Il concerto di Giovanni Sollima era tra gli eventi più attesi del Mittelfest 2020; spericolato virtuoso del violoncello e compositore tra i più attivi sulla scena musicale italiana e internazionale, Sollima dal vivo è un vero ciclone, una forza della natura che appassiona e quasi spaventa allo stesso tempo. Nessuno spettatore può restare indifferente davanti alla manifestazione di tanta potenza. La sua forza è decisamente nell’interpretazione assolutamente personale di tutto quello che passa sotto il suo archetto e tra le sue dita.

La musica sembra essere per lui principalmente espressione di un’energia vitale che trascende ogni forma e ogni tempo. L’altra caratteristica fondamentale della sua arte è l’assoluta volontà e capacità di contaminare stili, epoche, generi, latitudini in un’esplosione gioiosa di frammenti sonori che infine compongono il suggestivo mosaico di un esibizione meticcia, ricca di ogni colore e sfumatura, satura e sapida dei gusti del mondo, preziosa, inestimabile e inafferrabile.

Un’imperiosa voce femminile di una maschera, allo stesso tempo dolce e suadente, ingiunge poco prima dello spettacolo: “No foto, no video e mascherina sempre sopra il naso”; anche al Mittelfest di Cividale del Friuli sono i tempi duri del virus a corona che diventano angoscianti ma anche ricchi di suggestione, non sembri una bestemmia, se visti da dentro la navata di una chiesa consacrata nel 1285 edificata sopra una cappella ducale longobarda del VII sec. distrutta durante la catastrofe di Caporetto nel 1917 e ora adibita a mostre e concerti.

E’ in un luogo come questo che ne ha viste di epidemie e di disgrazie nel corso dei secoli e tra gli affreschi degli allievi di Vitale da Bologna, che Giovanni Sollima ha portato il suo violoncello, classe 1679, costruito dal liutaio cremonese Francesco Ruggeri detto “il Per” (il Padre) insieme ad Antonio Stradivari, allievo di Nicolò Amati. In poche parole, un insieme di meraviglie inarrivabili della più autentica tradizione musicale italiana in un luogo d’arte incredibile, in una città con un passato da far venire i brividi di piacere a qualunque storico o semplice appassionato.

Sul palco ricavato tra il transetto e l’altare della chiesa dei tempi di Carlo Magno prende posto il musicista con il suo strumento assemblato quando Antonio Vivaldi da Venezia aveva un anno di vita.

La Musica che fa vibrare quelle corde appare struggente e lontana come un vento caldo che viene dal mare e porta anche in collina l’odore del salmastro insieme a vibrazioni che sanno d’Oriente e di segreti ben custoditi, di silenzi e broccati, di attimi sospesi e dimenticati. Il primo brano è Krunk del grandissimo Komitas “Padre” Vardape, al secolo l’armeno Soghomon Gevorki, che fu custode e innovatore della tradizione del suo popolo prima, durante e dopo il genocidio per mano turca. La vicenda lo segnò talmente che lui, che era stato cantante sommo e straordinario compositore, dopo aver fatto voto di silenzio non parlò più fino alla morte. La musica era diventata la sua voce che è ancora viva per raccontarci di tanto strazio e dolore.

Si salta e si danza, almeno con la fantasia, nel successivo brano di Giulio de Ruvo (Romanella, ciaccona e tarantella per violoncello) e ci si fa trascinare fino all’inebriante, successivo Moj e Bakura More della tradizione Arbëreshë/albanese di Sicilia che ci affratella in musica al paese delle aquile.

Quando irrompe la magia della suite n°3 di J.S.Bach (BWV 1009) che cattura e mette ordine allo spazio e al tempo, una piccola bambina tra il pubblico in braccio alla nonna chiede con un filo di voce: “ Perché è così triste la musica di quel signore?”. E per un attimo ci sarebbe anche da crederle. Il violoncello a volte ha una voce che è davvero scura e angosciosa, ma è capace in un attimo di portare i cuori dal punto più basso della loro tenebra, alla luce accecante di un pomeriggio di sole tra i fiori. Se poi ci mettiamo la musica di Bach che, come diceva Bill Evans Non si suona mai abbastanza”, e ancora la padronanza virtuosistica e assoluta dello strumento di Sollima il risultato è assicurato.

In una pausa tra un brano e l’altro, il violoncellista consulta il programma perché dice: “Non mi ricordo nemmeno io cosa devo suonare” e questa battuta, se interpretata con attenzione dopo le inevitabili grasse risate del pubblico, rivela la grandezza del musicista che ha un repertorio talmente vasto da poter passare senza alcun problema da brani di musica antica al rock d’avanguardia in un battito di ciglia.

Riprende irruento e beffardo con un cuore nostalgico e appassionato, con un’anima slava, danubiana e balcanica, triste e meditabonda ma allegra che si trasforma con un colpo d’archetto nel suo contrario con ritmi e melodie che diventano rantolo.

Ritorna la musica barocca ed è come un canto che si leva al cielo. Sollima ha un modo del tutto personale di avvicinarsi al proprio strumento, energico e muscolare che insiste moltissimo sulle sottolineature ritmiche per uno strumento conosciuto per la sua dolcezza, languido e sognante che invece sa mordere e rivelarsi spericolato, verticale, seducente, veloce, dai toni saturi da riempire tutta la chiesa con solo un cenno dell’archetto. Un brano lungo e complesso in più movimenti.

