Il secondo grande appuntamento metal della scorsa estate friulana è stato il concerto degli svedesi Amon Amarth sempre all’Arena Alpe Adria di Lignano Sabbiadoro. In una serata sold out i vichinghi del clan di Johan Hegg, vocalist e massiccio frontman, si sono fatti precedere da una delle band più interessanti dell’intera scena europea della musica dura.
19/08 Amon Amarth + Insomnium + Kanonenfieber Il Viking metal ha una lunga tradizione dietro le spalle. Le saghe norrene hanno sempre avuto un grande fascino per la musica prima folk, in seguito rock e poi molto oltre.
Per restare strettamente alla musica scandinava è necessario ricordare Ace Börje Thomas Forasberg in arte “Quorthon” deus ex machina del gruppo seminale svedese dei “Bathory” che inaugurò il nuovo genere con l’album Hammerhearth (1990).
Lo stile affine ad alcune tematiche Black metal del quale è, in buona sostanza, un’evoluzione, possiede ritmiche più rallentate a volte marziali o tribali, arrangiamenti ispirati alle tradizioni musicali folkloriche che prevedono anche l’uso di antichi strumenti. Al clangore di tamburi e chitarre affilate si uniscono tematiche epiche che raccontano di campi di battaglia, di scontri tra titani, cosmogenesi e crepuscolo degli dei, tra wagnerismi e tentazioni progressive.
Gli Amon Amarth, anche se non possono essere classificati sbrigativamente in un unico genere, fanno parte fin dall’inizio di quella scena musicale e ancora oggi mantengono saldamente il primato tra i figli di Odino con la chitarra elettrica brandita come una scure.
In questo contesto, almeno un accenno meritano i lavori e le performances di un gruppo come i norvegesi Wardruna che ha completamente abbandonato i furori del metal trasformando la propria energia in un progetto interamente neofolk in cui interpreta la musica e i ritmi degli antichi scandinavi.
Gli Amon Amarth si sono presentati, anche visivamente, come l’avanguardia della Great Heaten Army, la coalizione di guerrieri scandinavi, genericamente Vichinghi, che a partire dal IX sec. invase l’Inghilterra per poi dilagare in tutta Europa.
Citando direttamente i poemi e le leggende norrene, i vichinghi con la chitarra elettrica cantano e suonano di battaglie sanguinose, di pericolose navigazioni, di avventure tra mostri e guerrieri votati alla morte cruenta mentre sul palcoscenico fanno la loro parte figuranti con spade, scudi e berdiche oppure si vedono colossali statue di guerrieri, mostri marini, paesaggi spettrali, per un impatto spettacolare impagabile sostenuto da una musica che per gli appassionati è un vero nettare.
Tanto per capire l’appeal che ha la band svedese, tra il pubblico si faceva notare un fan con un vistoso costume da guerriero berserker con pelliccia d’orso; vista la temperatura agostana da spiaggia si trattava di eroismo vero e proprio.
I Kanonenfieber sono saliti sul palco alle 18,20 e si sono dimostrati tutt’altro che un gruppo spalla o dei comprimari con i loro stranianti costumi da soldati della Prima Guerra mondiale con il volto travisato da scuri cappucci.
Il primo brano è il tiratissimo “Grossmachtfantasie” e immediatamente fanno capire il loro livello di assoluti outsiders con una forza e capacità espressiva che li distinguono nettamente nel panorama della musica. Elmo chiodato per il cantante e brani introdotti da rumori di guerra. Segue l’iconica Manschenmühle (Macina-uomini/Carne da cannone).
Un brano è dedicato ai sommergibilisti degli U-Boot con la band che veste apposite divise e il rumore di un sonar a scandire l’introduzione. Ci tengono molto alla teatralità e al concept sulla Grande Guerra, fiamme e fumo sul palco, i testi e le situazioni sono tratti da documentazione d’epoca come lettere di soldati, dispacci ufficiali e bollettini di guerra.
Secchi, duri, decisi, senza sbavature, il ritmo dei Kanonenfieber è quello marziale della marcia verso il fronte e delle mitragliatrici raffreddate ad acqua o all’occorrenza ad urina, che battono sugli avamposti nemici.
