Franco Savadori, da Hong Kong
Da sfegatato amante del canto Jazz, quale sono sempre stato, il nome di Robbie Chard ritornava nelle mie orecchie, a ciclo temporale costante, citato qua e là da qualche sodale isontino di cose musicali… Ma le notizie erano sempre frammentarie, vaghe, sospese in quella particolare aura in cui il vissuto umano sembra tanto impalpabile da sfociare, per verbal destino, nel leggendario e nel mitico. Insomma: in parecchi citavano il suo nome, ma di lui non si sapeva nulla di concreto. Nessuna traccia discografica, nessun documento sonoro che potesse aiutarmi ad inquadrare il personaggio, a capire se fosse veramente il crooner internazionale di cui si vagheggiava nei nostri discorsi da compulsivi conclamati in qualche ameno contesto di pre o post concerto.
Nella mia profonda disperazione metafisico-auditiva, mi appellai persino a quell’autentica enciclopedia ambulante rappresentata dall’amico goriziano Giuliano Almerigogna che, musicalmente parlando, ne sapeva tanto di tutto e di tutti, avendo nella sua intensa vita tra le note intervistato centinaia d’artisti, da Wilma Goich a Joe Zawinul, sempre con eguale entusiasmo, curiosità e professionalità. Ma anche il buon Giuliano, al mio pari ossessionato e flippato per queste cose, mi confessò che purtroppo non era mai riuscito a risalire a qualche oggettiva traccia musicale prodotta dall’ineffabile monfalconese, da tempo immemore oramai disperso in lontane lande esotiche.
Passò del tempo, ed accadde che nel primo anno del nuovo millennio ebbi modo di aprire il mio nuovo ristorantino denominato alla “Scala”, dove era mia intenzione procedere, come avevo già fatto nei luoghi precedentemente da me gestiti, con una ben precisa programmazione musicale di concerti dal vivo, tanto apprezzati da amici e da una clientela piuttosto incline alla buona musica. In uno dei primi giorni dall’apertura, ebbi la gradita visita di Serena, una simpatica amica monfalconese, accompagnata nella circostanza da altre due signore. In sottofondo tenevo sempre della buona musica, per lo più le mie tanto adorate ugole jazz, come Tony Bennett, Mark Murphy, Jon Hendricks, Dianne Reeves, Dee Dee Bridgewater e molti altri della stessa pasta. Nel sentire questa musica, una delle due amiche di Serena mi disse: «Ma lo sai che mio fratello canta proprio in questa maniera?». «Interessante – replicai io – e scusami, potresti dirmi chi sia questo tuo dotato  fratello?» E lei rispose risoluta: «Mio fratello è il cantante Robbie Chard, che da decenni vive in Oriente, ma che ora è qui a Monfalcone per assistere la nostra anziana e malandata madre». Non persi neanche un istante ad invitarla a ritornare nel mio locale assieme al fratel prodigo redivivo, per mia ed altrui gioia, in quel di Monfalcone. Approfondendo il dialogo con costei, lei mi disse che non era certa di riuscire a trascinare Robbie nel mio ristorante, dato che era stato colto da una sorta di forte depressione, a seguito di sue vicissitudini esistenziali… Al che le replicai che se così era, forse svagare il fratello portandoselo un poco in giro avrebbe potuto risollevarlo dal suo stato di prostrazione. La cosa finì lì, e per un discreto lasso temporale nessuno parlò più di Robbie Chard.
Qualche mese dopo, in una giornata solatia, un uomo alto, di bell’aspetto e dall’incedere signorile, varcò la soglia de la “Scala”. Compresi immediatamente che egli altri non poteva essere se non il crooner ed entertainer Robbie Chard. Già, perché in lui si notava subito la postura di chi per una vita aveva solcato i palchi di mezzo mondo per intrattenere il pubblico. Ciò traspariva immediatamente dal modo di sorridere, di parlare e del muoversi in generale, proprio a  tale categoria umana, senza contare l’elemento fondamentale che contraddistingue tutte queste persone, e cioè il timbro della voce, sempre accattivante e peculiare.
