La splendida rassegna Vocalia, nel corso degli anni, ha abituato il proprio fedele e competente pubblico a concerti di grande raffinatezza proponendo nomi di altissimo prestigio e di grande respiro internazionale.
Il cartellone di questa edizione non fa certo eccezione e nel teatro bomboniera intitolato a Giuseppe Verdi un nome di assoluto rilievo è stato quello di Mauro Pagani che, con il proprio Bouzouchi, accompagnato da Eros Cristiani alle tastiere e Joe Damiani alle pecussioni, ha fatto ancora una volta brillare le stelle che guidano il viaggio della rilettura del capolavoro che scrisse tanti anni fa insieme a Fabrizio De Andrè: Crêuza de mä (1984). L’album in tutti questi anni non ha perso per niente il proprio smalto, anzi il tempo ne ha accresciuto il fascino e ne ha resi espliciti gli intenti e l’ispirazione.
Pagani polistrumentista, compositore e produttore discografico, si sa, è da almeno quattro decenni o forse più il vero demiurgo della musica italiana, i suoi arrangiamenti e la sua creatività hanno reso immortali le composizioni di decine di artisti: dai cavalieri del Prog-rock (PFM, Area Claudio Rocchi, ecc.) ai cantautori (De Andrè, De Gregori, Guccini ecc.) fino alle collaborazioni apparentemente più improbabili come quella con i Figli di Bubba, Massimo Ranieri, oppure Caparezza e alle tante colonne sonore per il teatro e per il cinema.
Per di più, in tutti questi anni, ha prodotto lavori solisti che sono autentiche perle musicali rare e preziose; si ricordino almeno Rock’n’Roll Exhibition (1979) e Passa la bellezza (1991). È stato più volte presidente della giuria del festival di San Remo fino all’ultima edizione con le velenose e xenofobe accuse che lo hanno investito dopo la vittoria di Mahmood.
Il suo è uno stile inconfondibile e la sua ricerca musicale ininterrotta, tanto che il suono del suo Bouzouki (strumento a corda di origine greca) che risultava un tempo così bizzarro ed esotico sembra ormai far parte o quasi della tradizione popolare italiana: certi accordi armonici sono stati ormai metabolizzati dalla nostra sensibilità e ci appartengono a tal punto che pochi saprebbero ricondurli all’originaria creatività di Pagani. Un’elegante signora in platea si domandava: Ma che strumento è quello? Mentre l’azzimato marito le rispondeva: È una specie di mandolino solo più lungo.
È questo il vero genio, quello che sa farsi forza tellurica ed irradiare tutto ciò con cui viene in contatto. Pagani è così, non è certo un artista da folle oceaniche, non sarà conosciuto al grande pubblico, ma è un grandissimo musicista, senza di lui la musica italiana contemporanea non sarebbe la stessa.
Lo dimostra, se ce ne fosse ancora bisogno, questo concerto e il lavoro che promuove a distanza di trentacinque anni. Pagani ritorna ancora una volta (si era visto al Teatro Garzoni di Tricesimo nel 2004 presentare la sua prima riscrittura di Crêuza de mä) sul capolavoro scritto assieme a De Andrè. Lo fa sia per celebrarlo come merita, sia per continuare a riappropriarsi di ciò che è suo, anche se il solo dirlo sembra paradossale.
Certo De Andrè aveva un indiscutibile talento di poeta e chansonnier ma aveva i suoi limiti come musicista, per questo, intelligentemente, almeno ad un certo punto della sua carriera, si affidò ad arrangiatori di altissimo livello, tra questi anche la PFM che proprio quest’anno sta mietendo trionfi nei teatri d’Italia riproponendo i brani di una famosa tourné con Faber.
Gli splendidi suoni etnici di Crêuza de mä vengono tutti dalla creatività e dalle meravigliose dita di Pagani. La rielaborazione che ha fatto di quei brani mette ancora più in evidenza la trama preziosa di quelle melodie che arrangiate nuovamente per trio acustico, si rivelano come un vero e proprio miracolo di equilibrio e di misura.