Funziona moltissimo anche la voce declamante che di tanto in tanto risuona. La band tedesca riesce ad essere allo stesso tempo assolutamente devastante, lirica, evocativa e politica riuscendo a veicolare plasticamente complicati concetti etici e sociologici.
Se ci riflettiamo solo un istante, un progetto antimilitarista basato sugli eroi del Piave o sui Cavalieri di Vittorio Veneto è assolutamente impensabile nel nostro paese nel quale vige ancora una retorica nazionalistica e, in fondo bellicista, che tende a esaltare, con la scusa di un certo pietismo, le imprese eroiche dei martiri per la patria che soprattutto nel caso della Grande Guerra, spesso non erano altro che poveracci del tutto inconsapevoli, mandati al macello grazie a litri di grappa e a minacce di fucilazioni.
Nemmeno il tanto blasonato cinema italiano ha saputo interpretare degnamente quella immane tragedia se si esclude “Uomini Contro” di Rosi e poco altro.
Risuona anche “The Yankee Division March”, “canzoncina” tragicamente e ferocemente satirica che smitizza l’intervento americano in Europa durante la Grande Guerra; durante il brano il leader del gruppo indossa una maschera a forma di teschio con elmo chiodato.
E’ arrivato il momento di un altro massiccio Wall of Death decisamente partecipato e ben riuscito da parte del pubblico, un vero peccato che il set dei tedeschi sia stato davvero troppo breve (18,20-19,50). La speranza è quella di rivederli presto sui palcoscenici friulani in un’esibizione dedicata completamente al loro repertorio.
Scaletta: Grossmachtfantasie, Manschenmühle, Dicke Bertha, Ubootsperre (intro registrata) Kampf und Sturm, Die Havarie, Over there (registrata) The Yankee Division March
Giusto il tempo di una pisciatina, un salve regina con birretta d’ordinanza per reidratare e ottundere il cerebro e i fan erano pronti per un altro giro e un’altra corsa. Dopo il solito veloce cambio-scena e strumentazione è stata la volta dei finlandesi Insomnium.
Alle 21,10 un’atmosferica introduzione chitarristica di folk celtico con autentici lampi di temporale sulla laguna in sottofondo apriva la dimenticabile esibizione della storica zuccherosa band di melodic Death Metal di Joensuu, capitale della Carelia Settentrionale, nota per il suo importantissimo porto commerciale e per i suoi feroci nazi-skin.
Lo stile musicale degli Insomnium, di grande ispirazione letteraria, è decisamente epico e classicamente patinato nell’approccio; la voce è tonante e cavernosa, ma nel complesso non molto efficace.
E’ vero che hanno avuto la sfortuna di arrivare dopo gli eccezionali tedeschi con la mitragliatrice, ma i loro inserti melodici sono sembrati del tutto anacronistici e laccati.
Naturalmente, il pubblico ha gradito parecchio nonostante la saturazione glicemica e il rischio di coma diabetico.
La band, tra un brano e l’altro, ha cercato anche di interagire con il proprio pubblico iniziando con un fiacco: “We are Insomnium from Finland” e facendo seguire ammuffita parola di italiano che probabilmente il loro tour manager gli aveva fatto ripetere a forza sul torpedone che li portava a Lignano (Pizza, tagliatelle Alfredo, Parmigiano e via discorrendo).
Nonostante il loro set si fosse ridotto ad un’interminabile teoria di ballad canoniche e fin troppo convenzionali, sotto il palco il pubblico era talmente carico da far girare più di un vorticoso mosh pit. Continuano i riff chitarristici smielati che non hanno più niente da dire da vari decenni.
Dal palco arrivano altre esortazioni in inglese che vengono immediatamente accolte dal pubblico che ha una gran voglia di divertirsi:
“Vi voglio vedere tutti diventare pazzi con queste canzoni, qualche giorno fa abbiamo suonato in Germania e non era tanto male, voi italiani dovete essere migliori”.
