Around Gato – Tributo a Gato Barbieri

Gato Barbieri Reloaded: Andrea Polinelli (sax tenore) Massimo Fedeli (pianoforte) Simone Ndiaye (basso elettrico) Maria Giuditta Santori (batteria)

Nel programma di Udin&Jazz 2024 un sentito omaggio è stato dedicato ad un musicista che non ha avuto, almeno fino ad ora, il riconoscimento che merita.

Contribuisce decisamente a collocarlo tra i grandi maestri della musica d’improvvisazione contemporanea il volume: Gato Barbieri, Una biografia dall’Italia tra jazz, pop e cinema, di Andrea Polinelli (ed. Artdigiland, 2023)

La corposa opera, vero e proprio monumento al musicista argentino, è quello che per ora può dirsi il libro definitivo su un artista oggi forse troppo trascurato dal grande pubblico del jazz soprattutto in Italia, paese nel quale paradossalmente costruì gran parte della propria carriera di straordinario musicista.

Nella presentazione-concerto in Corte di palazzo Morpurgo a Udine, incalzato dall’ottimo giornalista Andrea Ioime, l’autore ha sottolineato che il tomo gli è costato più di un lustro di inesauste ricerche tra interviste, materiali d’archivio, sbobinature e visione di video e film.

Parte integrante della carriera del sassofonista, infatti, è proprio il suo lavoro per il cinema con le tante collaborazioni a colonne sonore di film leggendari come “Ultimo tango a Parigi” di Bertolucci, ma anche piccole collaborazioni meno note.

Gato Barbieri viene spesso paragonato a John Coltrane ed è vero che nei primi anni ’60 suonava proprio come lui anche se con grande personale originalità, seguendo la traccia sorgiva dell’avant garde.

Il libro traccia anche la sua storia di quegli anni partendo dai furori della sperimentazione per arrivare alle colonne sonore per i film di Pietro Umiliani ed Ennio Morricone, fino al corteggiamento della musica commerciale tra dolcezze infinite e cocenti delusioni.

Riportiamo una dichiarazione del grande Pietro Umiliani (www.traccedijazz.com)

«Incontrai Gato Barbieri la prima volta nel 1965, era appena arrivato a Roma. Lui già suonava benissimo ma non lo conosceva nessuno. Iniziò a lavorare molto presto, ma solo come musicista negli studi della Rai. Non ricordo esattamente quando ci incontrammo, so che dovevo registrare due colonne sonore e avevo bisogno di bravi musicisti in fretta e quindi lo ingaggiai. Gato aveva un aspetto gradevole, era calmo e gentile. A quell’epoca era facile scambiarlo per un impiegato, con i capelli corti perfettamente tagliati e sempre vestito con eleganza, senza quel cappello nero che tutti oggi conosciamo come caratteristica del suo look. Qualche anno dopo, ebbe la sua grande chance: fu chiamato a comporre la colonna sonora per “Ultimo Tango a Parigi” di Bertolucci. In quell’occasione mi telefonò, chiedendomi se potevo curargli gli arrangiamenti, poi al momento di iniziare a lavorare non ebbi più notizie. In seguito seppi che, senza sorprendermi più di tanto, gli arrangiamenti li avrebbe curati nientemeno che Oliver Nelson! Il grande successo di “Ultimo Tango a Parigi”, a mio parere, non è derivato da Gato come compositore ma da Gato come sassofonista

Leandro Barbieri detto Gato per le sue movenze feline era nato nel 1932 in uno dei quartieri più poveri di Rosario in Argentina che ancora oggi ha uno dei tassi di miseria e criminalità più alti dell’intera America latina e non è per nulla un primato invidiabile.

Fin da ragazzo, insieme al fratello, fu molto attivo dal punto di vista sociale e politico aderendo convintamente e da militante al partito comunista. Su questo suo attivismo ad un certo punto della vita fece cadere un velo di silenzio dimostrando un certo opportunismo anche perchè visse gli ultimi anni della sua vita a New York.

