Nel fondamentale “Paradiso Paradisi” gli studiosi Pierre-Antoine Bernheim e Guy Stravridès (Einaudi, 1994) ricostruiscono la storia delle molteplici forme dell’idea di paradiso nelle diverse religioni e filosofie. L’aldilà è sempre stato una proiezione dei nostri desideri più intimi, la perfetta città nel cielo, il giardino delle delizie, l’isola dei beati, il luogo della contemplazione assoluta o l’entropia del nulla siderale.
Il concerto di Metamorfosi nella piazza d’armi del castello di San Giusto, di cui abbiamo scritto nella prima parte di questa recensione si era chiuso proprio con la beatitudine della luce di “colui che tutto move” in una piuttosto riuscita moderna interpretazione in musica della terza cantica della Divina Commedia. Il rock progressivo italiano ha osato molto e, in qualche caso come in questo, è riuscito a celebrare la grande tradizione culturale del nostro paese e la sua poesia.
Un altro testo molto interessante, facilmente reperibile on line è “Tra quattro paradisi. Esperienze, ideologie e riti relativi tra Oriente e Occidente” a cura di Antonio Fabris (Ed. Ca’Foscari, 2013). Si raccolgono in esso studi d’antropologia comparata relativi agli usi funebri e varie leggende annesse dall’Asia, al Vicino Oriente, fino al cuore dell’Europa. Si scoprono così, tra l’altro, alcune bizzarre intersezioni tra credenze e fiabe che ricordano imprevedibili contatti tra realtà tanto diverse e apparentemente distanti:
“Solo le fiabe e le leggende mantengono ormai ancora viva, a Oriente e Occidente, una tradizione antica. Yen Shen, con i suoi minuscoli piedini, è arrivata dalla Cina meridionale calzando prima dei sandali e poi, cambiando nome in Cenerentola, delle scarpette di vaio che, nella traduzione di Charles Perrault per assonanza della lingua francese, sono diventate di vetro. La Befana, e poi Babbo Natale, portano i loro doni scendendo dal camino, seguendo così ancora una volta la via del fumo che collega il focolare familiare al foro posto al centro della yurta con il cielo, il vero axis mundi per le popolazioni nomadi. Biancaneve invece assaggia una mela rossa e si addormenta di un sonno che è simile alla morte, così come rossa è la mela che nel folklore turco- anatolico il terribile angelo ‘Izrā’il consegna ai bambini e che ha il significato sia di morte apparente che di amore.”
La mela rossa, insieme a tanti dolci, fa parte dei regali che San Nicolò porta ai bambini buoni.
Cosa c’entri tutto questo divagante almanaccare con una semplice recensione di una serata di concerti a Trieste lo scopriremo tra poco, ancora un po’ di pazienza.
Nella città dell’alabarda i quattro paradisi di cui parlavamo esistono davvero che ci si creda o no. Basta fare una rapida visita alla zona dei cimiteri, nella quale divisi geometricamente da alti muri convivono da molti anni luoghi di sepoltura di diverse confessioni come raramente si vede nel nostro paese. Al grande cimitero cattolico di Sant’Anna dove riposano nei loro paradisi Umberto Saba, Scipio Slataper, Italo Svevo, Strehler e perfino la mistica dell’ateismo Margherita Hack, corrisponde quello israelitico con la sua atmosfera incredibile e antica così come il cimitero greco ortodosso, quello anglicano, evangelico e ancora militare.
Più nascosto ma di identico fascino il cimitero turco ottomano con la sua moschea. Accanto al cancello un Mirabolano (Prunus Cerasifera), albero selvatico originario del Caucaso e dell’Asia occidentale, simbolo arcaico di purezza, fecondità e immortalità, accoglie i visitatori in estate con i suoi piccoli frutti gialli dolci e aspri allo stesso tempo, come la vita.
Sulla piccola fontana esterna per le abluzioni di rito troviamo inciso nel marmo: “Per capirsi non bisogna parlare la stessa lingua ma bisogna condividere gli stessi sentimenti”. La frase è del grande poeta e mistico persiano Hz: Mevlana, da noi conosciuto anche come Gialal al-Din Rumi (1207-1273). Abbiamo trovato così la chiave per tutti i nostri paradisi che, per quanto diversi, esprimono il desiderio di pace, di armonia e di fratellanza delle genti di tutto il mondo.
Un altro luogo magico e simbolico di Trieste è il castello di San Giusto costruito sul castelliere dell’età del bronzo da cui ha avuto origine tutta la città. Come dicevamo, da qualche anno questo suggestivo maniero ospita il Trieste Summer Rock Festival che presenta soprattutto gli araldi del rock progressivo, storico e attuale, che con miti, fiabe e leggende hanno costruito la loro fama.
