Replica del 13/11/2022
Una convincente messa in scena della grande opera del Maestro di Busseto ha aperto, sotto i migliori auspici, la stagione del Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste.
La rappresentazione è stata sostenuta da una scenografia, cupa, severa, livida, essenziale dai rigori pittorici ispirati alla grande tradizione italiana, dai chiaroscuri caravaggeschi, ai fastosi dettagli architettonici di Paolo Veronese, alle pensose figure di sfondo, spalle al pubblico, come ne “Il mondo Nuovo” di Giandomenico Tiepolo, fino alle suggestioni metafisiche di De Chirico.
Il lavoro di Giulio Ciabatti (Regia) Margherita Platè (costumi) Fiammetta Baldiserri (luci) è stato davvero encomiabile ed ha permesso di far risaltare ancor di più il dramma del mistero dell’iniquità che agisce attraverso coloro che s’agitano sul tragico palcoscenico dell’esistenza e che “l’anima col corpo morta fanno”.
“Otello burattino: Ma qual è la verità? E’ quello che penso io de me, o quello che pensa la gente, o quello che pensa quello là lì dentro (indica il burattinaio)
Jago burattino: Cosa senti dentro di te? Concentrati bene…cosa senti, eh? (pausa di silenzio)
Otello burattino: Sì, sì, sì sente qualcosa che c’è!
Jago burattino: Quella è la verità! Ma ssssshhh (si porta l’indice sulle labbra) non bisogna nominarla, perchè appena la nomini, non c’è più”.
Nel centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, che cade proprio quest’anno, si sono volute accostare, in queste righe, quasi senza costrutto, alcune sequenze del magnifico cortometraggio “Che cosa sono le nuvole?” all’Otello andato in scena a Trieste. Le interpretazioni del dramma shakespeariano del poeta di Casarsa e di Verdi sono diametralmente opposte, ma s’incontrano però nell’identificare, più o meno esplicitamente, nella bellezza dell’arte e nel sogno le uniche vie di redenzione possibili dell’esistenza umana.
Come ha scritto Giulio Ciabatti nelle sue “note di regia”: “Nell’opera Otello…il divino rimane invisibile, nascosto, incomprensibile, inaudito, non ci sono virtuose lacrime catartiche, ma solo un barlume di pietà per chi recita un copione che altri hanno scritto”.
Forse esiste una plausibile prospettiva interpretativa ancora più disperata e lucida che non è vano tentare. E’ ben noto il radicale anticlericalismo di Verdi, ma spesso si glissa sul suo ateismo esplicitamente dichiarato in molte sue opere e, per esempio, nella famosa lettera a Ricordi in cui dice di se, con malcelata ironia, di essere “un po’ ateo”.
Subdolamente, spesso si confonde il suo senso per il Sacro contrabbandandolo per quello religioso, fraintendendo completamente il senso ultimo della sua poetica, perfettamente in linea con un certo nichilismo di stampo nietzscheano che furoreggiava nella sua epoca soprattutto nel mondo tedesco che, in alcuni ambienti, è ancora piuttosto scomodo e viene liquidato come: “Relativismo diffuso, secondo il quale tutto si equivale e non esiste alcuna verità, né alcun punto di riferimento assoluto, non genera la vera libertà, ma instabilità, smarrimento, conformismo alle mode del momento” come disse Joseph Ratzinger (AAS 102, 2010, 461)
Non è il caso di approfondire troppo la spinosa, complessa questione dell’ideale sodalizio Nietzsche, Wagner, Verdi, basterà dire che esiste una selva intera di pubblicazioni, “sudate carte” nelle quali, a riguardo, si dibatte da ben più di un secolo.
Utile a comprendere la sua posizione anche un’affermazione tratta da una lettera alla sua amica del cuore contessa Clara Maffei: “Penso che la vita è la cosa più stupida e, quel che è ancora peggio, inutile”.