Nel primo dialogo che avemmo, compresi immediatamente che l’allora 52enne cantante si trovava in una condizione esistenziale alquanto critica, e che il ritorno nella città natia era il risultato di qualcosa di molto spiacevole accadutogli qualche mese prima. Mi accennò, infatti, che la moglie con la quale viveva ad Hong Kong lo aveva letteralmente buttato fuori di casa, con tanto di valigie oltre la soglia e la serratura della porta sostituita ad hoc… Ergo, al momento si trovava ad essere solo e spiantato, senza una lira in tasca, senza alcuna prospettiva lavorativa all’orizzonte e pure con una madre moribonda in casa, dato che si era visto costretto a trovar rifugio momentaneo sotto l’antico tetto materno.
Subito cercai di rinfrancarlo, dicendogli che avevo bisogno di un aiuto in sala e spiegandogli anche il mio piano musicale, per il quale egli avrebbe potuto benissimo fungere da intrattenitore in pianta stabile all’interno del mio locale. Non potevo, ovviamente, compensarlo con uno stipendio lasvegasiano, ma per lo meno avrebbe ricevuto una giusta paga sindacale, con tanto di integrazione sullo stipendio per ogni sua performance  e tutti gli altri benefit del caso, pranzo e cena inclusi. Detto  fatto, ci accordammo subito in tal senso. A me urgeva un cameriere ed a lui serviva un certo sostegno monetario continuativo. Meglio di così – almeno teoricamente – non ci saremmo potuti organizzare.
La realtà oggettiva è che l’uomo era poco avvezzo alla puntualità d’orario, così come alla disciplina che dev’essere propria a qualcuno che lavora in equipe, soprattutto se tale gruppo è a numero ridotto, com’era nel nostro caso. In senso caratteriale, essendo un anglo-italiano, nel senso che era vissuto molto più in contesti anglofoni che non nel bel paese, Robbie Chard aveva la spocchia propria agli inglesi, con tanto di puzza sotto il naso, e pure la permalosità propria alla mentalità italica, creando così una miscela esplosiva che si concretizzava appieno in termini di strafottenza e di male azioni diffuse, soprattutto nei confronti dei colleghi sottoposti, che egli molto britannicamente giudicava esseri inferiori. Inoltre, ad aggravare il tutto ci stava il forte attaccamento che il cantante aveva con l’alcool, che si concretizzava in un consumo medio di tre bottiglie di vino rosso, modulate a livello assimilativo nel corso dell’intero orario lavorativo, più un adeguato numero di sigarette, in perfetta sintonia con i calici assimilati. Con questi presupposti, come ci si può immaginare, non risultava molto facile operare con l’artista fattosi cameriere per circostanze esistenziali.
D’altro canto, però, Robbie Chard possedeva molte doti che resero il nostro posto davvero unico ed inimitabile. Ricordo che ci divertivamo come infanti quando entravano dei clienti ignari che io provvedevo a far accomodare, dicendo loro che il nostro cameriere sarebbe arrivato immediatamente a prendere l’ordine, seriamente apostrofando loro: «Questo signore è davvero professionale, ma purtroppo ha il pallino di credersi uno che canta come Frank Sinatra. Se vi chiede quale sia la vostra canzone preferita di Sinatra, vi prego di rispondergli, dato che vorrà cantarvi quella canzone. Vi prego di avere un po’ di pazienza e di comprendere la circostanza…». Ovviamente tutti, di fronte a questa mia esternazione, rimanevano tanto sbigottiti quanto incuriositi, e quindi inclini ad assecondare gli strani desideri dell’anomalo operatore. Ricordo che durante la visita di tre anziane signore a cui venne fatto lo scherzo, tutte e tre si misero a piangere a dirotto dopo aver sentito la stupenda versione di “My Way” che egli dedicò loro cantandola a “cappella”, cioè a voce scoperta. Molte persone non capivano, ma i più scafati comprendevano d’acchito che si trattava di qualcuno avvezzo al canto ad un alto livello professionale. Fatto sta che tale extravaganza divenne metodo e, in un paio di mesi, la gente prese l’abitudine di ritornare con altri amici e parenti per risentire  il