Un film sperimentale di Gianni Amico documenta la primissima esibizione in Italia di Gato Barbieri. Alcuni contatti con il nostro paese a dire il vero c’erano già stati con l’incisione da session man dell’introduzione sassofonistica di “Sapore di Sale” di Gino Paoli.

Amico ha dichiarato:

Io ho girato Appunti per un film sul jazz nel 1965, ed era in assoluto il primo film di cinéma direct fatto in Italia. E l’ho girato con una troupe composta da un fonico e da un direttore della fotografia che si erano andati a specializzare giustamente in Canada e che erano tornati portando i primi microfoni direzionali”.

Il mediometraggio documenta con eccezionali immagini, in presa diretta, il VII Festival Internazionale del Jazz di Bologna nel 1965, con esibizioni anche di Don Cherry, Steve Lacy e Johnny Griffin oltre che naturalmente del sassofonista argentino.

Da quel momento in poi si stringerà un legame fortissimo tra il nostro paese e il musicista che in quell’occasione comincerà una feconda collaborazione con il trombettista Don Cherry che lo condurrà nell’occhio del ciclone della sperimentazione. Restò nella sua band fino al 1968 a Parigi; la separazione tra i due ebbe effetti devastanti per Barbieri che pensò di abbandonare il mondo della musica.

Fu il grande regista militante del “Cinema Novo” Glauber Rocha a spingere Barbieri verso la rielaborazione della musica latinoamericana dando vita alla famosa serie d’incisioni che va sotto il nome e numero di Chapter da I a IV (1973-1975). I due capolavori centrali riportano l’emblematico titolo “Hasta Siempre e Viva Emiliano Zapata” che sottolineano ancora di più il grande impegno politico che il musicista professò sempre attraverso la sua musica; quella che riusciva ad esprimere era una vera e propria tensione rivoluzionaria; il suo sax urlava un risveglio di coscienza.

I suoi dischi più “barricaderi” insieme ad altri ebbero uno straordinario successo soprattutto nel nostro paese dove venivano associati all’epopea di un altro grande combattente suo conterraneo, Ernesto Guevara de la Serna, tanto che nel 1973 Barbieri poteva vantare ben tre Long Playing nella top ten dei dischi più venduti.

Barbieri sapeva all’occasione anche essere veramente dolce e tenerissimo; il suo sax percorreva gli aspri sentieri dell’avanguardia ma anche quelli del cuore e in questo era davvero paragonabile al genio di Coltrane con i suoi registri medio alti e l’urlo lacerante del suo strumento.

A volte il suono sentimentale di Gato può sembrare perfino eccessivo perchè lo si confonde con un certo sentimentalismo, ma è un errore di prospettiva, a volte sembra jazz da balera alla Fausto Pappetti, ma è tutt’altro, basta avere la pazienza di ascoltarlo oltre la superfice di carta di zucchero con la quale sono confezionate alcune sue composizioni che spesso portano con se un’aria di melodramma e di tragedia quasi pucciniana.

Come già ricordavamo, il sassofonista argentino ebbe sempre un ottimo rapporto con il nostro paese con moltissime collaborazioni, dalle tante colonne sonore (Prima della Rivoluzione e Ultimo tango a Parigi di Bertolucci per esempio) fino ai dischi con Antonello Venditti e Pino Daniele.

La sua tour manager era l’amatissima moglie Michelle che teneva i contatti con lo show business, promuovendo la sua arte e spingendolo a suonare. Barbieri era un uomo molto riservato, molto mite e tranquillo, solo quando saliva sul palco esplodeva il suo furore esecutivo. Se non ci fosse stata la moglie probabilmente molte occasioni sarebbero rimaste solo fantasie, come per esempio i suoi duetti con Carlos Santana.

La splendida biografia di Polinelli ripercorre quella incredibile carriera fino agli ultimi anni negli Stati Uniti, unita ai tanti aneddoti e ad una sezione dedicata in modo specifico al cinema, contiene anche la più minuziosa e pressochè completa discografia dell’artista fino ad ora disponibile.

Chiusa la parentesi dell’interessante presentazione del documentatissimo libro, è venuto il momento di ascoltare la musica di Gato Barbieri interpretata senza nessuna cortigianeria o adulazione, ma con vero spirito libertario che tanto sarebbe piaciuto al sassofonista argentino.

