Stupefacente la capacità delle Giornate del Cinema Muto di rigenerarsi, continuando da una parte a scavare nelle cineteche di tutto il mondo alla ricerca dei preziosi inesauribili tesori in pellicola, dall’altra attirando ad ogni cambio di decennio nuove generazioni di appassionati.

Tra il pubblico del festival, infatti, è sembrato di vedere meno capelli argentati e meno pelate del solito e in cambio più visi sorpresi e curiosi per quello che passava sullo schermo. Certo, molti di loro erano forse costretti dai loro programmi d’esame universitari e si affacciavano per la prima volta alla platea del festival ma di questi tempi è già tantissimo.

Se nemmeno le multisale riescono più a convincere il proprio pubblico a schiodarsi dal divano per fruire del cinema sul grande schermo è da considerare un miracolo che le Giornate del Cinema Muto siano sempre così gremite con gli spettacoli serali sold out. E’ il frutto di una decennale programmazione di altissima qualità che edizione dopo edizione ha saputo crescere e costruire il proprio pubblico anche al di là dello stretto numero degli appassionati fedelissimi. Per molte persone partecipare alle proiezioni delle Giornate di Pordenone è un’autentica esperienza spaesante, esotica e straniante e quindi affascinante, attraente e da ripetere. Il cinema muto per le nuove generazioni di nativi digitali è talmente distante e “arcano” da rappresentare qualcosa di misterioso e primordiale che si distacca completamente dall’immaginario della massificazione e dell’omologazione; ha la forza rivoluzionaria dell’opera d’arte che ci fa esperire un’altra dimensione temporale.

Il cinema commerciale di grande richiamo può avere le ore contate stando agli ultimi incassi e al misero numero di biglietti staccati in vertiginoso calo, ma il cinema muto sembra avere un luminoso futuro.

Dalla villa reale di Rjeka (Montenegro) di Luca Comerio (It 1912) 6’21”

Mentre infuriavano le guerre balcaniche e si preparavano i carnai del primo conflitto mondiale le corti nel centro e nella provincia dell’impero vivevano ancora sospese in un mondo che già stava svanendo. Questo splendido documento ci mostra le sfilate per l’assolata città montenegrina della corte reale e dei vari dignitari e ambasciatori con le famiglie al seguito, è un vero balzo nel tempo; se però andiamo con la memoria agli ultimi avvenimenti del Regno Unito con lo sfarzoso funerale di Elisabetta II ci accorgeremo facilmente che nel nostro immaginario ben poco è cambiato compreso quello sbatter di tacchi di stivali che purtroppo va ancora di moda insieme allo scarrellare degli otturatori e al tintinnio delle spade.

Le Roi Nicolas de Monténégro (Fr 1918) 48”

In queste brevi immagini il re Nicola I di Montenegro che riceve le congratulazioni degli attaché militari e del suo stato maggiore sembra un vecchio contadino molto gioviale con una gran pancia e nessuna aura di superiorità aristocratica. Secondo le cronache dell’epoca, pur essendo un uomo molto colto e intraprendente imparentato con tutte le corti d’Europa – la figlia Elena divenne Regina d’Italia – ci teneva a mostrarsi come il semplice padre del suo popolo seguendo una tradizione di potere molto antica in quel paese; insomma, anche davanti alla novità delle cineprese, interpretava da attore scafato la parte del “buonuomo” per mera convenienza.

Rupert of Hee Haw di Scott Pembroke (Us 1924) 22’

Esilarante parodia del genere dedicato alle stirpi regnanti nei fantomatici paesi slavi cui le giornate hanno dedicato un ampia retrospettiva. Il sottotitolo è infatti “Il prigioniero di Zebra” con riferimento evidente e storpiatura del celebre lungometraggio il cui clamoroso successo letterario e cinematografico diede origine a centinaia di rifacimenti. “Una principessa è promessa ad un re ma ama un altro, questo rende la storia davvero originale” è questo l’ironico incipit della vicenda. Il giovane Laurel veste magnificamente i panni del re etilista e completamente disinteressato alla politica a capo di una corte dove il più normale è completamente pazzo. Il suo unico obiettivo è trangugiare il delizioso nettare degli dei. “Se volete mi trovate in cantina, terza botte a sinistra”. Alla sua “corte dei miracoli” però ci sono i soliti maneggi per matrimoni di convenienza alle sue spalle anche questi largamente satireggiati e resi buffoneschi. La vicenda si risolve, naturalmente, per il meglio con tutti felici e contenti e con qualcuno sempre più alcolizzato. Il numero dell’ubriaco che diede grandissima fama a molti interpreti, compreso Chaplin, a partire dal Vaudeville funziona sempre. Fu uno dei cavalli di battaglia della coppia Laurel & Hardy anche dopo l’avvento del sonoro; chi non ricorda le contagiose risate da avvinazzati in “La sbornia” di James Parrott (1930) oppure nel classico “Frà Diavolo” di Hal Roach (1933) e in molte altre occasioni.

