Adesso che il ciclone Poppea con le sue bombe d’acqua si sta portando via gli ultimi brandelli di questa strana estate è piacevole riandare con la memoria ad un’iniziativa che l’ha idealmente aperta.

Per il terzo anno consecutivo l’ass. Time for Africa onlus, in collaborazione con lo Spazio 35 di Udine, ha organizzato tutti i martedì di giugno piacevoli incontri sulla cultura afro-americana che prevedevano, dopo alcune chiacchiere tra letteratura e musica, concerti a tema con i migliori musicisti jazz della Regione.

Il Jazz non può essere definito solo un genere musicale tra i tanti. Oltre ad essersi generato in seno ad un preciso per quanto vasto gruppo di culture, quelle dei componenti della diaspora africana nel nuovo mondo schiavista, è poi germinato disseminandosi in ogni parte del pianeta e porta con se un fascino e una magia legata ai luoghi nel quali mette radici.

La rassegna “Biblioteca in Jazz” è diventata un appuntamento immancabile e atteso della primavera che in Borgo stazione fiorisce ogni anno come le magnolie. Una semplice idea del Maestro Simone Serafini e di Umberto Marin si è trasformata in un vero e proprio evento che, con grande semplicità e immediatezza, fa risuonare le blue notes in un quartiere che molti considerano un ghetto ma che ha una vitalità straordinaria e un’energia che solo pochi si sono sforzati di intercettare e comprendere.

Il jazz è soprattutto aggregazione e condivisione, mescolanza e scambio di emozioni al di là delle differenze linguistiche e culturali, è il miglior lasciapassare per un mondo migliore. Anche per questo nella rassegna si sono voluti intersecare i pentagrammi dell’improvvisazione con i racconti delle culture che permeano la musica afroamericana a partire dalla sua origine, per definizione meticcia, ibrida, mezzosangue e, per l’appunto, bastarda come tutte le cose più belle.

Lo scopo degli incontri è quello di sensibilizzare e divulgare le culture dell’Africa e fornire momenti di riflessione informale su brucianti tematiche di attualità relative all’integrazione, ai migranti, alla giustizia sociale, ai diritti civili. Non secondario anche il fatto di aver scelto come luogo degli incontri il Borgo delle magnolie (Borgo stazione), una zona di Udine spesso ingiustamente diffamata e discriminata perché abitata da un numero consistente di persone dalle provenienze più diverse.

Come in tante altre città, purtroppo, anche nel capoluogo friulano vige un’insensata, criminale politica dei ghetti a causa della quale in alcuni quartieri si concentrano scientemente quelli che vengono ritenuti “problemi” e non persone e ancora meno risorse e opportunità di conoscenza, confronto, crescita e scambio.

Per fortuna, la città di Udine può anche contare su luminose intelligenze e tante persone di buona volontà che s’impegnano a lottare contro i pregiudizi considerando gli altri non sempre e solo come una minaccia, ma come parte della propria esperienza di vita, compagni alla stessa tavola dell’esistenza, pellegrini sul medesimo sentiero, fratelli di una famiglia allargata che abbraccia tutto il pianeta.

Tutto questo è “In direzione ostinata e contraria” a quello che ci viene propagandato dall’attuale clima politico nazionale e regionale, ma in sintonia con gli intenti della nuova amministrazione comunale della città, mosca bianca tra quelle friulane che hanno ancora il coraggio di definire e attuare politiche progressiste nella generale atmosfera di reazionaria repressione e qualunquistica, criminale indifferenza.

In una situazione del genere, non nuova in verità, ma peggiore al passare del tempo, rivoluzionario è anche trovarsi in armonia in un luogo ad ascoltare chiacchiere e note inusuali come sono quelle del Jazz, nate per sovvertire, rovesciare, disturbare l’ottuso ordine costituito e la protervia di chi crede che il mondo debba avere un solo colore, l’orbace e una sola lingua, quella delle differenze e dei privilegi.

Se qualcuno considerasse queste ultime solo come lamentazioni e vuote recriminazioni, si legga il caso editoriale dell’estate, primo in classifica nelle vendite dei saggi in questo sciagurato paese che confonde la libertà di parola e di opinione con le “parole in libertà” e il criminale “diritto all’odio”.

Gli incontri si sono tenuti nell’accogliente sala dello Spazio 35 in via Percoto, un luogo di resistenza culturale e grande creatività; ognuno di essi è stato introdotto da una breve riflessione su alcuni temi d’attualità e da aneddoti tratti dalla storia del jazz, il tutto cucito insieme dal tema del meticciato e della libertà di scegliere e di sapere che quest’anno faceva da cornice.

Mussin-Ieraci duo playing standards. Rosa Mussin (voce) Filippo Ieraci (chitarra)

Il celeberrimo bolero psichedelico “White Rabbit” dei Jefferson Airplane (1967) era vagamente ispirato alle suggestioni provenienti da Sketches of Spain Miles Davis/Gil Evans (1960) che a propria volta si riferiva al Bolero di Ravel e al Concierto de Aranjuez di Joaquin Rodrigo (1939).

