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Nella musica, come nella vita, accadono ogni tanto eventi curiosi e vedere sul palco dell’Ariston di San Remo
Tom Morello suonare con i
Maneskin è certamente uno di questi. Non crediamo che i fans dei
Rage Against The Machine avrebbero mai pensato potesse accadere una cosa del genere (controllare i commenti su web
please), visto l’approccio “ortodosso” evidenziato in vita del gruppo statunitense nei confronti della musica e non solo. Appare quindi ancor più rilevante, per quanto breve, il cameo di
Zach de la Rocha, vocalist dei
RATM, in
Shook, ultimo disco degli
Algiers: una dichiarazione di integrità, se non un ideale passaggio di testimone tra i due gruppi. Oltre all’enorme iato artistico tra i capitolini e la band di Atlanta, Georgia, c’è da dire che quando i primi affrontano pubblicamente i gravi problemi dell’attualità (guerre, discriminazioni, etc.) hanno la stessa credibilità del PD che parla delle periferie, mentre i secondi sembrano viverle sulla propria pelle. In sintesi è la differenza tra vera arte e spazzatura. Tra vero e posticcio. Abbiamo potuto testare la cosa sul palco di un (ex) cinema più interessante di quello sanremese, il Capitol di Pordenone, che, in sinergia con l’ Associazione Culturale Sexto – Sexto ‘Nplugged, ha ospitato una delle due date italiane degli
Algiers nel tour di
Shook. È proprio
Irreversible Damage, il brano in cui è presente
de la Rocha, ad aprire il set: suoni cupi,
samples ed elettronica, ritmi ossessivi (due le batterie), una chitarra che si fa via via spazio per poi esplodere, mentre il flow del magnetico cantante
Franklin James Fisher sfocia in un gospel apocalittico. Un mix di elettronica,
industrial e musica nera. Qualcuno dice post punk ? Sì, ma quello immerso nella
zeitgeist attuale, che non propone aridamente gli stilemi di quattro decadi fa, ma ne incarna lo spirito di ricerca e di rottura. Sullo sfondo un video diffonde immagini di paesaggi notturni, desolati, quasi surreali, a cui si alternano scene di vita e violenza urbana.
On stage i georgiani hanno un impatto forte: ritmica compatta ed ossessiva, bilanciamento perfetto tra la componente melodica del gospel/soul e quella spigolosa dell’elettronica e dei
samples. La figura di
Fisher è carismatica, ma, contrariamente a quanto pensano molti, ha lo stesso peso degli altri componenti della band:
Lee Tesche tesse alla chitarra trame ora melodiche ora dissonanti;
Ryan Mahan si divide tra basso ed
electronics e ruba ogni tanto la scena al vocalist inscenando coreografie; i due batteristi (uno è
Matt Tong ex
Bloc Party) sono il fondamentale scheletro della performance. La scaletta della serata di sabato 18 febbraio era ovviamente incentrata sulle canzoni dell’ultimo lavoro: da manuale, il
noise di 73% che ha riportato i suoni su coordinate
industrial (qualcuno ha detto
Mark Stewart?), mentre su in
I can’t stand it le voci campionate di
Samuel T. Herring & Jae Matthews hanno accompagnato le declinazioni
soul di
Fisher, impegnato a destreggiarsi anche su chitarra e tastiere. La band attualizza la musica nera, inserendovi componenti ad essa apparentemente aliene, sulla strada tracciata anni fa da gente come
Sly Stone,
George Clinton, i
Public Enemy, Massive Attack (per citarne solo alcuni), omaggiando, caso raro, anche il Belpaese sia nella ragione sociale (
La Battaglia di Algeri di
Pontecorvo) che nei suoni (
Morricone). Ad evocare il passato della band una fiammeggiante
the underside of power, un
northern soul del ventunesimo secolo con
Fisher a contorcersi ed il gruppo a suonare come fosse l’ultimo concerto della loro vita.
Blood, dal disco d’esordio, non poteva essere conclusione più degna del set: un gospel futurista denso di pathos, intenso e significativo come la
Biko di
Peter Gabriel. Sullo sfondo immagini di cariche della polizia, di manifestazioni, di protagonisti della storia della musica e della cultura (c’è anche Pasolini). Insomma, la storia.