Il sound diventa addirittura poppeggiante, derivativo e perfino ballabile, i presenti vengono spinti perfino ad un ritmico battimani come in un DJ set. A guardare i metalheads sottopalco però sembra che certe cose piacciano ancora e i gusti del pubblico pagante non si discutono. L’importante è essere felici e sudare tutti insieme saltando e pogando.
In realtà, nel set dei finlandesi non tutto è da buttare, il genere melodico risulta solo un po’ frusto soprattutto se schiacciato tra due esibizioni di livello decisamente più alto.
Amon Amarth La batteria, che troneggia impressionante per numero di piatti, tamburi e doppia grancassa, è incastonata su un enorme elmo vichingo con tanto di corna al centro del palco.
Nelle orbite vuote dell’elmo passano immagini di fuoco e del mare in tempesta.
Ai lati, i chitarristi su due piccole scalinate come guerrieri armati delle loro scuri; alle loro spalle, dipinti sul telone di fondale, si vedono gli armati vichinghi pronti per sferrare il loro attacco, come sulla copertina di “The Great Haten Army”, il più recente e sincero lavoro discografico dei tredici incisi dalla band di Stoccolma a partire dal 1992.
Un sapiente gioco di luci da profondità alla scena, in fondo semplice, ma molto evocativa.
Alle 21,30 precise vengono issate (gonfiate) due enormi statue di guerrieri ai lati del palcoscenico e un intro sinfonica prepara al combattimento e subito la battaglia ha inizio, l’impatto dei 5 norreni è spaventoso.
Il frontman e vocalist Johan Hegg ha proprio il phisique du role e anche una voce tonante come quella del dio Thor; rivolto al pubblico urla: “Siete pronti a combattere come vichinghi stasera?”, meritandosi un’ovazione di consensi entusiastici.
La scenografia, l’evocativa, dura musica da campo di battaglia, il fragore dei combattimenti che sembra scaturire dalla ritmica implacabile e dalle chitarre affilate raccontano di un mondo nel quale la vita e il valore venivano giudicati sul campo di battaglia.
Si canta, per esempio, di Loki the deciver of the Gods, il dio folle e ingannatore del cielo e della terra mentre, sul palco, si aggira una comparsa vestita da dio minaccioso e cornuto che il cantante finisce per cacciare letteralmente a pedate.
Più di un brano racconta sinistramente del Ragnarok, la fine del mondo, nel quale gli dei si combattono e distruggono il ciclo temporale nel quale siamo immersi per dar luogo al successivo, tra vessilli insanguinati e spade che scintillano contro il cielo nero. Ci si creda o meno, durante la forsennata esecuzione di questi brani il cielo nero di nuvole temporalesche era davvero percorso da spaventosi fulmini e da brontoli lontani con un orizzonte che nemmeno il più capace degli scenografi avrebbe potuto immaginare.
Un veloce cambio scena ha fatto apparire un Drakkar nel mare in tempesta come assoluto protagonista e perfetta ambientazione per i brani dedicati alle imprese marinaresche dei guerrieri scandinavi dalle lunghe barbe. Ai lati del palco, campeggiavano due enormi polene in forma di serpente minacciose e sinistre.
Le narrazioni in musica di quegli antichi orrori sono piacevoli solamente perché li possiamo considerare come una cruenta favola di mostri, di dei e di guerrieri barbuti. La nostra realtà è di gran lunga peggiore e decisamente più tetra. Il furore vichingo si è trasformato nella normalizzazione del genocidio. Il nostro presente è decisamente più crudele, viaggiare sulle ali della fantasia anche scagliati in alto dalla musica più irruenta cui possiamo pensare, invece, non può farci alcun male.
Gli Amon Amarth da tre decenni cantano “The Way of Vikings”, il modo di vivere degli antichi vichinghi e non importa se spesso la realtà storica è radicalmente diversa dal mito, quello che tutti vogliono è sognare una vita più avventurosa e stimolante di quella alla quale siamo incatenati.
A stemperare l’atmosfera l’epica guerriera durante l’esibizione, un salvagente a forma di unicorno con i colori dell’arcobaleno, saltava tra il pubblico divertito, quasi a significare che non bisogna mai prendersi troppo sul serio; eravamo tutti al mare d’Agosto, la musica era ottima, così come la birra e allora divertiamoci e nessuno si offenda.
