La serata di domenica 9 luglio ha visto Sexto’Nplugged tingersi dei colori del pop, quello di Ben Howard, musicista alla ricerca del sacro graal della canzone perfetta; melodia accattivante, perfetto ritornello, lavoro di cesello sugli arrangiamenti. Il tutto in 3, massimo 4, minuti. Non sempre però i nobili propositi portano a risultanti eclatanti, come dimostra il fresco di stampa “Is it?” dove pur riprendendo il modus operandi del precedente disco, il cantautore non fa l’auspicato salto di qualità. L’impressione è che il cantante chitarrista britannico, uscito dalla comfort zone degli esordi (un folk rock piacevole ma sostanzialmente poco personale) si sia avventurato in campi che non sono nelle sue corde. Molto pop, anche se con spezie diverse (rock, punk, ska), il dj set di Mary Disastro nello spazio Sexto Lounge che prelude all’opening act di MABE FRATTI, violoncellista guatemalteca, accompagnata da un chitarrista tutto effetti e pedaliere, una sorta di Fripp in tono minore. Il tono della performance va dalla sperimentazione (dovuta alle contorsioni chitarristiche), alla melodia arricchita dagli intarsi vocali della Fratti. Un bel connubio, che forse abbisognerebbe di un maggior numero di musicisti sul palco, a dare più colori e varietà ai brani proposti. Problema che non ha Ben Howard che sul palco è accompagnato da un gruppo di musicisti nutrito (basso, batteria, chitarra e tastiere) che supporta in maniera professionale il cantante britannico. L’ultimo disco fa la parte del leone nel concerto, che inizia infatti con “Walking Backwards” e Couldn’t make it up, che, francamente, non decollano ed,anzi, mostrano pericolose scivolate verso certo rock da classifica anni ottanta. Il successivo “Days of Lantana” porta i binari sulla ballatona, ma ahimè è tediosa come poche. Il tono di voce del cantautore è monotono e non risolleva canzoni che reggono in studio ma dal vivo non hanno gran sostanza. Il gruppo è bravo, ma non va oltre il compitino del suonare bene senza sbavature. Non tutto è negativo: “ Crowhurst meme” con i suoi ritmi sincopati riempe di elettricità ed energia un set avaro di guizzi e di invenzioni; Follies Fixture (tratto come il precedente da Collections from the Whiteout) pianistica, circolare ed ipnotica a tratti cattura. Ben Howard forse deve decidere che direzione prendere: o continuare a ricercare nuove e convincenti soluzioni o puntare a diventare una copia di Ed Sheeran. “Small things”, suggestiva in studio, diventa dal vivo stiracchiata ed è macchiata da un’interpretazione vocale poco convincente. Forse è proprio questo il problema di Ben Howard: gli manca quel fuoco che aveva dentro Jeff Buckley o quel soul che rende un cantante speciale. A causa di questo anche i pezzi vecchi, come “The Fear” perdono smalto dal vivo. Il pubblico comunque gradisce e dimostra di conoscere bene le canzoni viste le ovazioni ricevute alle prime note dei brani anche meno nuovi. Bene per il musicista britannico che comunque avrà delle soddisfazioni al botteghino (e poco male, visto che ben di peggio gira nel mondo musicale), male per chi cerca dalla musica qualcosa di più consistente.

Daniele Paolitti – instArt 2023 ©