l’istituto era aperto a tutte le ore e gli artisti e gli studiosi potevano accedere ai laboratori a qualsiasi ora del giorno e della notte con una straordinaria vitalità e un senso di comunità artistica sempre attiva e creativa anche se c’era una fortissima competizione.
Il suo saggio di studente prevedeva l’esecuzione di un brano per eufonio e campionamenti della voce del poeta Toti Scialoia registrati dallo stesso Gervasoni con una tecnologia che non padroneggiava adeguatamente; lo stesso Pierre Boulez, ascoltando il brano, disse che non si trattava di un brano musicale, proprio perché la parte tecnologica non era all’altezza della bellezza intrinseca della composizione.
L’ambiente musicale dagli anni ottanta ad oggi si è radicalmente trasformato tanto che la definizione di “musica contemporanea” è del tutto anacronistica; non è più possibile considerare nello stesso insieme la musica attuale e quella che ormai ha cento anni e che si è sviluppata negli anni ‘20 del Novecento. L’idea che Gervasoni ha del compositore e dell’artista in generale è paragonabile a quella di un albero i cui frutti dovrebbero essere buoni tutti, dal primo all’ultimo, nel corso degli anni.
Ogni brano che scrive deve essere per questo la testimonianza certificata del suo stato creativo; dice: “se mi accorgo che quello che ho prodotto non corrisponde esattamente al mio spirito provo a cercare in altre direzioni che possano aprire altre porte nella mia creatività senza pregiudizi, cercando linearmente di rendere la mia musica più concreta, solida e unica. Partendo dall’ispirazione mal compresa da Nono e da Sciarrino, dal loro pianissimo al timbro come oggetto statico dalle minime fluttuazioni nel tempo e nello spazio in un percorso che continua a dare frutti un working progress continuo. Basta confrontare i primi brani con gli ultimi che sembrano quasi scritti da compositori diversi; la diversità è un fattore utile per capire la fertilità e fecondità di un artista che ha la capacità di confrontarsi con molti stili e ispirazioni in modo eclettico”. La musica che si faceva negli anni ‘50 e ‘60 aveva un valore eminentemente di impegno politico e sociale rilevantissimo; è questo spirito che Gervasoni si sente di rivendicare. La musica può davvero cambiare il mondo, guarire o lenire le ferite che continuamente gli infliggiamo.
Ha aggiunto ancora Gervasoni che alcuni dei brani pensati per la serata sono dedicati alle vittime dei campi di concentramento, ogni lieder è dedicato a persone scomparse. Altre cinque composizioni sonore sono tratte da brani di Robert Schumann attraversati da altri oggetti sonori; il pianoforte è opportunamente trattato con degli eccitatori che trasmettono alla tavola armonica altre informazioni sonore che si accordano e trasformano accompagnando la composizione principale acustica per un effetto del tutto straniante che espande la qualità sonora della composizione. Le tecniche estese, ossia tutti i mezzi informatici ed elettronici della musica contemporanea, sono paragonabili all’introduzione degli strumenti nella musica barocca che proiettano e materializzano un desiderio espressivo, sono estensioni della voce che ne riproducono per esempio il vibrato, il trillo, tutto quello che facciamo rientrare nella teoria degli effetti semplicemente strumenti che amplificano la vocalità.
Non si scrive per il pubblico ma per gli interpreti che sono il tramite essenziale attraverso il quale il compositore, in un lavoro che è sempre collettivo, raggiunge il massimo della sua espressività. Dote essenziale di ogni vero artista anche arrivato all’apice del proprio successo è la modestia, la virtù di non credere di essere arrivato e di poter fare a meno degli altri. E’ vero che esiste una dimensione individuale della musica ma è insensata senza quella collettiva, metafora della società ideale è proprio la concordia che si crea nella musica corale.
La seconda parte della serata ha previsto l’esecuzione da parte del pianista Aldo Orvieto di una composizione in cinque movimenti di Gervasoni dal titolo Altra voce (2015-17), omaggio a Robert Schumann, per pianoforte e dispositivo elettronico trasparente che, come era stato spiegato durante la parte introduttiva, consisteva in un pianoforte preparato con strumenti elettronici che inviavano impulsi direttamente al pianoforte associandovi anche parti registrate e campionamenti tra i più disparati per un effetto sonoro davvero particolare e suggestivo, in alcuni momenti perfino sconcertante ma di sicuro interesse. Alcune definizioni del lavoro del pianista tratte dal programma di sala sono sembrate perfettamente calzanti alla sua splendida esecuzione: “Raro caso di pianista che guarda dentro la musica” unendo “Grande delicatezza a grande energia e sapienza tecnica”. Mattew Connolly sul Times gli riconosce una maestria impressionante: “Non dimenticherò il modo in cui Orvieto volgeva gli occhi per scrutare fin dentro l’inchiostro nero della partitura”. Difficile dargli torto.
La seconda composizione ancora più recente Sechs Grabschriften (Sei Epitaffi) datata 2017-19 su epitaffi di Nelly Sachs per voce e pianoforte ha visto come assoluta protagonista l’incantevole e inquietante Sophie Klussmann, le cui sorprendenti doti vocali e d’interpretazione estasiano ed atterriscono nello stesso tempo facendo comprendere all’istante il significato delle affermazioni di poco prima del compositore sugli interpreti e sulla loro importanza. La Klussmann ha una presenza scenica magnetica che è dovuta solo in minima parte alla sua indiscutibile, statuaria bellezza nordica da Shieldmaiden ma soprattutto alle sue straordinarie doti interpretative e attoriali dovute al talento e alla frequentazione dei teatri dell’opera. E’ riuscita benissimo a trasmettere tutta la tragica sofferenza delle vittime dell’abominio nazista. Sei brani dedicati ciascuno alla descrizione di una vittima: L’irrequieto, Quella che scavò la fossa al suo bambino, la pittrice, il marionettista, l’attrice, lo sconfitto, per un universo di dolore.
Per non concludere la serata con la morte nel cuore, come ha detto testualmente, la Klussmann ha voluto concedere il bis cantando Think it “concepito a mo’ di canzone per un musical” una delle Tre canzoni popolari composte da Gervasoni (2011-14), rielaborate in profondità tanto da collocarle nel cosiddetto contesto “colto” della musica contemporanea. La composizione prevede anche una canzone dal folklore lucano di tradizione arbëreshë ed una da quello friulano ed è proprio con le parole di quel testo che si sono volute concludere queste righe. Un’antica villotta che contiene il significato stesso e il senso della musica che possiamo trovare, nella sua forma più autentica, solo nel cuore felice di una piccola bambina che dorme.
Sdrindulaile, Sdrindulaile che bambinute
che si torni
che si torni a indirmidì.
Sdrindulaile.
Sdrindulaile che bambinute
che si torni,
che si torni a indurmidì
© Flaviano Bosco per instArt