Il quartetto di Polinelli ha così proposto la sua musica in modalità emotiva ed emozionale, seguendo dichiaratamente le intuizioni di Vincenzo Caporaletti intorno alla definizione, discussa e forse discutibile, di “Musica Audiotattile” (vedi Musica Jazz.it 01/04/2023) che intende la musica come esperienza fisica concreta slegata dai generi e dalle pastoie della composizione armonica e consegnata di peso alla non mediata emotività dell’ascolto contingente. In questa prospettiva, qualunque cosa possa voler dire, la musica è un elemento percettivo slegato dai contesti culturali, Gato Barbieri è così, non c’entra dove sei, ma ciò che senti.

In parole povere, il baricentro della musica si sposta da chi la progetta e produce a chi la riceve, subisce, ascolta.

Ammesso e non concesso che il vero jazz e la musica d’avanguardia italiana sia sempre passata per il cinema, da Chet Baker (Urlatori alla sbarra di Lucio Fulci, 1960) agli Osanna (Milano calibro di Ferdinando di Leo) fino alle meravigliose attuali colonne sonore di Teho Teardo per Sorrentino giusto per tracciare un sentiero tra i tanti, il sassofonista argentino ne è stato indubbiamente uno dei protagonisti.

Bene dunque hanno fatto Polinelli e i suoi musicisti a inserire nell’esibizione una gustosa versione di un ricco brano di Piero Umiliani, tema della soundtrack di “Una bella grinta” di Giuliano Montaldo che Gato Barbieri interpretò con il suo eccezionale quintetto italiano di allora (Enrico Rava, Franco D’Andrea, Gianni Foccia, Gegè Munari) che, come dice la leggenda, si ritrovava per peccaminose jam session nell’ipogeo Jazz club romano “Purgatorio” allestito nelle cantine del ristorante “Meo Patacca” di Trastevere.

Il giovane bassista Simone Inghiae di origini senegalesi in tour con Giorgia e promessa del basso elettrico nel nostro paese ha avuto modo di esibire tutta la sua straordinaria verve in virtuosismi forse non troppo originali ma di grande impatto soprattutto nei momenti più scatenati di “Yo le canto a la Luna”. Il celeberrimo brano conosciuto anche come “Luna tucumana” da una melodia tradizionale del nord dell’Argentina ha dato il tempo a tutti i musicisti per un canonico assolo che ha trasformato il concerto in una sorta di Jam Session dilatata e molto piacevole.

A convincere e deliziare il pubblico sono stati anche i ritmi di Maria Giuditta Santori, straordinaria percussionista che con il suo talento fa piazza pulita di molti degli stereotipi della narrativa maschilista sul jazz. Come dimostra Gerlando Gatto con le sue ricerche, la storia del jazz andrebbe totalmente ripensata e riscritta includendo le tantissime musiciste che hanno dato un contributo decisivo alla sua evoluzione.

Purtroppo, lo scampanio del vicino Duomo di Udine, che celebrava i santi Ermacora e Fortunato, patroni della città, hanno fatto da tappeto a volte assordante a parte del concerto già in qualche modo compromesso dalla calura estiva; un’atmosfera decisamente latina che ha favorito l’esecuzione delle sfolgoranti “Eclypse” e “Maria Domingas” dagli album “Bolivia” e “Under Fire”, ritmate, ballerine e solari, troppo a lungo poco considerate per le loro melodie a tratti forse sdolcinate ma, in realtà, pietre miliari della musica contemporanea.

Non c’è stato modo di ascoltare il languido tema di “Ultimo Tango a Parigi” per colpa delle solite campane e l’esibizione si è conclusa tra ringraziamenti e applausi sulle note dell’esplosiva “Marissea” da “Chapter Two: Hasta siempre”, che non ha momenti troppo intimi e rarefatti, ma che sa coinvolgere e trasmettere tanta, tanta energia.

