Il CSS, Teatro Stabile di Innovazione del Friuli Venezia Giulia, ha portato sul palcoscenico del Teatro Pasolini di Cervignano del Friuli l’11 gennaio (e in replica il 12 al Palamostre di Udine) “L’abisso”, tratto da “Appunti per un naufragio” (Sellerio Editore, Premio Anima Letteratura 2017, Premio SuperMondello e Mondello Giovani 2018), un’ intensa ed attuale piéce sul dramma degli sbarchi scritta e interpretata dallo scrittore e attore palermitano Davide Enia.

Le musiche, composte dal bravissimo Giulio Barocchieri, sono eseguite dal vivo e la sua chitarra elettrica è una presenza fondamentale in scena “per cercare suoni distorti, sporchi perché sporca e distorta era la realtà che avevo incontrato nella terra di frontiera”, spiega Enia in un’intervista rilasciata di recente. L’effetto cercato diviene reale sulla scena ed è straordinariamente espressivo, come il cunto palermitano che l’autore sposta in un nuovo scenario, il mare aperto, come gli antichi canti popolari polifonici dei pescatori siciliani, che i due artisti intonano nel corso dello spettacolo o come il riff ossessivo e stridulo che scandisce il racconto di uno dei tanti naufragi…

Non servono scenografie ed effetti visivi quando la parola e i gesti sono come la fionda di un altro Davide, che abbatte tutti i Golia della terra. Così è stato venerdì con Davide Enia, la potenza del logos ha messo a nudo tutto il male e l’inadeguatezza dell’attuale politica oscurantista.

Attraverso le storie dei migranti e dei loro sbarchi sull’isola di Lampedusa, che spesso finiscono in tragedia, raccontate in uno tra i più riusciti intrecci con il vissuto personale dell’autore che mai mi sia capitato di vedere, scendiamo in un abisso liquido e profondo dove non filtra la luce della pietās e della solidarietà, dove tutti sembrano afflitti dalla sindrome “nimby” – not in my backyard, non nel mio orticello – dove è più facile barricarsi in una comfort zone, affinché niente e nessuno possa sconvolgere le nostre illusorie convinzioni né scalfire l’andamento apparentemente sicuro delle nostre vite.

Ed è proprio da quel rifugio interiore, fatto di silenzi, di rassegnata tranquillità e di certezze, che Davidù strappa il padre, per portarlo con sé a Lampedusa, facendo leva sulla sua passione per la fotografia, nata dopo il pensionamento dalla professione di cardiologo.

Lo scrittore si reca sull’isola per poter raccontare degli sbarchi e il padre, uomo d’altri tempi, saggio ma un po’ alessitimico, ovvero riluttante a verbalizzare sentimenti e stati d’animo, diviene per il figlio il compagno di viaggio più inaspettato.

Ciò che vedono a Lampedusa li unisce e li trasforma per sempre.

Sul molo Favaloro o nella tristemente famosa Cala Tabaccara, con le migliaia di anime dei migranti scomparsi in mare, non ci sono soltanto Davide, suo padre, la sua amica Paola con Melo, Vincenzo, il custode del camposanto, i rescue swimmer della guardia costiera, il sommozzatore nordico, un gigante-buono, il medico del poliambulatorio o i pescatori, che tirando su le reti trovano… un calamaro, una cernia, un cadavere, uno sgombro…

Idealmente, con loro sull’isola, c’è anche lo zio Beppe, al quale hanno appena diagnosticato una recidiva del cancro, c’è Silvia, la compagna di Davide, che lo sprona a trovare il coraggio per affrontare i suoi fantasmi… ci siamo noi, impietriti e vulnerabili spettatori di un dramma collettivo, immobili, sulla nostra poltroncina in un teatro di provincia. Noi, percorsi da un dolore incomprensibile e da ondate di nausea violenta, che ci viene tramessa, come per osmosi, dalle mani di Davidù, che fendono l’aria come se stesse annaspando per non affogare, raccontando di Vincenzo, nume tutelare del camposanto di Lampedusa, mentre cerca di portare a riva poveri corpi decomposti e straziati dallo scempio del mare e dei pesci, corpi che erano persone e che ora non hanno più un’identità. Vincenzo, che si vergogna di provare nausea e disgusto e si riempie il naso di mentuccia, per non vomitare.

In qualche modo, lo facciamo anche noi con le nostre coscienze… per non sentire il tanfo dell’odio che continuiamo a vomitare.

Noi, che è facile dire: “eh ma io non sapevo…”, anche quando non è vero. Noi, malati di social network, in un moderno isolamento di massa (un ossimoro che ha smesso di esserlo…); noi, che abbiamo perso anche la capacità di indignarci davanti alle esternazioni del capo-popolo di turno, stolido e borioso, che davanti a esseri umani con la sola colpa di essere nati nel lato sbagliato del mondo, che fuggono dalle atrocità, dalle sevizie, dalle torture, dalle vessazioni, dichiara tronfio: “abbiamo già dato…”.

Abbiamo già dato cosa? Loro hanno dato… hanno dato la propria vita per inseguire una speranza di libertà.

Sono uomini, donne e bambini ai quali quel diritto “alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona”, che sta scritto nero su bianco nella Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo del 1948, è stato negato ed è per questo che rischiano ogni giorno la morte attraversando il mare, è per questo che sopportano la fame, la sete, le angherie dello scafista, è per questo che i padri preferiscono affidare i propri figli all’ignoto, pur di evitare che subiscano la loro stessa, terribile sorte…

Davidù ha assistito a centinaia di sbarchi, ha visionato decine di filmati della Guardia Costiera, ha cercato di sciogliere i suoi nodi esistenziali e il suo dolore dentro a quintali di marmellata d’arance, ha visto la vera faccia della sofferenza, non facendo nulla per quartiarsi da essa e non permettendolo neppure a noi.

E questo ci ha fatto finalmente indignare, arrabbiare… frantumare i nostri abituali modelli di pensiero e, finalmente, comprendere che non siamo soli. Non siamo i soli.

Dopo almeno cinque minuti di applausi, Davide e Giulio ritornano sulla scena. L’excipit della storia racconta del male che ha vinto anche sul tenace attaccamento alla vita dello zio Beppe, racconta di cerchi che si chiudono, di figli che ritrovano i propri padri, che un tempo sono stati figli, archetipi che coesistono gli uni con gli altri. Davidù ci ricorda il mito di una principessa fenicia, figlia del re di Tiro, che scappa dalla sua città, “attraversando il deserto fino al suo termine, fino a quando i piedi non riescono più ad andare avanti perché di fronte c’è il mare. Allora incontra un toro bianco, che si piega e la accoglie sul dorso, facendosi barca e solcando il mare, fino a farla approdare a Creta. La ragazza si chiamava Europa. Questa è la nostra origine”.

Perché quando la terra finisce, non si può fare altro che salire su una barca e tutti noi, nessuno escluso, siamo figli di una traversata.

Marina Tuni ©/ InstArt 2019

L’Abisso / Anno 2018 / Testo di e con Davide Enia spettacolo tratto da Appunti per un naufragio (Sellerio editore) / musiche composte ed eseguite da Giulio Barocchieri  / produzioneTeatro di Roma, Teatro Biondo di Palermo, Accademia Perduta Teatri in collaborazione con Festival Internazionale di Narrazione di Arzo