fenomenale cameriere canterino. Come potete immaginare, è chiaro che nel momento in cui costoro prendevano un minimo di confidenza con Robbie, in lui scattava immediatamente la molla dell’entertainer, con migliaia di battute desunte dalla scuola americana, del tipo: «Sapete, Liza Minelli ha avuto tanti alti e bassi nella sua vita, ma sembra che comunque se li sia fatti tutti! », esternazione che egli usava pronunciare prima di cantare la famosa canzone “New York, New York”, che da sempre aveva rappresentato uno dei massimi cavalli di battaglia della figlia di Judy Garland. Oppure quando dedicava “I’ve Got You Under My Skin” “a tutte le suocere del mondo” o altre mille facezie che contribuivano a trasmettere buon umore a tutti gli astanti. Poiché i posti a tavola erano limitati, il più delle volte si creava quella magica atmosfera in cui tutti partecipavano all’unisono all’evento e così molti contraccambiavano le battute e spesso partecipavano agli sketch,  creati tanto dallo stesso Robbie, oppure anche proposti da qualche cliente particolarmente incline al cabaret o alla barzelletta. Se fuori dal ristorante pioveva a dirotto, Robbie Chard accoglieva i clienti con “Raindrops Keep Fallin’on My Head”, “Have You Ever Seen the Rain”, oppure “Rainy Night in Georgia”. Quando viceversa faceva caldo, allora non mancava d’accennare ad alcuni versi di “In the Summertime”, oppure ancora di “Odio l’Estate” o della classica “Summertime” gershwiniana, da tutti conosciuta. Ce n’era sempre per tutti e per tutte le occasioni… Se nel locale si celebrava un compleanno, allora Robbie si  scatenava nel dedicare la classica “Tanti Auguri a Te”, tanto in italiano, quanto in inglese, coreano, giapponese e cantonese, data la sua confidenza con tutti questi idiomi. La gente impazziva e tutti mangiavano e bevevano con gioia e voluttà. Insomma: Robbie Chard sapeva essere un vero e proprio trascinatore di folle quando immerso nella sua arte e quando preda della bellezza musicale da lui stesso creata, che egli esprimeva così bene, tanto nella qualità di crooner, cioè di cantante confidenziale e romantico, quanto nella sua veste di divertente scater, cioè d’improvvisatore non-sillabico nello stile di Louis Armstrong.

Il fatto è che Robbie Chard, tecnicamente parlando, era un grande professionista, di quelli forgiatisi nei contesti internazionali delle grandi catene alberghiere, dei casinò, o dei più lussuosi centri di villeggiatura, ancorché delle navi da crociera, quando questa formula turistica risultava ancora molto elitaria. Egli, come gran parte degli artisti della sua generazione, aveva avuto la fortuna/sfortuna di lavorare in quei decenni – anni ’70 ed ’80 – in cui le paghe erano molto alte ed i turni lavorativi spesso molto rilassati. Sulle navi si lavorava un’ora e mezza ogni sera, e per il tempo rimanente i cantanti come lui si trastullavano con belle e ricche signore a bordo piscina, oppure si dedicavano ad altre attività altrettanto amene. Il consumo di alcoolici no limit e l’accesso a sigari e sigarette (per non parlare di altro…) era una costante di quei decenni, vissuti all’insegna dei miti di James Bond e di molte altre figure dello stesso tenore, in cui il trinomio bacco, tabacco e venere era sinonimo di bella vita e di nirvanica opulenza. E pure Robbie Chard fu fautore e vittima di quel precipuo momento storico, con tutti i suoi molti eccessi e le sue scarse virtù, dato che l’apparente facilità di guadagno portò pochi a risparmiare, a maggior ragione in quegli effimeri templi dell’easy come, easy go. Un’epoca in cui il presente sembrava essere infinitamente tale, ma che in realtà vide il suo tramonto alla fine degli anni ’80, quando quel mondo cambiò, per non ritornare mai più ad essere lo stesso di prima. Tant’è vero che con l’avvento del decennio successivo,  per gli addetti allo spettacolo – all’infuori dei numeri uno – le paghe si ridussero ed i turni lavorativi si raddoppiarono o triplicarono, senza più troppi gadget ed optional di contorno.
