Il Jazz and Wine of Peace di Cormons, come gran parte dei festival, presenta accanto a grandi nomi, o presunti tali, curiosità o artisti emergenti che attirano un pubblico curioso ed in cerca di novità. A questa categoria appartiene Amirtha Kidambi, classe 1985, statunitense ma di evidenti origine indiane, autrice di diverse collaborazioni che spaziano dal jazz all’avanguardia, l’ultima delle quali Zenith/Nadir, fresca di uscita, in collaborazione con il bassista Luke Stewart, unisce improvvisazione, jazz ed elettronica, che poi sono le coordinate della sua esperienza artistica. Nella cornice di Villa Attems di Lucinico, nel tardo pomeriggio di giovedì 20 ottobre, la Kidambi si è presentata in quartetto con gli Elder Ones, progetto che ha fruttato due album. In realtà sul palco non ci sono gli “antenati” originali, ma un gruppo che comprende Alfredo Colon (sax), Lester St.Louis (contrabbasso) e Jason Nazary (batteria). Non sappiamo se tale formazione soppianti definitivamente la precedente, ma è comunque valida ed affiatata. Ci saremmo aspettati dal set una maggior componente etnica, quella del primo disco in particolare (Holy Science del 2016), ma il gruppo ha virato verso una più marcata impronta jazz. La vocalist, che si è destreggiata anche alle tastiere, ha caratterizzato l’esibizione con vocalizzi, in parte indiani, ma di impronta prevalentemente avant-jazz, mentre il gruppo ha accompagnato il tutto degnamente. Quest’ultimo è parso meno orientato a soluzioni d’avanguardia ma ad un jazz progressivo, dinamico e compatto, che durante il suo fluire acquisiva elementi elettronici, rock ed avant. La batteria di Nazary è il fulcro del sound della band, i suoi cambi di ritmo, ben bilanciati dal double bass di St.Louis, hanno preso colore e forma grazie al sax di Colon, che ha bilanciato momenti melodici ed assalti free con vera maestria. La Kidambi, ha intonato canti, fonemi e suoni di indubbia suggestione, ma non ha certo palesato la personalità di una Berberian o l’impeto primitivo di una Galas. Per questo motivo la fascinazione iniziale ha lasciato spazio ad una calo di tensione ed attenzione nell’ascolto. Questo non ha inficiato la figura della band-leader, che si è destreggiata all’harmonium con competenza ed ha occhieggiato alla wave anni settanta con certi svolazzi di synth. La cantante, inoltre, tra un brano e l’altro ha fatto considerazioni sulla situazione sociale e politica attuale, con conseguenti dediche a minoranze ed oppressi ne mondo. Di tale consciousness ha infatti vibrato tutta l’ora di concerto in quel di Lucinico, visto che ogni tanto durante la performance la cantante si è lanciata in una battagliera spoken poetry. Più Gil Scott Heron che Sheila Chandra insomma. In definitiva un buon concerto, non eccezionale, ma che ha dimostrato i margini di miglioramento di questo quartetto, che direi più portato per una musica meno colta o d’avanguardia. Il tempo non manca e la stoffa c’è.
Daniele Paolitti – instArt 2022 ©