Se a questo aggiungiamo i versi di Arrigo Boito del celeberrimo monologo di Jago, baricentro e punto di non ritorno della voragine d’orrore dell’opera verdiana, molto ci apparirà terribilmente chiaro.
Nell’Otello andato in scena a Trieste, apprestandosi a tessere la sua mortale tela d’aracne, servendosi dell’ingenuo Cassio e dell’infausto fazzoletto, Jago ha intonato cupamente, attraverso l’ottimo baritono Roman Burdenko:
“Vanne; la tua meta già vedo. Ti spinge il tuo dimone, e il tuo dimon son io. E me trascina il mio, nel quale io credo, inesorato Iddio. Credo in un dio crudel che m’ha creato simile a se e che nell’ira io nomo. Dalla viltà d’un germe o d’un atomo vile son nato. Son scellerato perché son uomo; e sento il fango originario in me. Si! Questa è la mia fe’! Credo con fermo cuor, siccome crede la vedovella al tempio, che il mal ch’io penso e che da me procede, per il mio destino adempio. Credo che il giusto è un istrion beffardo, e nel viso e nel cuor, che tutto è in lui bugiardo: lagrima, bacio, sguardo, sacrificio ed onor. E credo l’uom gioco d’iniqua sorte dal germe della culla al verme dell’avel. Vien dopo tanta irrision la Morte. E poi? E poi? La Morte è il Nulla. È vecchia fola il Ciel”.
Non è difficile capire che il canto di Jago è tutto giocato sul filo esplicito della blasfemia e sembra rispecchiare, nella sua impunita condotta, una certa indulgenza da parte dell’autore sia dei versi, sia della musica.
Alla fine del dramma, infatti, quando tutto è compiuto non assistiamo alla punizione di Jago “uom dall’arti nefande” come sarebbe consuetudine, ma lo vediamo fuggire senza chiedere pietà:
Otello: (a Jago) “Ah! Discolpati!”
Jago: (fuggendo) No!
Ferma! S’insegua! Afferratelo!
Otello: (slanciandosi per afferrar la spada) E il ciel non ha più fulmini?
L’orchestra del Verdi diretta dal Maestro Francesco Ivan Ciampa ha fatto sfoggio di tutta la sua potenza e versatilità soprattutto nel fragoroso primo atto che è tutto travolto nell’impeto di un turbine. Il direttore Ciampa aveva la propria claque e ogni volta che si abbassavano le luci in sala si sentiva una strapaesana salve di “Bravo Maestro!” che faceva scattare gli applausi per altro davvero meritati.
Dopo che il primo violino aveva dato la nota all’orchestra, entrava il direttore…facendo esplodere la subitanea la tempesta: “Ha tuonato il cannone…Lampi! Tuoni! Gorghi! Turbi tempestosi e fulmini! Treman l’onde! Treman l’aure! Treman basi e culmini: Fende l’etra un torvo e cieco spirto di vertigine… Tutto è fumo! Tutto è fuoco! L’orrida caligine si fa incendio…I titanici oricalchi squillano nel ciel…”
E’ già tutto anticipato qui il dramma che sta per compiersi; il coro ha interpretato i veneziani che abitano a Cipro tutti sul molo, rivolti verso il mare in tempesta, mentre cercano di capire quale tragedia si stia consumando in rada.
E’ una poderosa allegoria della vita umana in una scena abitata di presagi, scura in una penombra illuminata dall’alto. Per di più il fondo della scena del Verdi è davvero a pochi passi dal molo Audace che si proietta nel Golfo a partire dalle rive.
Il coro, diretto magistralmente dal Maestro Paolo Longo, ha dato voce e figura a questa prima emozionante scena d’insieme così come a quella della scena terza del secondo atto: “Dove guardi splendono raggi, avvampano i cuor”.
