La calda e magica notte estiva del solstizio, con qualche nuvola all’orizzonte, ha fatto da splendida cornice all’esibizione di Cat Power, apertura della formidabile rassegna Sexto’nplugged.
Cat Power iniziò a suonare piano e chitarra a vent’anni ed esordì con “The Headlights” un’auto-produzione a 7″ nel ’93. La sua musica e le sue iniziali performances ubriache di quello che è stato definito “dark-folk” sono decisamente un ricordo. Di quell’aura da “Maudit”, la signora Charlyn Marie “Chan”, questo il suo vero nome, non porta con se che il ricordo.
Se nei “beati anni del castigo” si presentava in scena con un’intera bottiglia di Jack Daniels che si scolava fino a stordirsi e a collassare, oggi appare come un’affascinante chanteuse con un calice di rosso in mano che finge di sorseggiare e a fine spettacolo non ha ancora terminato. Brinda verso il pubblico che la intravede appena, sorride dolcissima e canta le sue meravigliose canzoni senza più atteggiamenti autodistruttivi da “spleen di Parigi”.
Quei tempi sono passati ed è cambiata anche lei, musica e stile compresi. Sinceramente il cambiamento le ha giovato parecchio, a cinquant’anni suonati d’altronde non potrebbe nemmeno permettersi le ubbie e i cupi capriccetti della ragazzina “scappatadicasa” che era allora.
In realtà, da almeno un decennio la cantante ha decisamente sterzato nello stile diventando ancor più raffinata e consapevole di com’era agli esordi; ora predilige sonorità elettro acustiche , rivestite da una patina oscura e da un onnipresente senso di malinconia. Le sue canzoni sono arrangiate in modo essenziale: soltanto un piano, oppure chitarra e batteria. Non serve molto altro alla sua voce rauca e seducente per arrivare al cuore dell’ascoltatore.
La rassegna di Sesto al Reghena si conferma da anni e anche in questa edizione, come una delle più interessanti ed esclusive non solo sul territorio regionale ma del panorama italiano tutto. Le sue proposte raffinatissime ormai ribadiscono una decennale avventura di ricerca e di scoperta di realtà musicali uniche e fuori dagli schemi. Ad influire sulla riuscita di questo miracolo musicale che si ripete annualmente è davvero anche il luogo come dice giustamente lo slogan della manifestazione che non mente proprio per niente.
Il sagrato dell’abazia millenaria con la torre campanaria che incombe sul palcoscenico, la porta nelle mura medievali, il piccolo borgo che la contiene, l’atmosfera sospesa tra le acque sorgive e il cielo, trasformano le esibizioni degli artisti da semplice routine in un’autentica esperienza musicale che non può essere paragonata a quella dei club o dei palazzetti dello sport urbani e tanto meno con quella dei Beach party, degli stadi o dei concerti da decine di migliaia di spettatori.
Che però non si tratti solo di estasi mistico-musicali ma di vero divertimento, lo dimostra anche la fila interminabile al chiosco interno delle birre e degli hamburger; le solite lunghe attese, normale amministrazione per un momento importante di socializzazione e d’incontro.
Mentre la gente prima del concerto discuteva, prendeva posto, si guardava in giro, scattava milioni di foto, si “messaggiava” a distanza di due metri e via di seguito, un gatto certosino, perfettamente indisturbato e a suo agio, passava sotto le poltroncine, sornione e per nulla spaventato, era proprio un micione d’abazia che conosce fino in fondo i veri segreti dell’esistenza e ce li mostrava e diceva con ogni suo movimento ma noi non siamo stati capaci né di vederli, né di sentirli. Lui lo sapeva bene e per questo ci guardava tutti con commiserazione nel nostro vacuo agitarci andandosene calmo e pacifico senza inutili affanni.
Ad aprire lo spettacolo è stato Arsun Sorrenti, classe 1999, figlio di un famoso fotografo di moda e con pochissime altre referenze e talenti da poter esibire.