Ad aprire l’ultima serata del festival dopo i concerti di Metamorfosi, Le Orme e Osanna, un gruppo che con leggende, fiabe e castelli c’entra parecchio, i Quanah Parker che prendono il loro nome da uno dei grandi capi della nazione indiana dei Comanche (1845-1911) che favorì l’integrazione dei nativi dopo la definitiva sconfitta della tribù nella Guerra delle grandi pianure. Fu il fondatore anche della Chiesa del peyote basata su una religione sincretica che unisce cristianesimo e antichi riti sciamanici, attualmente la più diffusa tra i nativi americani. I loro paradisi li ottengono grazie ai riti relativi all’ingestione del cactus psichedelico associato al corpo di Cristo, in una parodia psicotropa dell’Eucaristia, così come nelle strampalate, divertenti supposizioni di John M. Allegro che in “Il fungo sacro e la croce” assimila la figura di Gesù a quella del fungo tossico e allucinogeno Amanita Muscaria.
Niente di tutto questo purtroppo traspare dall’esibizione dei Trieste. Riccardo Scivales (Tastiere) Meghi Moschino (Voce), Alessandro Simeoni (Basso) Paolo Ongaro (Batteria) Giovanni Pirrotta (Chitarra), che sono l’attuale formazione della band, propongono un prog tradizionale di marcata ispirazione Yes, Jethro Tull, E.L&P, tecnicamente perfetto ma accademico, nostalgico e ormai quasi privo di idee. Dispiace per Riccardo Scivales, fondatore della band, ottimo pianista e didatta, pioniere del Neo-Prog nei primi anni ottanta, dalla luminosa carriera, ma con i suoi pur ottimi musicisti non convince in una riproposizione di stilemi che a volte appaiono freddi e ripetitivi. Anche la cantante dall’ottima presenza scenica e dalla bella voce di soprano assomiglia ad una Cristina D’Avena con qualche centimetro in più e null’altro ed è un gran complimento. Dal Neo al Vetero prog la parabola è completa.
Anche i temi sono quelli tradizionali del prog più fanciullesco: fate, castelli, animali fantastici, maghe, pozioni stregate, danze esoteriche sotto la luna a piedi nudi ecc. che ormai appaiono leziose riproposizioni di un immaginario che, in alcuni casi, mostrava segni di stanchezza già cinquant’anni fa. Sulla preparazione tecnica dei Quanah Parker non è possibile eccepire alcunchè, per quanto riguarda il resto, e sia detto con tutto il rispetto possibile per quelli che sono seri professionisti della musica, ci troviamo in zona cover band.
Seguono gli Area Open Project. Non appena Patrizio Fariselli tocca i tasti del suo strumento, tutti capiscono che l’atmosfera è decisamente cambiata. Niente più nostalgia, archiviate le mossettine e le onomatopee da lallazione, la-la-la. Il brano “Cometa Rossa” esplode in tutta la sua forza nelle corde vocali di Claudia Tellini che ha una forza interpretativa che, con buona pace dei passatisti, non fa rimpiangere l’assenza di Demetrio Stratos. Certo le meraviglie che la formazione originale degli Area ha tessuto tra il 1972 e il 1978 rimangono indiscutibili ma c’è molto altro. Sarebbe ora di considerare “storicamente” certe esperienze senza la continua sterile idolatria che ci impedisce di gustare nel modo più piacevole e fecondo la lunga strada che è stata percorsa negli ultimi quarant’anni. Fariselli che porta con se la memoria storica di quella fantastica avventura non ha mai voluto ossificarla o musealizzarla ma onorarla continuando ad evolvere quelle prospettive senza mai rischiare di far diventare l’ensemble la cover band di se stesso come purtroppo è accaduto per molti gloriosi gruppi di quell’epoca.
La maiuscola performance al Trieste Summer Rock Festival che ricalca quella immortalata nel recente Live in Japan (2020) dimostra senza ombra di dubbio che lo spirito iniziale della band non si è mai inabissato nelle voragini del tempo ma è rimasto vivo e vitale, evolvendosi in questa ultima incarnazione piena di futuro.
“Apri le mie labbra, aprile. Dolcemente, aiuta il mio cuore. Cometa cuci le labbra ai profeti. Cometa chiudi la bocca e vattene via. Lascia che sia io a trovare la Libertà” è un canto antico, siderale che ti porta via nei suoi spazi e ti trasporta nei suoi cieli lividi; Tellini fa vibrare i cuori con la sua voce che ti scuote e ti lascia sbalordito.