Il 5 febbraio 1887 questa grandiosa scena d’apertura, così come tutto il clamoroso primo atto, segnò l’imperioso ritorno di Verdi a teatro con un’opera nuova dopo una lunga “crisi creativa” durante la quale aveva solamente riadattato Don Carlo e Simon Boccanegra e composta la “Messa da Requiem” per la morte di Alessandro Manzoni. Sedici anni prima, il 24 dicembre 1871, era andata in scena al Cairo “Aida” in occasione dei festeggiamenti per l’apertura del canale di Suez.
Durante la replica di Otello di cui stiamo scrivendo, per pura casualità, ormeggiata al molo turistico, prospiciente la meravigliosa piazza Unità d’Italia, c’era l’enorme nave da crociera “Aida” della Carnival Maritime lunga 337 metri con 16 ponti per 6600 passeggeri e 1682 membri d’equipaggio.
Per alcuni studiosi la crisi del Maestro si scatenò dopo che assistette alla rappresentazione del “Lohengrin” al Teatro comunale di Bologna nel novembre 1871, prima assoluta di un’opera di Wagner in Italia. Verdi d’un tratto parve sentirsi superato dal coetaneo rivale, compositore tedesco, non riuscendo più a sfruttare la propria vena creativa che ritrovò molto tempo dopo proprio con l’Otello, sua penultima opera prima di Falstaff.
Il coro, insieme agli altri interpreti, ha dato bella prova di se anche nell’altra canonica scena d’insieme che è la crapula all’osteria con i festeggiamenti per la vittoria: “Esultate! l’orgoglio mussulmano sepolto è in mar; nostra e del ciel è gloria! Dopo l’armi lo vinse l’uragano”, con le lascive odalische “rossofuoco” interpretate da alcune ballerine: “E son fanciulle dai lieti canti e son farfalle d’igneo vol”.
Insomma, a Cipro si festeggia e si sbevazza: “Fuoco di gioia, l’ilare vampa fuga la notte col suo splendor. Guizza, sfavilla, crepita, avvampa…” E’ stata un’ottima sottolineatura dell’autentica anima popolare nel senso più nobile del termine che sostiene la poetica verdiana e non è per nulla un paradosso.
Particolarmente misera, disgraziata, sfortunata, nata sotto una cattiva stella, povera vittima predestinata per definizione, come da libretto (nomen omen), è apparsa la Desdemona di Lianna Haroutounian che forse non ha una voce potentissima ma che è capace di trasmettere candide emozioni: “Gioia, amor, speranza cantan nel mio cuor”.
Senza uscir troppo dal seminato, a questo punto, sembra necessaria una piccola digressione.
I “Blackface” erano gli attori bianchi che si dipingevano la faccia di nero per interpretare personaggi di colore negli Stati Uniti d’America a partire dai “Minstrel show” degli ultimi decenni del XIX sec. fino agli anni ‘60 del secolo scorso. Si annerivano la pelle con il sughero bruciato o con il cerone nero o addirittura lucido da scarpe e, per aumentare l’effetto, si truccavano pesantemente anche le labbra.
In Europa la tradizione è molto più antica ed era tipica del teatro elisabettiano nell’Inghilterra del XVII sec. Quando il 1 novembre 1604 alla residenza reale di Whitehall Palace di Londra andò in scena per la prima volta l’Otello di Shakeaspeare molto probabilmente l’attore protagonista di quello che è diventato il Moro di Venezia per definizione, aveva la pelle scurita dal trucco.
Il tenore Arsen Soghomonyan, l’Otello del Verdi di Trieste, al contrario, venendo meno ad una lunga tradizione, non era per nulla truccato da africano e non era l’unica novità dell’allestimento.
La regia scenica di Cibatti e quella del maestro concertatore Francesco Ivan Ciampa hanno dato straordinaria rilevanza alla figura di Jago che in alcuni momenti del primo e del secondo atto ha del tutto oscurato quella di Otello.