La sua musica è davvero poca cosa, uno dei milioni di cloni dell’unico Bob Dylan con in più un’arroganza che il menestrello di Duluth, Minnesota non ha mai avuto anche se se la poteva permettere.
Imbracciare una chitarra, strimpellare quattro accordi in croce e cantare in un microfono non significa certo essere un folksinger e nemmeno aver qualcosa da dire.
Certo ci vogliono un bel coraggio e una certa faccia tosta che a Sorrenti di certo non mancano, per presentarsi come il nuovo Dylan e dichiarare che “creerà qualcosa di nuovo che resterà per sempre” quando le caratteristiche più importanti della sua carriera sono sottolineate solo dalle marche e dai modelli dei vestiti che indossa e che ostenta nelle foto ufficiali fatte da suo padre con tanto di didascalie.
Dice che è la prima volta per lui in un tour europeo, tutto può essere ma, a meno di qualche miracolo del marketing, non ce ne saranno molte altre. Comunque, tutte le cose anche le più spiacevoli sotto il cielo della luna, prima o poi finiscono e così è stato anche per il set di Sorrenti. Il pubblico, molto generoso, ha applaudito convinto, perciò ha ragione lui e tutti i suoi milioni di followers sui social. “Va bene, va bene così” come cantava quel signore o quell’altro che diceva: “It’s all right Ma, i’m only bleeding”.
Dopo una breve pausa ristoratrice, è stato finalmente il momento della vera star della serata tanto attesa dal pubblico.
Cat Power è salita sul palco in piena oscurità e poi con le luci “sparate” dal fondo scena in modo che il pubblico percepisse solo un’ombra, una presenza enigmatica, è stato così per quasi tutta l’esibizione fino a quando ha chiamato il pubblico sotto al palco e si è finalmente mostrata in tutta la bellezza dei suoi sorrisi che prima si potevano solo immaginare.
Inizialmente, sono stati la macchina del fumo, un semplice gioco di luci bluastre e verdi, a far emergere la cantante da una caligine oscura in cui lei e la band si stagliano misteriosi come da un altra dimensione, celati così ma in bella evidenza.
Di sicuro è stata una precisa scelta scenografica, non tanto per farsi desiderare ma per fare che il pubblico si concentrasse prima di tutto sull’esecuzione e sui brani e non tanto sulla sua persona mortale. La sua voce, con qualche effetto di eco, è davvero sufficiente a trasportare gli spettatori verso una visione che è del tutto immateriale e penetra al di la dell’apparenza sensibile.
L’arte della cantante di Atlanta , Georgia non ha bisogno d’altro se non di ascolto e di un certo stato di abbandono; è necessario farsi un po’ trasportare dal fiume lento dei ricordi e della malinconia, guardare dentro se stessi senza doversi perdonare a tutti i costi.
I brani in scaletta, molti dei quali tratti dall’ultimo suo album dal titolo rivelatore di “Covers”, sono stati eseguiti spesso uno dentro l’altro, oppure fusi insieme quasi in forma di suite così da contribuire volutamente a creare un certo spaesamento nel pubblico che non poteva limitarsi a seguire il solito susseguirsi di brani più o meno famosi o riconoscibili. Le sue cosiddette cover non sono versioni o rielaborazioni, ma vere e proprie interpretazioni, non sono molti gli artisti che hanno questa capacità.
E’ bastato sentire i primi brani del concerto per comprenderlo e per trovarsi proiettati in una profondità ovattata e insolita di felicità dolce-amara, dove solo l’estro e il talento di una grande artista può condurci.
Da dietro la cortina di tenebre, appariva inquieta, sofisticata e sostenuta da semplici accordi di chitarra e colpi di grancassa come tuoni di temporale, in arrangiamenti, tutto sommato scabri, elementari e diretti; a volte si faceva strada con la propria voce nella notte del monastero, quasi a ritmo di marcia, sempre più rapida, fino a diventare forsennata e perfino implacabile. Non c’è che dire, molti dei suoi brani dal vivo crescono in maniera del tutto imprevedibile come un torrente in piena fino a trabordare, rompendo gli argini dell’emozione.