Sui gradini del trono di Ubaldo Maria Del Colle, (It 1912) 61’

Intrighi tra dignitari di corte, amorazzi clandestini di nobili signore inguantate, militari in alta uniforme che battono i tacchi e s’irrigidiscono nel saluto d’ordinanza o che si prendono a sciabolate per onore e spirito di corpo, principi inetti e vecchi imperatori baffuti che cercano di restaurare l’età dell’oro del loro regno che sembra perduta per sempre o minacciata dalla modernità, questo e molto altro costituisce l’ossatura dei tantissimi film ambientati in fantomatici regni slavi cui le giornate hanno dedicato una pregevole retrospettiva. Il lungometraggio di Ubaldo Maria Del Colle ci appare piuttosto mediocre per ambientazione e realizzazione, anche perché non si allontana per nulla dallo stereotipo di genere. Quegli esotici regni permettevano di dare al pubblico quell’illusione di brillante aristocrazia che, in realtà, stava naufragando in tutta Europa tra scandali, corruzione e conflitti dinastici che avrebbero portato di lì a poco ad una voragine di sangue. Il fascino fasullo della regalità copriva lo squallore e l’abbrutimento della società tanto vicini a tutti gli odierni pettegolezzi social sulle varie teste coronate che ci dimostrano che da allora è cambiato ben poco in quanto a strategie di “distrazione di massa”. Speriamo di non accorgercene troppo tardi come un secolo fa. Di un qualche interesse la questione del sosia inetto che alcuni dignitari riescono a sostituire, per un certo periodo, al legittimo regnante al fine di manipolarlo; un tema classico del teatro antico filtrato nella modernità a partire da Dostoevskij e fatto proprio dal cinema in migliaia di pellicole.

Segundo de Chomòn in Barcelona (Ibérico Films) 14 films 66’29”

Una serie eccezionale di brevi o brevissime sequenze tratte dalle cineteche spagnole per quello che è considerato a ragione il Georges Mélièsspagnolo. Le pellicole di Segundo de Chomòn (1871-1929) ci mostrano ambienti naturalistici d’inizio secolo, sorgenti, coltivazioni, paesaggi che restituiscono un’immagine bucolica e pacificata, spesso senza alcuna presenza umana di quel paese che in realtà viveva un’arretratezza economica, sociale e culturale in alcune sue parti, con pochi precedenti. Il cinema due decenni dopo saprà far giustizia di questi stereotipi prima che la tragedia del franchismo lo precipiti nuovamente nella voragine della storia (Las Hurdes di Luis Bunuel, 1932).

In ogni caso la bellezza di alcune sequenze di questa rassegna è abbacinante soprattutto per le riprese in esterna ambientati nei centri storici delle antiche città spagnole. Strabiliante la slapstick comedy ante litteram che ha chiuso la rassegna, incentrata su un buffo personaggio “abitato” da un voracissimo verme solitario che lo trascina letteralmente nelle situazioni più assurde e stravaganti. Lo strano ospite del protagonista è animato e ripreso in stop motion con effetti davvero stravaganti, altro che David Cronenberg o Tim Burton.

Il grande amore di una piccola ballerina (Die Grosse liebe einer kleinen tänzerin) di Alfred Zeisler e Victor Abel (DE 1924) 20’

Per restare al fascino delle marionette, la storia macabra e d’ispirazione espressionista di questo piccolo cortometraggio tedesco è un autentico gioiello della storia del cinema.

Ambientato in un piccolo circo male in arnese racconta di Esmeralda innamorata del domatore Leonida, insidiata dall’impresario Larifari che vuole possederla ad ogni costo. Lui si propone insistentemente ma lei lo respinge decisamente dileggiandolo. Lui giura vendetta minacciandola pesantemente. In preda all’ansia la ballerina si chiude nel proprio carrozzone nel quale, sfinita, finisce per addormentarsi. In un incubo viene maledetta per la sua condotta non irreprensibile: “Farai girare la testa a tutti gli uomini”. Puntualmente il vaticinio si manifesta, agli uomini che ama si rovescia letteralmente la testa. Solo il dottor Urlo di morte potrà salvarla dalla maledizione ma le propone in cambio una piccola operazioncina. Se vuole salvare i propri spasimanti deve accettare di farsi segare in due. Lei accetta ma finisce malissimo, impietrita dal dolore si getta nell’abisso finendo per frantumarsi sul pavimento; e così si sveglia; era tutto solo un brutto sogno. La sceneggiatura non è granché ma le sequenze con le bellissime marionette sono memorabili. In fase di lavorazione il titolo doveva essere: “Il Gabinetto del dott. Latifari” che rivela immediatamente la fonte di ispirazione del cortometraggio se non fosse già stato evidente il rimando al celebre capolavoro di Wiene.