Marc Ribot Jazz Bins: Joe Dyson (batteria) Greg Lewis (organo Hammond B3) Marc Ribot (chitarra)

Mentre dagli altoparlanti “So what” di Miles Davis faceva da sottofondo all’accomodarsi del pubblico, Ribot veniva brevemente intervistato da un’esperta di comunicazione social. La “domanda delle cento pistole” gli è stata sparata subito a bruciapelo: “Che cos’è il Jazz?” Ogni appassionato sa bene che è da più di un secolo che si cerca di risolvere questo misterioso enigma, non ci è riuscito mai nessuno. Per di più è parte della più propria essenza della musica afroamericana essere assolutamente indefinibile, cangiante, mutante.

Ogni buon giornalista sa che quella è una domanda destinata a rimanere senza risposta e che quindi non va posta in alcun caso, qualche musicista potrebbe considerarla quasi un insulto.

Ribot è un galantuomo e dopo aver strabuzzato gli occhi per la sorpresa si è fatto venire in mente una risposta tutt’altro che scontata: Black American Music. Sembra facile dire semplicemente che il Jazz è musica nera americana, ma al contrario una definizione del genere spazza via un sacco di fraintendimenti che qualche volta fanno della musica d’improvvisazione da una parte solo una degenerazione della musica europea dall’altra un’evoluzione della musica e dei ritmi africani. Nemmeno queste definizioni sono del tutto sbagliate, ma seguendole si rimane ingabbiati da una prospettiva fin troppo limitata.

Con “Black American” si intendono per sommi capi tutte le minoranze del tessuto sociale americano che in un modo o nell’altro hanno contribuito all’agglutinarsi di una cultura straordinaria nella quale si compenetrano gioia, sofferenze e speranza.

Da qualche anno a questa parte, con Nicholas Payton in testa, si è formata una corrente di pensiero che si definisce a partire dall’acronimo B.A.M. – Black American Music; corrente che rivendica la paternità afroamericana di alcune musiche (jazz, soul, blues, R&B, Hip hop, Rap)

C’è stata ancora un’altra domanda altrettanto ingenua della prima. “Lei è uno dei più grandi chitarristi del mondo. Quando ha capito di avercela fatta e che era il suo momento? Tra lo sconcerto e l’imbarazzo, il grande musicista ha risposto con grande umiltà: “Lo sto ancora aspettando, prima o poi arriverà”.

Icona della chitarra, non ama etichettarsi, si presenta in trio con altri due validissimi compagni. La band, oltre che nell’estro di Ribot, ha il proprio baricentro nei suoni brillanti e luminescenti dell’organo Hammond B3 di Lewis. Lo strumento elettrofono a generatori elettromeccanici era completo di pedaliera e di amplificatori Leslie 122 a ruote foniche ed era assolutamente una delizia anche per gli occhi degli appassionati.

Nato negli anni ’30 per le funzioni religiose con il suo suono ieratico, evocativo e solenne, divenne nel corso degli anni uno degli strumenti tipici prima, naturalmente, del gospel, ma in seguito anche del blues e di molti tra i suoi generi derivati fino all’hard rock (Deep Purple) e al prog rock (da Keith Emerson a Stewe Winwood).

Il concerto si è presentato con la decostruzione dei tipici accordi blues pentatonici per poi partire velocissimo in un blues elettrico che sembrava sgangherato e deragliante ma che, in realtà, era dritto come il filo di una spada. Su quella lama affilatissima scivolava il tastierista con i suoi calzini a righe verdi e rosse dopo che si era tolto le scarpe per “sentire” meglio la pedaliera.

Con il primo brano siamo dalle parti dell’ R’n’B e appena prima del Rock’n’Roll. E’ stranissimo come Ribot riesca ad essere punkeggiante, ruvido ed estroso mentre ognuno dei suoi musicisti e delle persone tra il pubblico se la godono un sacco.

Si sono alternati anche brani molto alla Ray Charles “decostruito” con l’Hammond che sussurrava magia facendo vibrare l’aria e per poi esplodere in tutti i suoi colori. Ribot lasciava fare osservava, rilassato e concentrato allo stesso tempo, per poi riprendersi il suo spazio di leader.