La voce leggermente effettata con un lieve ritorno le donava ancora più mistero e seduzione , mentre intonava ballad notturne e della periferia urbana che sembravano brani sentiti alla radio distrattamente mentre si guida in una città che dorme desolata e “dimentica”, dove si vedono solo gli insonni e quei pochi che ritornano da dove se n’erano andati. Erano nostalgie d’amore e d’abbandono piene di dolci rimpianti ed inganni per qualcosa che non si è dato ma che avrebbe potuto come tutte le cose più belle.
Passava morbida da un brano all’altro, senza una minima sbavatura o incertezza da vera professionista, solida come i musicisti che l’accompagnavano. A inizio carriera, ormai tre decenni fa, dichiarava che il momento peggiore di ogni esibizione è quello in cui bisogna ringraziare il pubblico al quale non bisogna mai dare troppa confidenza. Gli anni sono di certo serviti a farle cambiare opinione perché a Sesto al Reghena ringraziava continuamente per ogni singolo applauso e per l’attenzione con la quale il pubblico l’ascoltava in religioso silenzio fino all’esagerazione di quelli che sembravano autentici e devoti atti di adorazione.
Come dicevamo, la musica di per se non aveva niente di speciale o inaudito, ma la cantante ha avuto la capacità di renderla straordinariamente efficace. Niente di musicalmente travolgente o nuovo ma del tutto onesto ed elegantemente rilassante e meditativo, in perfetta corrispondenza con il modo di presentarsi di Cat Power che ondeggia e si muove senza mai essere sguaiata anche se si capisce che non è per nulla una ballerina provetta. Miagolava perfino e faceva le fusa come il gatto certosino di prima che, a pensarci bene, forse gironzolava per le sedie proprio per vedere lei
Il gioco si è fatto a volte via via più energico e scatenato con momenti lirici e aspri fino a far ricordare una certa Patti Smith dei bei tempi andati del CBGB’s, ma sono stati solo momenti. Anche il post rock è ormai decisamente postumo per non parlare del punk almeno in questa accezione.
Mentre l’esibizione prendeva corpo, nel cielo, dietro l’enorme torre campanaria, si vedevano gli squarci e i lampi di temporale in avvicinamento, mentre cadeva qualche goccia qua e la, il tutto conferiva allo spettacolo un’atmosfera ancora più sinistra.
Dopo tanto mistero e distanza, ad un certo punto la cantante ha invitato tutto il pubblico devoto sotto il palco a ballare con un brano decisamente ritmato e gioioso, con tanto di elettronica e drum machine. Ispirata e meditabonda, dopo essersi scatenata per un attimo, è subito ritornata con una nenia piuttosto funebre a ristabilire gli equilibri prima che qualcuno si montasse la testa.
L’attesa per il concerto di Cat Power è stata lunga e snervante, i continui rimandi, le incertezze dell’incolpevole organizzazione, il concerto più volte rimandato, tanto che era sembrato ormai una chimera, sempre sfuggente che se ne sentiva solo la scia dell’odore come nelle leggende medievali, ma l’attesa finalmente è stata ben ripagata. Non capita troppo spesso di poter assistere a tanta grazia e potenza gentile. In fondo si tratta sempre e solo d’amore ma, evidentemente, non ne possiamo proprio fare a meno.
La scaletta: Say/Great Expectations, (I Can’t Get No) Satisfaction (The Rolling Stones cover) Jack/Good Woman, A Pair of Brown Eyes (The Pogues cover) Unhate, Bad Religion (Frank Ocean cover) White Mustang (Lana del Rey cover) These Days/Metal Heart, Cross Bones Style/ Nude as the News, The Moon, Great Waves (Dirty Three cover) New York, New York/Manhattan, I’ll Be Seeing You (Sammy Fain cover) He Was a Friend of Mine/Shivers, The Greatest, Wild Is the Wind/Me Voy, Rockets.
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