Ma in quegli stessi contesti Robbie Chard aveva avuto modo di crearsi un repertorio infinito, che dagli standard del grande Songbook americano, passavano direttamente ai classici Pop, Rock e Soul degli anni ’60 e ’70, sino a tutto il grande repertorio degli anni ’80, in cui rientrava di tutto e di più, da Chick Corea sino a Prince, passando per Lionel Richie, Stevie Wonder e mille altri celebri autori-esecutori.
Come gusti e come riferimenti canori personali Robbie ammirava soprattutto la rotondità delle corde del grande Johnny  Hartman, l’insuperato balladeer nero dal timbro vellutato, mentre aveva come riferimento massimo la vocalità di Mark Murphy, secondo Robbie il cantante più grande in tutta la storia del Jazz, tanto per il suo eclettismo, quanto per le sue continue ricerche timbrico-sonore. Con Murphy, così come con Tony Bennett, Brook Benton, Jon Hendricks ed altri grandissimi, aveva diviso il camerino quando costoro erano in tournée in oriente, al Pit Inn di Tokyo, o in qualche catena alberghiera internazionale. Quando gli chiesi di cosa avesse mai parlato con questi suoi illustri colleghi, mi rispose laconicamente: «Di nulla. Ci siamo semplicemente detti “Hi”, dato che uno usciva dal palco e l’altro vi entrava!». In realtà, poi, mi rese edotto del fatto che con Mark Murphy  aveva avuto modo di ubriacarsi parecchie volte, dato che pur essendo sempre stato il più grande, al pari dello stesso Robbie, il cantante di Syracuse non aveva mai accettato di entrare nello star system, quello stesso a cui appartenevano tutti quelli che si erano piegati ai diktat dell’industria discografica, ed avevano accettato d’essere ingoiati nella grande macina dell’industria dello spettacolo di Las Vegas, rimanendovi là sovente per venti, trenta o addirittura quarant’anni a fare il verso a loro stessi, per una clientela che con costoro invecchiava e parimenti s’imbalsamava.
Ma fu in una sera particolare che al ristorante alla “Scala” Robbie Chard diede il meglio di sé stesso, e ciò accadde proprio nel momento in cui l’amico giornalista Giuliano Almerigogna venne portato dal sottoscritto in loco per sentire e vedere finalmente il nativo monfalconese all’opera. Non ricordo quali fossero i musicisti che lo accompagnavano in quella specifica serata, ma ricordo che Robbie cantò tutto in maniera così ispirata e così sublime, che a fine serata trovai Giuliano che piangeva di gioia come un bambino piccolo piccolo. Il giorno successivo uscì un bel articolone sul “Messaggero” nell’edizione di Gorizia intitolato a lettere cubitali “E ROBBIE CHARD CANTA LET IT BE”, in cui l’edotto giornalista parlava con dovizia di particolari della bravura di Robbie e del repertorio da lui sfoggiato in quella circostanza.
Adesso che tanto Giuliano quanto Robbie non sono più tra noi, qualche lacrima di commozione la verso anch’io, com’è naturale che sia, pensando a tutti quegli attimi di gioia e di vita vissuti assieme a questi amici, persone tanto umanamente imperfette – come del resto lo siamo tutti noi – ma al contempo così unici e così geniali da essere capaci di donarci quei momenti di assolutezza artistica che sono destinati a rimaner scolpiti nei nostri cuori e nei nostri ricordi vita natural durante. Quegli stessi attimi che rendono la vita degna di essere totalmente vissuta e gustata. Fino all’ultima nota.
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