Qualche momento per riaccordare e si parte ancora più frenetici, Sollima fissa un egg shaker a semi sulla punta del suo archetto che ritma in modo molto suggestivo ogni suo movimento. Si aggiunge il battere del suo tacco come ad un ballo campestre. Pare di vederli i gioiosi contadini che danzano e saltano all’unisono in cerchio sul tavolato: era una pizzica di tradizione salentina (Santu Paulu) che si dovrebbe applaudire ballando a tempo di musica ma non è possibile, maledetto virus.

Dice Sollima che la ciaccona, come quella che intona di Francesco Corbetta (Caprice de Chaconne), ha una storia interessante che ha le sue origini in America latina e in Europa; era avversata dalla chiesa perché ritenuta sconcia. Quando poi anche J.S. Bach si mise a comporre Ciaccone nessuno ebbe più niente da dire.

Il brano successivo composto da Sollima è un Fandango dedicato a Luigi Boccherini, a detta sua, primo vero etnomusicologo del violoncello che scrisse duecentocinquanta quintetti per comporre i quali trasse spunto dalle tradizioni musicali più disparate. Scritto per strumento a cinque corde, ma si può fare anche con quattro, dice sempre Sollima. Il compositore di Pavia che girava le corti europee soprattutto in Francia stava al proprio tempo come Hendrix sta al nostro e Sollima con l’archetto tra i denti che suona a pizzico e batte sulla cassa armonica, lo dimostra ampiamente incarnando entrambi, così come ci fa capire che spesso le nostre prassi esecutive tradizionali, composte e neoclassiche, sono tutt’altro che aderenti al gusto dell’epoca e alla realtà delle dinamiche compositive. Ricordiamo che quando Ridolfo Luigi Boccherini scriveva i suoi quintetti, il violoncello che suona Sollima faceva vibrare le sue corde già da quasi cento anni.

Per introdurre il brano che scrisse per il film La Jota di Carlos Saura, Sollima fa un lungo discorso che sulle prime è sembrato sconclusionato come quello su Boccherini di cui sopra, ma che mano a mano che si chiariva, dimostrava l’importanza eccezionale delle sue parole e dei contenuti. Il musicista ricorda che quando era ragazzo e fricchettone, era cool andare a Lampedusa per fare le vacanze alternative. All’Isola dei conigli adesso non ci si va più perché in quei luoghi avviene l’orrore della tratta dei migranti.

Una cosa che l’ha sempre colpito di quegli sbarchi e che nessuno dice mai è che molti di quei disperati quando sbarcano trovano la forza di cantare tutti insieme. A quelle povere persone rimane solamente la grande ricchezza della musica e del canto che mantiene salda la loro identità in un paese ostile, dopo aver attraversato l’inferno del deserto e il mare della morte. Esegue il suo brano scatenato e sulfureo facendoci sentire l’influenza di molte delle tradizioni musicali del Mediterraneo, dalla pizzica salentina, ai canti popolari albanesi, fino ai Balcani, alla Sicilia e al Nord Africa. Tutto condensato in un brano di tre minuti.

Una specie di danza creola che, con i suoi colori scuri e il suo odore di tabacco bruno e brillantina, rose e scarpe di vernice, è Illusiones perdidas del musicista e rivoluzionario cubano Ignacio Cervantes Kawanagh (1847-1905) che con questi ritmi combatté e perse contro i colonizzatori spagnoli, tracciando però la strada che sarebbe stata percorsa vittoriosamente in seguito. Hasta siempre!

Il violoncello è veramente uno strumento versatile che sotto le dita di Sollima si trasforma in una vera orchestra in grado di battere il tempo e contemporaneamente segnare l’armonia. Il musicista, oltre alle straordinarie doti virtuosistiche ed esecutive, sa coinvolgere il pubblico anche con le sue espressioni, i suoi movimenti e la sua mimica eccezionale. Suona il violoncello non solo con l’archetto o con le dita ma con tutto il corpo, trasmettendo un entusiasmo e anche una fatica a cui spesso aggiunge anche un canto interpretativo fatto di versi sibili e poco altro che però esalta i timbri e regala profondità all’esecuzione.

Sollima è tutt’altro che compassato, austero e ieratico. Letteralmente danza e canta il suo strumento. Si alza perfino in piedi, portando in giro lo strumento e continuando a suonare mentre sparisce dietro le quinte mentre si abbassano le luci.

Per il Bis propone un suo vecchio brano Terre, acqua. Percuote le corde del suo strumento con una bacchetta metallica, probabilmente una penna, è un blues che sa d’Africa che sembra suonato con una kora con furia selvaggia e tribale

Un ricordo sentito dell’amico recentemente scomparso Andres Rodrigo Lopez, insieme a Sollima promotore del progetto dei 100cellos, enorme ensemble di soli giovani violoncellisti che si esibisce di quando in quando con incredibile successo. Sono le note settecentesche del Capriccio n°6 di Giovanni dall’Abaco, “ci stavamo lavorando prima che morisse” dice Sollima, lo sciamano del violoncello che da furia celeste si trasforma in un musicista serioso per un’interpretazione toccante e dolorosa.

Si chiude così su queste note amare un concerto straordinario e indefinibile che è bello ricordare con il brano “Angel” di Jimi Hendrix che Sollima ama includere in molti suoi concerti anche se non in questo.

Un angelo è venuto giù dal paradiso ieri,

è stata con me abbastanza tempo per salvarmi.

E ieri mi ha raccontato una storia

sul dolore amaro tra la luna e il profondo mare blu.

E poi ha spiegato le sue ali in alto su di me.

E ha detto che sarebbe tornata l’indomani

And i said “Fly on my sweet angel

Fly on through the sky

Fly on my sweet angel

Tomorrow i’m gonna be by your side.

© Flaviano Bosco per instArt