Come sanno bene i fan della band, durante i loro concerti non manca mai il momento nel quale le centinaia di persone sotto il palco, si siedono per terra uno dietro l’altro in file compatte, simulando lo sforzo dei rematori sulle navi vichinghe al ritmo dei tamburi della band. È uno spettacolo nello spettacolo che merita di essere visto e a cui è un vero spasso partecipare.
Come gli Amon Amarth a fine concerto hanno salutato il proprio pubblico con un brindisi alla maniera vichinga: “We raise our orns to you, Salute, Skol” salutiamo anche noi. Forse non ci saremo meritati il Valhalla e le valchirie sui cavalli alati, ma tutto sommato abbiamo combattuto bene e ce la siamo cavata…fino a qui tutto bene.
Scaletta: Raven’s Flight, Guardians of Asgaard, The pursuit of Vikings, Deciver of the Gods, As Loke Falls, Tattered Banners and Bloody Flags, Heidrun, War of the Gods, Put your Back into the Oar, The way of vikings, Under the Northern Star, First Kill, Shield Wall, Raise your Horns. (Encore) Crack the Sky, Twilight of the Thunder God
14/08, Mudhoney al Capitol di Pordenone Veterani del Grounge, il gruppo capitanato da Mark Arm (chitarra e voce) comprende anche Steve Turner (chitarra), Dan Peters (batteria), tutti e tre membri fondatori della band che non ha mai avuto cambi di formazione sostanziale dal 1988, solo Guy Maddison (basso) è entrato in formazione nel 2001.
I quattro sono quello che avrebbero potuto essere ora i Nirvana se avessero posseduto del vero talento e un po’ meno manie di autodistruzione.
Non serve dire che il gruppo di Kurt Kobain ha avuto un influsso eccezionale su un’intera generazione di musicisti e di fan, ma è stata una meteora che si è esaurita nello spazio di un batter di ciglia e che a distanza di tanti anni dimostra la propria inconsistenza di band fin troppo sopravvalutata.
Del tutto diversa la carriera dei Mudhoney che erano e restano gli araldi di un rock senza tempo, nè compromessi che, partito dai clangori scomposti della seconda ondata del punk, arriva fino ad oggi senza alcun cedimento, avendo mantenuta pressoché intatta la grinta dissacratoria e lo stile abrasivo e frontale della prima ora.
Ore 20,30 salgono puntuali sul palco i giovanissimi Søwt, band olandese d’apertura con glissando che scordano le chitarre e tanto per far capire l’andazzo, pestano duro un noise trasecolato e depressivo mentre la bassista canta stranita e lunare.
La sua voce calda e urlata, da un sussurro si trasforma in un gemito senza quasi modulazione, davvero straniante.
La band è decisamente ispirata al post rock più distruttivo e angoscioso, con distorsioni e derive in veste di disperazione, malinconia, abbandono e camere squallide dai letti sfatti in un’atmosfera depressiva dove i gesti sono estremamente rallentati e sedati con ritmi imballati e poi ruvide rasoiate che lasciano tramortiti.
Amano suonare con i capelli sulla faccia come il cugino IT della Famiglia Addams, non è certo una novità almeno dai tempi del punk quello vero, ma fa parte dello show ed è sempre un bel vedere.
La bassista/cantante è una che soffre e ci tiene a farcelo sapere e a noi piace tanto, ascoltando le sue contumelie ci sentiamo migliori, meno soli e stonati, fuori sincro con quello che ci sta accadendo attorno. Il batterista esagitato sembra nel pieno di una crisi psicotica, sono decisamente ipnotici. Anche una certa dose di noia costruttiva fa parte di questo genere. Gli Søwt si celano dietro una ripetitività ossessiva, e la sedimentazione per accumulo di distorsioni sonore le più bizzarre e stranianti, insomma, fanno un gran casino.
Tutti i musicisti sembravano molto coinvolti dalla situazione ed evidentemente “fatti di acidi” come scimmie urlatrici, soprattutto il batterista, totalmente perso tra i tamburi e i suoi personali deliri.