Nella canzone si parla di una pillola che amplificherebbe le nostre percezioni, con essa è possibile varcare la soglia dello specchio e scoprire nuove dimensioni. Molti anni dopo lo stesso concetto “psichedelico” venne ripreso nei film della tetralogia di Matrix. Nel primo capitolo della saga, Morpheus dice a Neo che non sa ancora di essere l’eletto:

“E’ la tua ultima occasione, se rinunci non ne avrai altre. Pillola azzurra, fine della storia: domani ti sveglierai in camera tua, e crederai a quello che vorrai. Pillola rossa, resti nel paese delle meraviglie, e vedrai quant’è profonda la tana del Bianconiglio. Ti sto offrendo solo la verità, ricordalo. Niente di più.”

A parte i gustosi riferimenti alla fiaba di Lewis Carroll, nel testo cinematografico è espresso un contenuto decisamente ambiguo, anzi un vero e proprio ricatto: non ci sono solo due scelte, aut-aut, fortunatamente siamo liberi anche di non scegliere. La logica binaria, quella del bianco o del nero, dello spento o acceso, carne o pesce è una logica mercantile che va bene per le merci non per gli esseri viventi.

L’improvvisazione nel Jazz, molto più codificata di quello che generalmente si crede, ci permette di non scegliere per forza una nota o l’altra, un accordo seguito dal successivo in un pentagramma rigido come le sbarre di una prigione. Volendo lo si può fare anche in dissonanza oppure scegliere qualcosa di completamente diverso o ancora inventarsi una soluzione del tutto slegata da qualunque convenzione. Il Jazz non può certo risolvere tutti i nostri problemi esistenziali, sociali e politici ma ci può aiutare a capire cosa sia davvero la libertà, non ci resta che ascoltare con attenzione.

Rosa Mussin e Filippo Ieraci sono ormai molto più che due promesse della musica regionale. L’incantevole voce di lei naturale, morbida, mai forzata né impostata, corrisponde alla sua innata, suadente simpatia. Il chitarrista dalla grande versatilità possiede una dote innata per la ricerca dei suoni più particolari e raffinati ed è completamente privo di quella spocchiosa arroganza che spesso connota i funamboli della sei corde, il cui atteggiamento sovente è quello dei fenomeni sempre alle prese con i più astrusi assolo.

Ieraci, al contrario, possiede una calma olimpica e una chitarra che “sorride” e ti mette immediatamente a tuo agio senza voler forzatamente annichilirti. Come diceva Charles Mingus: “Chiunque può suonare in modo strano, è facile. Il difficile è suonare in modo semplice, come Bach. Rendere complicato ciò che è semplice è una banalità. Rendere ciò che è complicato semplice-assolutamente semplice – questa è la creatività”.

Mussin e Ieraci, in questo senso, sono “semplici” cantano e suonano senza alcuno sforzo apparente, ascoltarli non ne richiede nessuno, è tutto pura gioia e bellezza.

Il duo ha presentato un piacevolissimo songbook dedicato ad Ella Fitzgerald i cui brani erano introdotti dalla voce narrante sempre della Mussin riguardanti aneddoti della vita della grandissima cantante americana.

Con fare confidenziale ed accogliente i due musicisti hanno deliziato il pubblico con gioielli come -You showed me the way, Sweet Georgia Brown che la cantante incise con Duke Ellington e la sua orchestra, Summertime, la ninna nanna più famosa della storia del Jazz, da Porghy and Bess (1957) l’album della Fitzgerald che rilegge insieme a Louis Armstrong l’opera dei Gershwin, e ancora Chick to chick dal film Cappello a cilindro” con Fred Astaire e Ginger Rodgers.

Mentre Ieraci arpeggiava su accordi caldi ed emotivi che si sposavano perfettamente con il velluto dei vocalizzi di Mussin, la cantante batteva leggermente il tempo con il piede mentre la sua voce sorrideva, gioiosa, affascinante e ribelle.

Mussun è simpatica e ironica, interpreta in modo molto personale e garbato, capolavori immensi che spaventerebbero qualunque interprete.

L’attacco di “Dance with me”, dopo il breve solo di Ieraci, è tutta magia e rivela il gran gusto che entrambi hanno per il sussurro e per i suoni aerei ed atmosferici.

Fatte le dovute differenze, la creatività di Ella corrisponde a quella di Rosa che non cerca mai alcun confronto diretto con la grande cantante, non imita e non scimmiotta quell’impareggiabile che le cantava tutte e le sapeva tutte.

A questo proposito “The Lady is a Trump” descrive il periodo della grande notorietà di Ella perennemente in tour in giro per il mondo. Nemmeno Ieraci è un imitatore, è sempre alla ricerca di un suono tutto suo, lo trova strada facendo.

In un’intervista le dissero: “In Italia la chiamano Mama Jazz”, lei rispose: “Basta che non mi chiamino “Nonna Jazz!”