I brani in scaletta riguardano il repertorio storico (L’elefante bianco, Gerontocrazia, il bandito del deserto, Giro, giro tondo) ma molti sono anche tratti dagli album solisti di Fariselli, 100 ghosts e Lupi sintetici e strumenti a gas (Danza del labirinto, Signora dei viaggi). Certo a farla da padrone è la tastiera del leader ma il contributo dell’ottima sezione ritmica è fondamentale per l’effetto generale. Walter Paoli alla batteria sa bene nei suoi assoli che a volte i ritmi migliori sono quelli “a togliere” nei quali la battuta viene suggerita e l’enfasi ritmica contenuta e quasi rarefatta; esitare, trattenere al momento giusto e poi concedere e colpire inaspettatamente è una dote rara, propria dei grandi percussionisti. Mauro Micheli al basso guarda da lontano e traguarda le sue prospettive da autentico agrimensore del ritmo, elegantissimi e ricercati i suoi arpeggi e il suo disincantato walking bass.
Intanto Tellini canta e interpreta con le proprie mosse feline da “gatta sul tetto che scotta”: “Ci sono cose che dico per fare bella figura con gli altri. Ci sono cose che penso per fare bella figura con me stessa”. La nostra ipocrisia potremmo venderla a peso se solo qualcuno ce la comprasse, ma è una merce sempre disponibile che ognuno possiede in abbondanza quindi non vale davvero niente.
La sostanza del suono è un jazz rock molto seventies, trascinante ed intriso di sonorità mediorientali in un connubio tra Oriente e Occidente che è il marchio di fabbrica della creatività di Fariselli, da sempre impegnato in tutte queste contaminazioni musicali sulla via della seta.
Il brano in cui si esalta la ricerca decennale dell’artista è “Aria” basato su un antico motivo del folklore della Tracia ascoltato su un disco della collana francese Arion con Stratos nei primi anni settanta. È un brano per Gaida, una cornamusa primordiale tipica dei Balcani, la tastiera di Fariselli riproduce il vibrato arcaico e ancestrale dello strumento.
È un suono d’altopiano con lo sguardo lontano verso l’orizzonte degli eventi; laggiù dove sembra succedano le cose, da dove arrivano le storie che hanno viaggiato per millenni, di città murate e di donne velate, meravigliose e irraggiungibili che sussurrano di antiche seduzioni. È come un canto di sconfinate distanze, di carovane, di polvere, di sudore di animali e di cammini desolati, luoghi dove è facile dimenticare persino il proprio nome e la lingua che si parla. Il brano è stato anche al centro di una piccola polemica da giornalacci scandalistici perché la medesima fonte ha ispirato anche Mauro Pagani in una composizione per Creuza de Mä. Non serve commentare, basta abbandonarsi all’ascolto di entrambi e mettersi il cuore in pace, a vincere in queste dispute da lavandaie è sempre la musica.
Efstratios è una struggente composizione che Fariselli dedicò all’amico Demetrio Stratos in un suo splendido album del 2005 “Area – Variazioni per pianoforte” che ora viene riproposto per tastiera e basso elettrico. Dolce ed evocativo, senza alcun rimpianto o malinconia, disegna il ricordo di un amico senza mai diventare zuccheroso, camminando su suoni di vetro come di Glasspiel (Armonica a bicchieri). È una lontana memoria che diventa suoni flautati d’oriente e riproduce sempre con l’elettronica il suono degli oscillatori del Theremin.
Ma la forza di Stratos esplode ancora attraverso le corde vocali della Tellini che intona L’elefante Bianco, brano iconico e tutt’altro che anacronistico: “Corri forte, ragazzo corri, la gente dice sei stato tu, prendi tutto non ti fermare, il fuoco brucia la tua virtù, Alza il pugno senza tremare, guarda in viso la tua realtà, guarda avanti non ci pensare, la storia viaggia insieme a te”.
Avviandosi verso la conclusione del concerto non poteva mancare “Luglio, agosto, settembre nero” che oggi sembra sempre più drammatica e attuale se è possibile. È ancora un grido fortissimo e straziante che si leva per i nostri fratelli in Palestina che continuano a soffrire nei loro inferni. Dal pubblico più d’uno grida giustamente: “Palestina Libera!”.
La Terra promessa non è solo un luogo fisico, ma è soprattutto nei nostri cuori, significa pace e fratellanza universale, sarà di tutti o nessuno la potrà mai abitare. Fino a che non troveremo le chiavi della pace con i nostri fratelli, i cancelli di quel paradiso rimarranno per sempre chiusi.
Il bis chiesto a gran voce è una meravigliosa versione di The Wind Cries Mary di Jimi Hendrix che sfocia nel brano che da sempre chiude i concerti del gruppo, ed è ancora Gioia e Rivoluzione!
Flaviano Bosco © instArt