Un ringraziamento sentito ai coraggiosi organizzatori di questa manifestazione che, da due decenni e oltre, porta nella destra Tagliamento in scenari meravigliosi la grande musica degli afroamericani, matrice di tutta la musica moderna. Negli anni si sono esibiti sui palcoscenici “naturali” di ville storiche, in particolare dell’incantevole villa Varda di Brugnera (PN), alcuni tra i musicisti italiani e internazionali più prestigiosi tra jazz e blues. Nemmeno l’epidemia è riuscita a fermare la manifestazione che, pur ridimensionata, è riuscita a garantire al suo pubblico spettacoli, musica e divertimento. Ma non tutte le ciambelle riescono con il buco e l’atteso evento d’apertura ha destato più di una perplessità a causa della serata sbagliata di uno straordinario musicista che sulla carta prometteva meraviglie che è riuscito a mantenere solo in parte.

Ma procediamo con ordine; la serata era cominciata nel migliore dei modi con uno straordinario duo folk-blues che aveva deliziato gli spettatori già molto ben predisposti.

Veronica Sbergia e Max De Bernardi: vengono fatti salire sul palco che la gente è ancora in fila per i biglietti, com’è ormai abitudine. Le norme anti covid rallentano infatti di molto l’afflusso degli spettatori, contro cui nulla possono le splendide ed efficienti ragazze dello staff al botteghino, impegnate pazientemente a registrare tutti i presenti. Certo è necessario, ma lo spettacolo ne risente un po’. Max e Veronica sono eccezionali, simpatici ed affiatati; lo si capisce fin dalle prime note suonate davanti alla platea semivuota ma che si riverberavano in tutto il parco della villa. Per chi non li conosceva sono stati una piacevolissima sorpresa, per i super appassionati una deliziosa conferma.

Son House, il grande padre della musica del Delta del Mississippi diceva:

Non c’è che un genere di Blues, ed in qualche modo equivale a quello che c’è tra un uomo e una donna che si amano…quest’amore, in certi giorni, ti fa sentire triste e malinconico…ed è qui che si parla di blues”.

Non possiamo contraddire il grande maestro ma tra un uomo e una donna succede anche molto altro e lo dimostrano proprio i due musicisti lombardi dal cuore nero. Max De Bernardi che, canzonando bonariamente uno spettatore con la maglietta degli Area, dice di abitare in via Demetrio Stratos, è dotato di un’incredibile, funambolica tecnica chitarristica, dai vari stili di picking (finger, chicken, flat) al bending e slide e altro ancora in preziosismi esecutivi evidentemente affinati in lunghi anni di studio e di pratica durante gli spettacoli che gli permettono una naturalezza e un suono davvero piacevole e divertente.

Veronica Sbragia ha un sorriso che è già un incontro e una grande verve da donna di spettacolo nata per le assi del palcoscenico, con una sonora, incantevole risata argentina che subito conquista, ma soprattutto è una splendida musicista con una gran voce capace di spaziare dai registri più potenti e gravi delle blue notes fino agli acuti più strillati del folk Hilly Billy Redneck.

La sua ukulele fornisce il supporto armonico ideale alla sei corde di De Bernardi. Ancor più esotico ed emozionante il suo accompagnamento ritmico al Washboard, uno degli strumenti più affascinanti e rustici della musica afroamericana e folk roots, che lei abilmente percuote com’è tradizione, con spazzole per capelli dai denti di metallo, colpendo di tanto in tanto un piccolo piatto e azionando contemporaneamente il tipico campanello in pieno stile Barrel House. Insomma, è davvero straordinaria e coinvolgente, quasi una One Woman Band.

Naturalmente, anche De Bernardi è insostituibile e guida il duo con il suo artiglio di metallo che, pizzicando le corde, evoca le atmosfere dei fumosi locali del sud degli Stati uniti agli inizi del secolo, la fatica dei campi di cotone, il passare del treno, la nostalgia per un amore perduto, ma anche le allegre feste campestri con i balli, le bevute, i giochi, gli scherzi e le corse tra i fiori.

