Si è aperta nella serata di venerdì 17 gennaio la 31esima edizione del Trieste Film Festival. L’edizione dedicata al Cinematic Wellness. Nelle parole dei direttori artistici Fabrizio Grosoli e Nicoletta Romeo la volontà di proporre dei percorsi tradizionali fruibili dagli spettatori, ma anche di cercare, con alcune scelte “coraggiose”, di sorprenderli.
La serata inaugurale è stata l’occasione per attribuire i due premi del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani che ha consegnato il Premio della Critica a Parasite di Bong Joon-ho e il Premio al miglior film italiano a Il traditore di Marco Bellocchio che ha ritirato personalmente la targa.
Si è proseguito con l’anteprima italiana della nuova opera di Terrence Malick A Hidden Life-Una vita nascosta. Il film del notissimo regista americano è stato presentato al Festival di Cannes del 2019 ed uscirà in Italia in aprile.
Racconta la storia vera, ma misconosciuta, del contadino austriaco Franz Jägerstätter che rifiuta di giurare fedeltà a Hitler durante la Seconda Guerra Mondiale e per questo viene condannato a morte e giustiziato nel 1943.
È un film che, stilisticamente, si inserisce con decisione nella produzione del grande autore americano fatto di attimi sospesi, di dettagli insistiti e di quella macchina da presa che cerca di restituirci la meraviglia del mondo e della natura. Riacquista però quella concretezza che era mancata nell’ultimo Song to song. La vita di Franz, di sua moglie Fani e delle loro 3 figlie ci viene raccontata prima con gioia: una giovane coppia in sintonia con il passare delle stagioni, delle fasi agricole e con la vita sociale del villaggio di Radegund. Molto presto però la decisione di Franz di non abbracciare l’ideologia nazista trasformerà in angoscia l’attesa di un possibile arruolamento e farà cadere sulla sua famiglia il giudizio del villaggio, la sua scelta diverrà imperdonabile tradimento della madrepatria.
Mentre si inizia a brindare agli ideali razzisti e nazionalisti del regime tedesco ed insensate paure fanno trionfare i facili egoismi dell’animo umano, Franz non sembra vacillare. E’ la seconda dimensione del film che si apre con la consegna della lettera di arruolamento da parte di un allegro postino in bicicletta e la sorte di Franz ci appare segnata. Nel lento martirio, la figura del contadino austriaco di fatto pare trasfigurare e si volta verso lo spettatore iniziando ad interrogarlo. Percorrendo la sua via Crucis, Franz avrà la possibilità di ritrattare la sua decisione e aver salva la vita almeno in quattro occasioni e ogni volta rifiuterà. Rifiuterà di fronte al comandante nazista, giudice al suo processo, un Ponzio Pilato interpretato da un dolente Bruno Ganz e, rifiuterà di fronte al dolore della moglie accorsa a Berlino poco prima che la sentenza venga eseguita.
Fani affronta a sua volta durante il film la sua personale discesa all’inferno, abbandonata a se stessa dalla “società” che la circonda, si troverà sostenuta solo dalla sorella e, tardivamente, dalla madre di Franz. Eppure è un amore che si trasforma via via in fede che la tiene in piedi e la aiuta ad accettare il destino inevitabile che attende il marito. Fani è di fatto la figura più umana che ci presenta Malick, quella che più si avvicina a chi vuole credere, ma la cui fede non è granitica, il cui amore è solo umano anche se, alla fine, inscalfibile.
A hidden life è un film che ci mostra un profeta mancato, un Cristo senza apostoli. Nei dialoghi fra Franz e l’autorità, condannata tutta senza appello, e rappresentata di volta in volta dal prete del Paese, dal vescovo, dal Sindaco del villaggio e infine dal comandante nazista ciò che gli viene insistentemente chiesto è “ a chi giova questo?”, più volte gli viene ripetuto che nessuno alla fine saprà del suo sacrificio e ci sfiora il sospetto che anche per Malick il paradiso sembri non arrivare oltre le cime delle montagne con cui decide di aprire e chiudere il film. Tuttavia la pellicola parla attraverso l’Esempio e ricerca platealmente l’identificazione del pubblico, attraverso l’uso della soggettiva, almeno in due passaggi: veniamo picchiati in carcere con Franz per aver donato il nostro pranzo e affrontiamo la terrificante immagine di quella ghigliottina che ci attende oltre ad una tenda nera sul finale del film.
Potremmo essere noi quegli apostoli chiamati a rispondere alla domanda essenziale e quanto mai attuale “conoscendo il giusto, riusciremmo a perseguirlo a qualcunque costo”? Una domanda che rimane senza risposta. Resta la speranza, venata di amarezza, nella rappresentazione del cordolio di contadini immobili in mezzo alle spighe mentre le campane di Radegund suonano a lutto per la morte di Franz. Ma è nella morte che si diviene esempio. Solo nella morte, forse, la speranza di potersi ritrovare in un luogo migliore in mezzo alla natura.
Katia Bonaventrura © instArt