Bluegrass Baby – Foto di Amerigo Dorbolò

Chi ha assistito al concerto tenutosi giovedì 6 settembre nella magica grotta di San Giovanni d’Antro ha vissuto un’emozione del tutto particolare. Non abbiamo ascoltato musica sacra, nemmeno folk tout court bensì un intero concerto di bluegrass music. La diffusione del bluegrass in Italia è stata favorita dal mandolinista milanese Massimo Gatti (da alcuni anni trasferitosi proprio in Friuli) che ha fondato nel 1977 lo storico gruppo Bluegrass Stuff, una delle formazioni più longeve presenti nella scena europea. Di loro ricordiamo, tra gli altri, il CD Booklet Bluegrass Vision, recentemente pubblicato dall’etichetta Nota di Valter Colle. Una particolarità del bluegrass, più volte emersa durante il concerto di San Giovanni d’Antro è la presenza di testi con contenuti struggenti, tristi che si contrappongono a una musica briosa, piena di vitalità con sonorità, quindi, apparentemente spensierate. Un binomio che caratterizza fortemente il genere, un vero e proprio patrimonio artistico donato agli States dagli emigranti europei, in particolare dagli scozzesi, inglesi ed irlandesi.

La formazione che si è esibita nello splendido scenario della Grotta di San Giovanni d‘Antro (superlativa anche l’acustica del luogo) si è cucita addosso il nome Bluegrass Baby. Il quintetto made in Friuli – composto da Matteo Strazzolini (mandolino e voce), John Santoro (banjo e voce), Bruno Muzzin (chitarra e voce), Giovanni Di Lena (violino) e Marco Blasig (contrabbasso e voce) – ha dato vita a una performance vivace ed energica proponendo una serie di classici, presentando i singoli pezzi con un’introduzione necessaria a chi non conosce la storia di questo genere, pressochè sconosciuto nello stivale, ma amatissimo oltreoceano e non solo. Bill Monroe, padre del bluegrass è stato evocato più volte nel corso dello show, che ha registrato una presenza molto numerosa con un pubblico ricettivo e molto entusiasta. Tra i pezzi eseguiti la celebre Wayfaring stranger, un vero e proprio inno – interpratata, tra gli altri da Johnny Cash, Jack White e i 16 Horspower – tanto per rendere l’idea dell’importanza del brano. Tra i cosiddetti classici in scaletta le strumentale Red haired boy, Cherokee shuffle e altri brani come Old Joe Clark e Kentucky Waltz, quest’ultima di Bill Monroe. Molto interessante e d’effetto la rivisitazione di Have you ever seen the rain dei Creedence, in chiave adatta alla serata, che ha messo in evidenza il trio di voci formato da Matteo Strazzolini, Marco Blasig e Bruno Muzzin. Nell’epoca attuale, dove un DJ ormai è autorizzato sfrontatamente a dire che suona, nell’epoca dell’Auto-Tune e delle basi preregistrate, è veramente un piacere constatare che ci sono ancora musicisti in grado di affrontare una platea armati di chitarre, mandolini, violini, banjos e contabbassi, senza trucchi e inganni. E‘ questa la vera essenza della musica, che va recuperata al più presto scongiurando il degrado artistico che sta portando da un lato l’arricchimento di promoters e delle case discografiche e dall’altro un pesantissimo impoverimento dei contenuti artistici espressi in campo musicale. I numerosi bis – richiesti a gran voce dal pubblico presente – testimoniano una sorta di rinascita: c‘è voglia di ascoltare concerti veri. Auspichiamo che gli echi di concerti come questo arrivino alle orecchie degli organizzatori di eventi anche pubblici, anch’essi ormai troppo concentrati sull’incasso degli spettacoli più che agli aspetti artistici. E quindi auguriamo ai Bluegrass Baby di trovare nuove opportunità live: nell’estate ancora in corso si sono esibiti in diversi luoghi e speriamo di poterli riascoltarli presto.

Foto di Amerigo Dorbolò