Con quel poco di salute mentale che gli era rimasta a fine set, hanno ringraziato il pubblico d’essere venuto, forse non ci sono abituati e si sono detti molto onorati di aprire il concerto di una band così famosa e vorrei ben vedere.
I Mudhoney si sono presentati ufficialmente per promuovere il loro ultimo lavoro in studio, “PlasticEternity” (2023), ma un pretesto vale l’altro, l’importante è che continuino a suonare e fare tour in modo che gli appassionati possano continuare a goderseli.
Forse anche loro non hanno più l’età per “amare” o forse non l’hanno ancora raggiunta. Ma picchiano comunque duro e questo è quello che conta.
Naturalmente, non è questione anagrafica, ma di attitudine e di voglia di esprimere al meglio quello che si ha da dire e i Mudhoney sembrano non aver esaurito per nulla il loro discorso ed è davvero un gran bel sentire.
La loro esibizione è stata serratissima, poche chiacchiere e tanta musica, una valanga, una slavina, uno smottamento, uno sciame sismico.
La band, nonostante siano passati più di trent’anni da quando esplose la furia del grunge, del post rock, entrambi degenerazioni del punk, non ha per nulla esaurito la sua forza propulsiva, e scalcia, artiglia, lacera e ferisce ancora, è vitale, coinvolgente e non se la tira proprio per niente, l’atteggiamento è quello del punk più barricadero e sfrontato.
La loro è una lunga carriera che forse ai più è misconosciuta anche se i loro brani sono stati violati e saccheggiati in lungo e in largo. La loro discografia vanta 16 album pubblicati dal 1989 senza mai alcun sostanziale cedimento; dalla prima alla più recente esprimono un’energia sulfurea, rozza e sludge davvero stupefacente tanto che la loro ultima incisione rivela un carisma e una creatività assolutamente intatti.
La loro forza ancora primordiale però la dimostrano pienamente dal vivo. Il concerto di Pordenone è stato come un cazzotto in pieno viso tirato a freddo senza alcun motivo, violenza dissacrante senza mezzi termini dalla prima all’ultima nota.
Sotto il palco si salta, si poga e si suda come di prammatica. Un solo brano “lento” nel finale, una specie di macabra e ritmata marcia funebre sotto il sole abbacinante di una città desolata che sfocia in un forsennato solo di batteria con improvvisazione di chitarra e finale super scatenato che diventa uno dei brani più veloci e duri della serata.
Sono stati efficacissimi anche nei brani strumentali, lunghi intermezzi velocissimi e metallici da togliere il respiro.
Più di trent’anni di musica sgraziata e distorta, cantata e suonata con l’attitudine giusta da punk rokers impenitenti; l’unico paragone possibile è quello con Iggy Pop, l’iguana punto di riferimento e modello per chiunque voglia conoscere davvero la trasgressione in musica.
“If I Think”, una loro acida e abrasiva canzone d’amore del 1988, che non a caso ha aperto il concerto di Pordenone, riassume bene quella disperata vitalità che ha sempre distinto la band ed è la giusta conclusione per questa recensione:
I forgot how to breathe I forgot just what I need Saw the world laid out before me I saw everything so small If I think, I think of you If I think, I think of you I open my eyes Watch the sky turn blue I felt so good I almost forgot All about you I forgot how to cry I forgot I could die And I’m so sick of what I need I could close my eyes and fall If I think, I think of you If I think, I think of youI open my eyes Watch the sky turn blue I felt so good I almost forgot All about you |
Ho dimenticato come respirare Ho dimenticato proprio quello di cui ho bisogno Ho visto il mondo steso davanti a me Ho visto tutto così piccolo Se penso, penso a te Se penso, penso a te Apro gli occhi Guarda il cielo diventare blu Mi sentivo così bene che quasi dimenticavo Tutto su di te Ho dimenticato come piangere Ho dimenticato che potevo morire E sono così stufo di ciò di cui ho bisogno Potrei chiudere gli occhi e cadere Se penso, penso a te Se penso, penso a te Apro gli occhi Guarda il cielo diventare blu Mi sentivo così bene che quasi dimenticavo Tutto su di te |
Flaviano Bosco / instArt 2025 ©