Il basso Roman Burdenko è stato efficacissimo nel vestire i panni diabolici e crudeli di un autentica forza del male accostata alla quale, in alcuni momenti, il Moro di Soghomonyan sembrava quasi una figura infantile.
Nel film di Pasolini:
Otello: Ammazza Jago, te credevo così bono, così bravo…un pezzo de pane e invece quanto sei cattivo! Ma perché?
Jago: (porta il dito davanti alla bocca) Sssst!
Otello: Comunque mi giudico da me: pure io faccio schifo, mica solo te: ma perché dovemo esse’ così diversi da come se credemo, perché?
Jago: Eh, figlio mio… noi siamo un sogno dentro un sogno.
Bella e appropriata la prova vocale di Mario Bahg, un Cassio i cui tratti asiatici conferivano una presenza scenica straniante e molto in tono con la rappresentazione che così è riuscita ad esprimere pienamente caratteri di reale multietnicità.
Non bisogna dimenticare che sia nell’opera shakespeariana, sia in quella verdiana, il tema dell’etnia e della provenienza è tutt’altro che assente. Nel libretto di Boito le tenerezze iniziali che Otello riserva a Desdemona vengono definite: “I foschi baci di quel selvaggio dalle gonfie labbra”.
Così come il passato di schiavo del Moro viene ricordato da alcuni versi della sua casta amante: “Ed io t’amavo per le tue sventure e tu m’amavi per la mia pietà”.
Un’attualizzazione cinematografica del tema drammatico di Otello possiamo trovarla nel film “La paura mangia l’anima” di Rainer Werner Fassbiender (1974). La trama racconta di Alì, un giovane immigrato marocchino, che a Berlino s’innamora e sposa con un anziana donna tedesca tra le invidie e le cattiverie della società che minaccia di far naufragare l’idillio.
Inutile dire che nell’Otello verdiano restano meravigliose e strazianti le tre scene nelle quali ritorna il tema del bacio: quella iniziale con l’amore anche fisico tra i due sposi felici (O’ come è dolce il mormorar insieme te ne ricordi?); quella del terzo atto con la perversione di Jago che instilla veleno nel vacuo cuore di Otello (Non sei forse una vil cortigiana?) e, infine, quella dell’ultima scena dell’ultimo atto nella quale il Moro omicida, morente per essersi pugnalato, forse comprende il male di cui è stato strumento; avvicinandosi all’unica creatura che lo ha veramente amato e che lui ha soffocato, canta: “Pria d’ucciderti…sposa…ti baciai. Or morendo…nell’ombra…in cui mi giaccio. Un bacio…un bacio ancora…Ah!…un altro bacio…(muore)”. Cala il tragico sipario.
Nella sceneggiatura di “Che cosa sono le nuvole?”
“Con calma, l’immondezzaro esce dalla cabina esce dalla cabina di guida, apre lo sportello posteriore del suo camion, e tutte le cose morte di cui il suo camion è pieno, rotolano come una colorata valanghetta giù per la scarpata.
Anche i corpi di Otello e Jago.
Una lunga soggettiva, che fa rigirare vertiginosamente terra, cielo e immondezza, dei due corpi che rotolano, urlando di spavento.
Finché l’obiettivo immobile, punta in alto, contro l’immenso cielo azzurro dove corrono veloci delle bianche nuvole.
Nella faccia spaccata e gonfia di Otello gli occhi luccicano di ardente curiosità, di intrattenibile gioia.
Anche gli occhi di Jago guardano strabiliati e in estasi quello spettacolo mai visto del cielo e del mondo
Otello: Iiiiih, che so’ quelle?
Jago: Sono…sono …le nuvole…
Otello: E che so’ le nuvole?
Jago: Boh!
Otello: Quanto so’ belle! Quanto so’ belle!
Jago: (ormai tutto in comica estasi) Oh, straziante,meravigliosa bellezza del creato!
Le nuvole passano veloci nel gran cielo azzurro”.
© Flaviano Bosco – instArt 2022