La scelta di repertorio prevede anche gospel che, contrariamente a quello che racconta lo stereotipo, è stato quasi sempre in simbiosi con la musica del diavolo. Così risuonano le note di Take my Hand, Precious Lord normalmente attribuito a Thomas A. Dorsey ma molto più antico tanto da essere uno standard inciso e suonato un po’ da tutti i grandi della musica, meravigliosa la versione di Elvis Presley. Si sentono però anche quelle molto più profane di Candy Man del fantastico Mississippi John Hurt, che racconta di uno strano venditore ambulante e della sua “caramella” che, almeno così dicevano nel Delta, piace tanto alle donne: “His stick Candy don’t melt away/ it just gets better, so the ladies say

È raro sentir suonare il folk blues in modo così raffinato e al contempo onesto, esiste purtroppo uno stereotipo che fa apprezzare al grande pubblico solo il blues elettrificato e acido che abbiamo conosciuto sul finire degli anni’60. La psichedelia e il blues rock hanno permesso che si sedimentasse un canone della musica afroamerica di grande impatto e bellezza ma che ha giocoforza spesso oscurato quell’enorme patrimonio di stili, tendenze, correnti e sottogeneri dal quale era germinato.

Siamo abituati ad ascoltare soprattutto il blues urbano di Chicago, nato quando i musicisti del profondo sud dovettero risalire il corso del Mississippi in cerca di fortuna e qualche ingaggio, dopo la grande inondazione del 1927 che aveva reso impossibile la vita nel Delta spazzando via New Orleans sessant’anni prima del fatale uragano Katrina.

Bene fanno perciò Veronica e Max a proporre un repertorio slegato dalle solite cose già sentite e risentite mille volte, che scava nella tradizione del folk blues rurale, del gospel e perfino del ragtime e tanto altro.

Nel bis, tra gli applausi, la cigliegina finale con il brano Memphis Flu del reverendo Elder Curry che nel 1929 esortava i propri fedeli a pentirsi davanti all’inarrestabile diffondersi di un’epidemia influenzale, dando vita ad un brano che, come sempre, ha avuto mille versioni e trascrizioni. Certo il tema è cupo e tetro visto i tempi ma la magia del blues e la bravura dei due musicisti ha saputo interpretarlo in modo lieto e perfino allegro.

Memphis Flu is at our door/ and it will surely kill the rich and the poor/ If we don’t turn away from our shame/Oi! Wahoo!

Per com’è andato il concerto nel complesso sono stati loro la vera attrazione della serata e gli amanti del blues e della musica roots americana possono stare davvero contenti per le splendide emozioni.

James Senese e Napoli Centrale. Come si dice nel canto V dell’Inferno: “Or incomincian le dolenti note”. In passato James Senese è stato spesso paragonato ad autentici geni della musica afroamenricana. È nota la sua passione per John Coltrane cui ha dedicato graziosi omaggi in molti suoi dischi (Love Supreme, My Favorite things ecc.). In più di un’intervista anche recente, lo stesso Senese ha detto di ritenersi, per creatività e importanza, il Miles Davis italiano. Con tutto il rispetto, si ha come l’impressione che tutto ciò sia leggermente esagerato e fuori misura.

Non si può non riconoscere un’importanza rilevantissima all’opera di Senese nei primi anni ‘70 con i Napoli Centrale che vararono una formula musicale quasi del tutto inedita che coniugava le profonde radici musicali partenopee con quelle afroamericane ad istanze sociali di un certo rilievo. Dallo scioglimento degli Showmen il primo suo gruppo, nel quale militava con Franco Del Prete, suo sodale e amico fraterno da poco scomparso e il grande Elio D’Anna, germinò la straordinaria scena del rock progressivo napoletana con fantastici gruppi come Città frontale, Osanna, Balletto di Bronzo, Saint Just ecc.

Per capire nel particolare di cosa stiamo parlando è utile fare un riferimento ad uno dei tanti atlanti della musica progressiva italiana con testi a cura di Alessandro Gaboli e Giovanni Ottone:

Leader indiscusso del progetto (Napoli Centrale) è il sassofonista, lo straordinario James Senese, abile ad alternare assoli fiatistici al cantato napoletano, su testi impegnati socialmente e supportati da una musica jazz-soul amalgamata con elementi mediterranei. L’esordio nel 1975, piace molto al grande pubblico e porta nel gruppo una certa notorietà; il singolo Campagna dimostra quanto la platea italiana sia stufa delle complicate trame del prog e preferisca suoni più immediati…(dopo un primo cambio di formazione che porterà nel gruppo anche un giovanissimo bassista di nome Pino Daniele) con le successive prove ci si avvicina sempre di più al jazz (dopo quella prima esperienza) Senese continuerà in seguito a suonare come solista e a collaborare con una miriade di musicisti; si farà apprezzare anche dal pubblico statunitense in occasione della manifestazione “Harlem meets Naples” all’Apollo Theatre di New York”.i