La musica depurata, snellita, rinvigorita, rivela la sua forza e la sua freschezza ancora intatte, anzi, se è possibile, ancora più vive e affascinanti. Il concerto pensato e interpretato dal Maestro come una sorta di lezione sulla storia della musica faceva anche capire agli spettatori deliziati quali suggestioni e quante contaminazioni ci fossero (e continuano ad esserci) nei suoi lavori e in quelli di De Andrè: le cantate dei trovatori medievali, la lirica araba antica, i suoni del Mediterraneo, il sole del Magreb e la spezia caraibica e poi ancora la dolcezza dei dialetti e del gergo dei porti. Un grande melange delle più diverse forme dell’arte musicale tenuto insieme dalla genialità di un artista in stato di grazia, la cui voce arrochita dal tempo, dai tanti sigari toscani, dai toni ispirati e confidenziali, ha reso l’esperienza d’ascolto intima e raccolta.
Alle prime note pizzicate sul Bouzouki un’impressione lieve si è subito insinuata nel pubblico e come una nostalgia si è impadronita del loro cuore così come succedeva con quell’amore di terra lontana o amour de loin, cantato dagli antichi trovatori francesi. Pagani, infatti, sostiene con una punta di ironia, che solo così il viaggio dentro Crêuza de mä può cominciare da lontano, lontano cioè dall’ultima traccia del disco, la struggente D’ä mae Riva che racconta di un marinaio che ancora una volta ha dovuto prendere il largo lasciando sul volto della donna della sua vita un sorriso amaro mentre guarda quel mare un po’ più largo del dolore.
Senza quasi respiro si passa A Dummenega con la sfilata festiva delle prostitute süssa belin che con il loro dondolare di cosce e di tette suscitano lo scandalo tra gli stessi borghesi benpensanti che di nascosto le bramano e le sfruttano. La fisarmonica di Cristiani e le magnifiche percussioni di Damiani contribuiscono a ricreare l’atmosfera strapaesana e quasi grottesca della situazione che il testo evoca.
Si scivola allora negli scongiuri contro la sorte avversa di A Cimma dall’album Le nuvole, nella quale nel nome di Maria tutti i diavoli da questa pignatta andate via con la voce di Pagani ad aggiungere pathos all’antica magia apotropaica dei versi.
Quando si passa a Ottocento sempre dallo stesso lavoro del 1990, Pagani prega il pubblico di avere pazienza e un po’ d’immaginazione perché il nuovo arrangiamento per tre elementi non può certo rivaleggiare con quello originale inciso da un orchestra di circa 70 musicisti com’è quello del disco. Al contrario, invece, quelli che il musicista e i suoi sodali hanno suggerito sono Stati di perfetta immaginazione compreso il divertente Jodel finale di prammatica nel brano.
Pagani ha sempre avuto un’autentica fascinazione per la musica antica e medievale, lo dimostra una sua pregevole incisione con l’ensemble Alia Musica delle Cantigas de santa Maria di Alfonso X di Castiglia, canti sacri che del XIII sec. che accompagnavano i pellegrini cristiani verso Santiago di Compostela.
Come ha raccontato il musicista, accanto a questi, approssimativamente, in quel secolo nascevano una miriade di componimenti profani in lode dell’amicizia e dell’amore dei sensi. Proprio uno di questi aveva musicato ai tempi di Crêuza de mä, ma il brano aveva finito per non essere incluso nell’album ma in una colonna sonora per Gabriele Salvatores con grande disappunto di Faber. Quantas Sabedes, in antica lingua galiziana, racconta di quanto sia dolce l’amore e di quanto bello sia stare a guardare le onde del mare e Pagani con il suo canto e la sua musica lo ha fatto intendere in modo chiaro e distinto.
Continuando il suo divertito dialogo con il pubblico il Maestro ha poi ricordato che quando era ragazzo, una sessantina d’anni fa, nella sua terra natale nei pressi di Brescia, tra granturco e fossi, tutti parlavano un dialetto italianizzato che il suo maestro elementare definiva, con un certo disprezzo italiacano. Volendo scrivere una canzone sulle persone cui ha voluto bene e che ha perso ha utilizzato proprio quell’idioma. Tra le sue note al violino e alla chitarra sono fioccate così le invernali, intime emozioni di La neve di Natale.
