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Gli intrecci vocali di Halstead – Goswell funzionano alla perfezione e non sono “disturbate” dalle chitarre sature. Per chi scrive è il miglior disco del gruppo. Gli Slowdive cercano di non cullarsi nel passato, senza grossi scossoni, ma evidenziando in maniera più netta certe influenze, Cocteau Twins in primis. Le avvisaglie di tutto questo si erano già manifestate nel disco omonimo della reunion, nel 2017, senza ottenere i risultati di
everything is alive, ma con qualche eccellente brano, Star Roving e Falling Ashes su tutti. Non possiamo comunque tralasciare il primo periodo degli Slowdive (1989 – 1995), quello del trittico su Creation Records ( Just for a day, Souvlaki e Pygmalion), permeato di suoni abbacinanti che fondevano la morente new wave di fine ottanta con le istanze rumorose di Jesus and Mary Chain e con le letali carezze dei Velvet Underground. Melodia e rumore che Goswell & co. hanno padroneggiato inizialmente con destrezza, ma che alla fine rischiava di trasformarsi in vuota maniera. Rispetto al plotone (non tanto numeroso, va detto) del shoegaze dei primi novanta, gli Slowdive si sono sempre distinti per una capacità di scrittura non indifferente: brani come Alison o Catch the Breeze meritano un posto di rilievo nel pantheon della pop song e, a quanto pare, l’ultima prova dimostra che la via non è stata smarrita. Strano è comunque che venga dimenticata dai più la parentesi tra i due periodi del gruppo, quella a cavallo del millennio che ha dato vita ai Mojave 3 di Goswell ed Halstead, autori di una manciata di dischi eccellenti, introspettivi ( si disse all’epoca narcolettici), desertici (Kisses on a Desert Sun appunto), talvolta superiori a certe prove del gruppo madre. L’importante è comunque che possiamo goderci il live degli Slowdive il 7 luglio,sul palco di Sexto’Nplugged, festival sempre attento a catturare gli artisti (Indie ? Alternative ? Rock ? Fate voi …) in tour durante l’estate. Avremo l’occasione di vedere un gruppo che non si guarda più le scarpe, ma alza lo sguardo verso le nuvole.
everything is alive, ma con qualche eccellente brano, Star Roving e Falling Ashes su tutti. Non possiamo comunque tralasciare il primo periodo degli Slowdive (1989 – 1995), quello del trittico su Creation Records ( Just for a day, Souvlaki e Pygmalion), permeato di suoni abbacinanti che fondevano la morente new wave di fine ottanta con le istanze rumorose di Jesus and Mary Chain e con le letali carezze dei Velvet Underground. Melodia e rumore che Goswell & co. hanno padroneggiato inizialmente con destrezza, ma che alla fine rischiava di trasformarsi in vuota maniera. Rispetto al plotone (non tanto numeroso, va detto) del shoegaze dei primi novanta, gli Slowdive si sono sempre distinti per una capacità di scrittura non indifferente: brani come Alison o Catch the Breeze meritano un posto di rilievo nel pantheon della pop song e, a quanto pare, l’ultima prova dimostra che la via non è stata smarrita. Strano è comunque che venga dimenticata dai più la parentesi tra i due periodi del gruppo, quella a cavallo del millennio che ha dato vita ai Mojave 3 di Goswell ed Halstead, autori di una manciata di dischi eccellenti, introspettivi ( si disse all’epoca narcolettici), desertici (Kisses on a Desert Sun appunto), talvolta superiori a certe prove del gruppo madre. L’importante è comunque che possiamo goderci il live degli Slowdive il 7 luglio,sul palco di Sexto’Nplugged, festival sempre attento a catturare gli artisti (Indie ? Alternative ? Rock ? Fate voi …) in tour durante l’estate. Avremo l’occasione di vedere un gruppo che non si guarda più le scarpe, ma alza lo sguardo verso le nuvole.
Postfazione (per chi non ha capito l’ultima frase)
Shoegaze o shoegazing è traducibile con fissare lo sguardo sulle scarpe, atteggiamento che avevano le band on stage, dovuto sia all’esigenza di controllare gli effetti a pedale di chitarra e basso, sia ad un atteggiamento introspettivo. Lo shoegaze si è sviluppato a fine ottanta e consiste nel connubio tra un muro sonoro chitarristico (fatto di distorsioni e riverberi) e voci eteree e sognanti (spesso femminili). Tale scena musicale fu abbastanza secondaria in quel periodo, stretta tra le chitarre ruvide ( e passatiste) del grunge ed i ritmi del trip hop e della scena house – techno. Il culto di queste sonorità ha fatto comunque proseliti nel tempo producendo band in qualche caso molto interessanti, come i veronesi You, Nothing. Bravissimi. Ragazzi, se ci siete battete un colpo.
Daniele Paolitti – Instart 2024 ©