Dopo i fasti degli anni ‘70 è seguita una lunga quarantennale carriera tra alti e bassi, che lo ha portato ad incidere moltissimo e a suonare sui palcoscenici di tutto il mondo. Senese ha riformato la band nel 1992 pubblicando alcuni discreti album in studio come Zitte! Sta vennenn’ ‘o mammone (2001) e ‘O sanghe (2016) fino al live dello scorso anno che testimonia un’inesausta attività di concerti ed esibizioni pubbliche.

Molto poco, quasi niente, di tutto questo si è visto e soprattutto ascoltato sul palco di Villa Varda.

Di quella stagione, stando a quest’ultima esibizione, non rimane che un vago ricordo e tanta nostalgia per un passato che non ritornerà più. I Napoli centrale ormai esistono solo sui manifesti e nei vecchi vinili (Napoli Centrale, Mattanza, Qualcosa ca nu’mmore) che alcuni fan attempati hanno cercato inutilmente di farsi autografare dallo scostante sassofonista.

Il leader è apparso ombroso, distante, sbrigativo e i suoi musicisti non hanno potuto fare altrimenti, visto che sono comandati a bacchetta.

Ma non è questo il punto, una serata sbagliata può capitare a tutti, anche ad un grande artista di lungo corso come James Senese.

A lasciare sconcertati sono gli attuali arrangiamenti dei capolavori del passato e quelli dei nuovi brani, ma soprattutto le basi campionate usate a profusione per coprire difetti e magagne. In alcuni casi, le basi dai ritmi dance e tecno sovrastavano il lavoro dei musicisti che, anche per questo, si mantenevano al minimo sindacale con il muscoloso Fredy Malfi, che s’intuisce ottimo batterista, che ha mantenuto una ritmica davvero essenziale con la grancassa da scuola di musica di periferia (Tum Tum Tum), con il bassista dalla lunga carriera Rino Calabritto, schiena agli amplificatori, che raramente si è avventurato oltre le prime due corde del suo basso, in vero, dalle splendide potenzialità inespresse, e con il tastierista Paolo Sessa che, molto spesso, era difficile distinguere dalle basi. Il risultato finale era un misto tra festa di piazza, sagra campestre (costicine e polenta) e soundscape da luna Park per la festa dei santi patroni; niente di male ma certo non all’altezza della fama dei musicisti e nemmeno della gloriosa manifestazione pordenonese.

James Senese, anche nelle peggiori condizioni bisogna ammetterlo, mantiene comunque un certo fascino da vero bluesman del sud quale è. La sua voce che si è fatta meno aggressiva e più confidenziale sa ancora emozionare e le note del suo sax continuano a trasmettere good vibrations; grandi, indimenticabili cavalli di battaglia come Campagna, Acquaiò l’acqua è fresc’? Chi tiene ‘o mare (omaggio a Pino Daniele), E ‘na bella Jurnata, e poi quelli tratti dai suoi album più recenti ’O Sanghe, Bon Voyage e tanti altri evocano piaceri, afrori e fragranze lontane tra Africa nera e quartieri sfortunati di Napoli dove vive la povera gente e il popolo che soffre. Tutto questo ancora si intravvede nella musica di Senese ma è come sbiadito, confuso, sciapo, molto al di sotto, per esempio anche del recente album live pubblicato celebrativo dei suoi primi cinquant’anni di carriera Aspettanno ‘o tiempo (2018), testimonianza di un momento di grazia del sassofonista che sa ancora incantare quando vuole.

Finiti i brani in scaletta, saluta frettolosamente e forse contrariato da qualcosa, se ne va non concedendo alcun bis nonostante lunghi, fragorosi applausi di un folto pubblico fin troppo generoso.

Per rispetto ad un grande musicista del passato, facciamo finta che non sia successo niente, andrà meglio la prossima volta.

iAlessandro gaboli, Giovanni Ottone, Progressive Italiano, Giunti, Firenze 2007, pag. 47

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