Le spazzole sulle pelli, nel frattempo, geometrizzavano lo spazio del giardino Loris Fortuna fino a trasformarlo in un luogo fuori dal tempo al centro di una città che sa essere spesso indifferente, crudele ed ostile, ma che, quando vuole, ha anche la forza di accogliere e ascoltare con attenzione. Dyson, classe 1990, è un “giovane” batterista dal talento straordinario e assolutamente versatile che sa tenere la schiena dritta quando è necessario per poi lasciarsi andare a imprevedibili improvvisazioni poliritmiche appena il leader gli allenta le briglie; dalla sua ha la freschezza della gioventù che però non utilizza mai come alibi per mascherare la solita maldestra irruenza che qualcuno chiama energia primigenea. Come diceva Ellington: “A Drum is a Woman” e va trattata con la conseguente delicatezza e, per fortuna, Dyson lo sa bene e lo dimostra.

A partire da “Ain’t it funky” e “Grandstand” di Grant Green, chitarrista amato dal leader, è stata eseguita ancora una teoria di brani di generi completamente diversi che hanno continuato a spaziare dalla tradizione roots del blues fino a citazioni alla James Brown che non può mai mancare. Intelligente, torrida rimemorazione di quanto di meglio le stelle e strisce in bianco e nero hanno saputo darci, come “Neck bones di Gene Ammons; in sottofondo, le cicale del giardino con la loro ritmica, imperturbabile attesa.

Ribot è stato capace anche di infinite nostalgie e di ballad in blue di una rarefazione translucida, i cui suoni sono sembrati estremamente mutevoli e liquidi nella quale anche l’Hammond da il meglio di se con i suoi suoni brillanti e vetrosi.

Ad un attimo di sospensione è seguita immediatamente una ripartenza ballabile e swingata sulla quale il chitarrista ha inciso rasoiate distorte quasi da elettricità statica cui ha risposto un lungo e indiavolato assolo del batterista. Quasi a provocare il pubblico, uno dei brani era costruito su un unico accordo ripetuto all’infinito della chitarra e dell’organo fino a deragliare in improvvisazioni deliranti che dopo un lungo girovagare tornano al punto di non ritorno, e poi subito di nuovo Latin jazz che s’incontra qua e là con il samba e i suoi ricordi tanto per non farsi mancare niente. Il collante è stato di certo il Funky, figlio di una mitraglia. Ribot unisce il massimo della creatività e dell’estro alle interpretazioni più apparentemente canoniche che invece si rivelano incendiarie e dinamitarde con una semplicità e informalità davvero stupefacenti.

Nel bis, in primo piano il tono ieratico dell’organo che sarebbe gospel anche se il termine volesse dire qualcos’altro, il brano sembrava un salmo cantabile da piena funzione avventistica. Ray Charles prima del carisma della luce: e che dio ci benedica che ne abbiamo un gran bisogno, ma c’è stato ancora spazio per citazioni da Jim Hall e Wes Mongomery con valvole accluse, anche qui non sono mancate le distorsioni gracchianti e galeniche così tipiche del chitarrista che spesso sembra suonare da una vecchia radio a transistor.

Per dare un giusto valore alle cose, concludiamo queste righe su Udin&Jazz 2024 con una breve riflessione sui critici musicali tratta dagli intriganti scritti autobiografici di Marc Ribot “Nelle mie corde. Storie e sproloqui di un chitarrista noise”:

“I critici tendono a scrivere delle condizioni materiali della creazione musicale come se si trattasse di un giardino neutrale in cui piccoli germogli artistici, magari fertilizzati dalle amorevoli attenzioni dei critici stessi, sbocciano lentamente verso la luce della bellezza estetica…sebbene parecchi recensori si considerino osservatori esterni al processo, per i musicisti sono parte di un preciso sistema di potere, sia pure la parte meno influente, senza differenze significative … (Questa divergenza di prospettive potrebbe spiegare come mai la prima reazione di tanti musicisti di fronte alle recensioni del loro lavoro sia una risata incontrollabile, seguita da una leggera nausea e dalla sensazione di essere incompresi che, con un po’ di fortuna, durerà per tutta la loro vita.)”

Amen.

Flaviano Bosco / instArt 2024 ©