Non sarà mai! Ella resterà sempre giovane per noi che la viviamo attraverso la voce di splendide interpreti come Mussin e le corde da incantatore di serpenti di Ieraci.

Pulse 4et. Giulio Scaramella (piano) Simone Serafini (contrabbasso) Massimo Orselli (percussioni) Luca Colussi (batteria)

Il secondo appuntamento della rassegna è coinciso con la giornata di cordoglio nazionale per la scomparsa di quel sedicente grande statista italiano che cominciò suonando nei piano bar sulle navi da crociera per poi “suonarcele” per il resto della vita con la stessa cricca di “amici di merende” che ne hanno accompagnato le malefatte da sempre.

Un accostamento iperbolico fa venire in mente il dimenticabile film “La leggenda del pianista sull’oceano” del sopravvalutato Giuseppe Tornatore, la cui sceneggiatura è un adattamento di Novecento di Alessandro Baricco ad opera del medesimo autore. A parte la mediocrità di entrambe le opere, nel film si racconta in modo fantasioso una bella storia sugli stereotipi del jazz con una prolissità ed un estetismo talmente eccessivi da farne un’opera paradossalmente unica che va assolutamente vista per capire cosa non è la musica afroamericana.

Il secondo incontro di Biblioteca in Jazz ha presentato un ensemble con una straordinaria sezione ritmica che pulsava, saltava, girava e batteva.

Piacevolissimo il tocco di Scaramella sulla tastiera, davvero scatenato, ma al tempo stesso delicato come il suono di un tuono. Il piano verticale Kawai cx21d, messo a disposizione da Time for Africa, non sarà il migliore strumento della sua categoria, ma è molto scenografico, con la cassa armonica aperta e i martelletti che battono sulle corde come tante testoline rosse e nere, è un incanto seguirli.

Serafini ha sempre buon gusto, stile e raffinatezza nel toccare le corde del suo contrabbasso con il quale non risparmia lirismi e dissonanze che trasformano i ritmi in un dialogo serrato con gli altri strumenti, come per esempio quando pizzica la cordiera sotto il ponticello o quando batte sulla cassa armonica.

Luca Colussi è decisamente uno dei migliori batteristi nel panorama del jazz italiano contemporaneo, dal tocco magico sulle pelli, è votato alle poliritmie e ad i ritmi torridi e africani come alle atmosfere più suadenti e ugualmente sudate dei club e dei locali che tirano avanti fino a tarda ora. Possiede un entusiasmo e una verve trascinanti ed è anche lui, fuori e dentro la batteria di tamburi, un ottimo conversatore e raccontatore di storie esilaranti.

Massimo Orselli è il più giovane del combo, ma dotato di un talento eccezionale. Cresciuto sotto la vigile ala del batterista si è specializzato nelle percussioni caraibiche e nei ritmi afrocubani, e si sente! Sa esprimere un’incontenibile energia e forza vitale. Tanto che, tra il pubblico, Miranda, la piccola e tenera figlia del contrabbassista, balla e lo guarda estasiata, buon sangue non mente.

Quelle dei quattro, a partire da un convincente brano mainstream di George Benson, sono state improvvisazioni tematiche sull’onda del divertimento e della danza della realtà.

Era la data numero zero dal vivo di un gruppo che si sta annusando, suonando quello che più gli piace. Il profumo di certo è già molto buono.

Più contemporaneo, sospeso e “rumoristico” il secondo brano “Lilia” di Milton Nascimento nel quale il piano sembrava riflettere camminando tra pensieri alla rinfusa, tra la felicità e la sera mentre le percussioni splendevano di preziose, complesse combinazioni ritmiche e brillanti battute in levare. A farla da padrone sono stati triangolo, campane, cembalo, maracas in un carnevale di luce e di buonumore.

Per continuare con gli indiavolati ritmi africani, la band ha proposto “Tyrone” del fantastico organista dell’Hammond, Larry Young, oggi purtroppo misconosciuto, ma che attraversò come una meteora il cielo del jazz dal Rhythm Blues, al Soul fino alla Fusion per finire “schiantato” giovanissimo da una banale polmonite.

Di grande effetto anche “Poinciana” di Amad Jhamal ispirata ad una vecchia melodia cubana e resa immortale nel jazz dal pianista di Pittsburgh (Pennsylvania) scomparso da pochi mesi. La ritmica non si smentisce nemmeno per un attimo e meno male che è la prima volta che suonano insieme.

Prima dell’applaudito bis i quattro hanno voluto lanciare la loro sfida al cielo con “Seven steps to Heaven” di Miles Davis a partire da un assolo di Serafini come al solito impeccabile e morbido, seguito dall’accendersi delle altre stelle.

Si vedeva benissimo che si stavano divertendo suonando insieme, un po’ per il repertorio, un po’ per la situazione informale, un po’ perché il paradiso non è così lontano, se solo si ha voglia di mettersi in ascolto.

(Continua)

© Flaviano Bosco – instArt 2023