L’ultima sequenza mostra le mani del burattinaio che muoveva i fili dall’alto (Master of Puppets) che smonta il teatrino mettendo le marionette disanimate in una scatola della Piccolo Film, la casa di produzione che fedele al proprio nome riuscì a portare a termine solo questo delizioso piccolo film per poi essere liquidata.

The Manxman (L’isola del peccato) Alfred Hitchcock (Gb 1929) 100’

Nella famosa intervista con Truffaut, Hitchcock affermava che il muto è il cinema nella sua forma più pura. Guardando i primi suoi film con la loro bellezza formale, la fotografia luminosa e levigata, le sontuose ambientazioni degli interni e i paesaggi mozzafiato non c’è che da dargli ragione e L’isola del peccato lo dimostra ampiamente.

La didascalia iniziale recita: “A cosa vale ad un uomo acquisire una grande ricchezza se perde la propria anima”. Seguono immediatamente delle splendide immagini con i pescherecci dell’Isola di Man che rientrano in porto dopo la fruttuosa nottata di pesca.

Sul molo mentre il pesce viene scaricato si incontrano come sempre due amici fraterni, da una parte il più valoroso e baldo marinaio, dall’altra l’elegante avvocato in carriera. I due sono cresciuti insieme e oltre ad essere grandi amici si stimano molto. I due attori che li interpretano, secondo i dettami estetico cinematografici di allora, spiccano su tutte le altre comparse, i loro visi sono molto più raffinati e sono perfino truccati con tanto di eyeliner e lucida labbra, ai nostri occhi l’effetto è un po’ ridicolo soprattutto per gli insistiti primo piano e piano americano con continui sguardi in macchina “psicologici”.

L’ambiente in cui si muovono che appare piuttosto realistico con diversi esterni girati in locations reali è molto più interessante di loro. Inizialmente interagiscono per organizzare uno sciopero dei pescatori ma è uno spunto di sceneggiatura che ben presto si perde per dare spazio alla narrazione principale. I due amici sono innamorati della stessa ragazza, la bella figlia dell’oste del pub “Manx Fairy” (La fata di Man), interpretata dall’attrice Anny Ondra la stessa che farà lo splendido “Blackmail” (1929) sempre di Hitchcock. Anche il suo viso è completamente diverso da tutti gli altri sempre illuminato con le labbra a cuore, le lunghe ciglia finte e le sopracciglia disegnate con il lapis. E’ poco credibile come ragazzina di paese ma la sua recitazione nervosa e contratta come nei successivi film la rendono molto riconoscibile.

La bella, amichevolmente contesa tra i due, è molto civetta anche se segretamente molto innamorata dell’avvocato. Il marinaio le strappa un bacio e una promessa: lei lo aspetterà mentre lui se ne va per il mondo in cerca di fortuna. Il marinaio parte e lei non fa passare troppo tempo prima di flirtare con l’avvocato. I due si piacciono e s’incontrano in segreto da tutti su una splendida spiaggia con contorte rocce a strapiombo sul mare. Amoreggiano anche all’interno di uno strano mulino e la cinepresa insiste sulla macina come a significare una qualche metafora del rapporto amoroso.

Anche se molti lo danno per morto il marinaio finisce per tornare ricco e baldanzoso. L’amico avvocato non vuole spezzargli il cuore rivelandogli l’amorazzo e per di più pensa alla propria carriera e al buon nome, lei invece appare più decisa e perfino spregiudicata: “E’ vero mi sono promessa a lui ma mi sono data a te”.

Finisce che il marinaio sposa la ragazza che è pure incinta dell’altro. Sembra tutto appianato ma lei non resiste e il matrimonio finisce con lei che tenta il suicidio buttandosi a mare. Arrestata dovrebbe essere giudicata proprio dal suo amante che per amore rimette la propria carica affrontando il ludibrio e la riprovazione del paese. Nella sequenza finale le matrone del paese insultano la coppia di adulteri costretta a lasciare il paese con la loro piccola; tutt’altro che un finale lieto, anzi la didascalia finale potrebbe essere: “E vissero tutti infelici e scontenti”. Nell’ultima scena le nere barche dei pescatori se ne vanno di nuovo verso il mare aperto.

Continuando con la stessa metafora, il veliero delle Giornate del cinema muto fila veloce con il vento in poppa verso il sole luminoso di tante nuove edizioni.

© Flaviano Bosco – instArt 2022