E’ stata poi la volta di Domani la canzone dedicata dal musicista al terribile terremoto d’Abruzzo di esattamente dieci anni fa. In quell’occasione per solidarietà riuscì ad unire cinquantasei artisti tra i migliori della musica italiana. Quel brano vendette cinquecentoventimila copie regalando un deciso contributo alla ricostruzione che però tarda ancora a compiersi.
Di seguito hanno srotolato le loro luccicanti mercanzie sonore, Mègu Megùn, Â pittima, Sinàn Capudàn Pascià con i loro profumi di spezie e il loro afrore di bagàsce.
Tra i momenti più intensi e indubbiamente più interessanti di tutta l’esibizione la canzone Sidùn durante la quale è emersa, ancora una volta, in tutta la sua urgente necessità, la forza urticante e dolorosa della poesia di Faber in grado di colpire la nostra indifferenza come uno schiaffo e uno sputo, gettandoci in faccia la nostra pusillanimità rispetto ai drammi del mondo.
La canzone Sidùn racconta di un padre palestinese che nella Sidone distrutta dagli israeliani nella crudele, assurda guerra civile che insanguinò il Libano, tiene tra le braccia il cadavere del proprio bambino e piange. Sono versi dolorosi e strazianti grondanti sangue di carne macellata di agnelli sacrificati.
In un’intervista a Mixer all’uscita del disco De Andrè dichiarò: Mi sono immaginato Sidone dopo l’attacco subito dalle truppe del generale Sharon del 1982, come un uomo arabo di mezz’età, sporco disperato, sicuramente povero, che tiene in braccio il proprio figlio macinato dai cingoli di un carro armato. Un grumo di sangue, orecchie e denti di latte, ancora poco prima labbra grasse al sole, tumore dolce e benigno di sua madre, forse sua unica e insostenibile ricchezza.
Trentacinque anni dopo il grido di Faber si leva ancora alto, le cose non sono per niente cambiate, la Siria annega in un oceano di sangue e proprio in questi giorni molti genitori palestinesi piangono i loro figli con un ferro in gola, perché il diavolo è in cielo e si è fatto un nido.
Lo ha urlato a squarciagola anche Pagani affermando che, anche se l’Europa è in pace da settant’anni, in realtà, è circondata da guerre. Noi non ne abbiamo perché campiamo su quelle degli altri. Ogni giorno muoiono migliaia di bambini a causa delle armi che noi vendiamo con l’alibi di esportare un modello politico democratico che nemmeno noi siamo in grado di far funzionare. Sidùn è una città simbolo distrutta più volte dai conflitti e ricostruita sempre e ancora, dovremmo imparare a costruire senza per forza prima distruggere.
Proprio per questo ci meritiamo un giorno più bello di questo, ed è proprio nella necessaria illusione che domani sarà migliore che il flauto traverso del musicista ha soffiato via la tristezza in Ossi di Luna, un coinvolgente brano pieno di speranza e di prospettive.
Dopo tanto retrocedere e vagabondare si è tornati di nuovo all’inizio dice Pagani che finalmente intona le prime note della tanto invocata Crêuza de mä e un emozione che non bastano le parole a descrivere ha investito tutto il pubblico come una calda brezza d’estate che viene dal mare.
Dopo tante parole si conclude con un brano strumentale: Europa Minor, tratta dal primo splendido album solista di Pagani del 1979 e tutti capiscono al volo il significato più autentico del termine Rock Progressivo e cosa indica.
C’è ancora tempo per due ultimi bis chiamati a gran voce dal pubblico plaudente ed entusiasta e allora l’anima mia, anima di pianura si declina nello stupore di Davvero, Davvero e si inebria respirando la nebbia nel primo sole del mattino di Impressioni di settembre.
Mauro Pagani e i suoi musicisti si congedano:Grazie e buonanotte e soprattutto buona fortuna che ne abbiamo davvero, davvero bisogno.
© Flaviano Bosco per instArt