Ne Il segreto del bosco vecchio, Dino Buzzati scrive: “Il greve silenzio della vecchia casa, carico di enigmatiche risonanze, lasciò passare adagio il tempo meraviglioso che s’ingrandisce d’ora in ora, inghiottendo senza pausa la vita, e accumula con pazienza gli anni, diventando sempre più immenso”. (Mondadori pag.126)
La Fazioli Concert Hall è uno scrigno di preziosi, un cofanetto di pregiati legni che contiene e raccoglie tesori e gemme luminose che hanno la meravigliosa sostanza degli istanti che svaniscono e sono numerosi come i minuti.
Un concerto eseguito tra quelle essenze ha la flagranza di un’epifania e il gusto sopraffino delle pietanze più sapide e rare.
Sono istanti che si consumano in una pulsazione. Per questo sono sempre unici, irripetibili, estatici. La prima sensazione che morbidamente avvolge i fortunati spettatori che si accomodano in quell’auditorium è quella dei tannini dei legni che ricoprono le pareti. E’ sempre un inoltrarsi in una foresta di legni di risonanza che ogni volta fa vibrare le corde del cuore. Sedersi su quelle poltrone ad ascoltare il silenzio prima dell’ingresso degli altri spettatori è, di per sé, un’esperienza.
Il concerto del duo è stato pensato appositamente per quegli spazi in un evento davvero singolare e irripetibile. Baldych il violinista polacco e Lien il pianista norvegese hanno regalato agli appassionati de Il Volo del Jazz non solo una memorabile esibizione ma un’esperienza sensoriale per molti versi inedita in perfetto equilibrio tra le suggestioni della musica contemporanea e il jazz d’avanguardia.
A far vibrare le sue corde, naturalmente, soprattutto un pianoforte a coda Fazioli, battezzato lo stesso giorno in cui la sala da concerti che porta il suo stesso nome veniva inaugurata e aperta al pubblico nel 2005. Anche i violini di Baldych si sono fatti sentire, sia quello di foggia canonica che suona con l’archetto, sia quello con cassa armonica ridotta e dall’aspetto più robusto che utilizza per il pizzicato.
Un tema semplicissimo e romantico quanto basta sostiene il primo brano in scaletta che dolcissimo si spande come un profumo mescolandosi all’afrore stordente degli arredi e della barriere acustiche. Quella che il duo propone è un idea molto particolare del Jazz, non sono gli unici ne tanto meno gli ultimi, a farlo per fortuna, ma la loro è una spezia del tutto personale, pregiata e niente affatto comune.
Musica contemporanea, cameristica, jazz, folklore, ambient, pop, rock, avant-garde e quant’altro si mescolano in un mélange sonoro che ha una fisionomia per molti aspetti inaudita e inedita. I brani sono stati tratti quasi interamente dal repertorio recente del duo che, per la precisione, incide in trio o quartetto (con l’aggiunta di Frode Berg al contrabbasso, Per Oddvar Johansen, batteria e Tore Brunborg al sax tenore) per la raffinatissima casa discografica piemontese Egea. Uno delle loro prime incisioni ha per titolo per l’appunto“Bridges” ed è proprio questo il senso della loro musica: creare ponti tra universi sonori diversi e distanti con la bussola dei sensi che guarda ai punti cardinali.
Una speciale attenzione è stata dedicata all’esecuzione dei brani tratti dall’album “Brothers” del quale Baldych dice: “Solo con una completa fiducia e comprensione reciproca possiamo raggiungere l’obiettivo dell’unità musicale. Quello che vogliamo è intraprendere viaggi musicali senza compromessi e avere il coraggio di scoprire l’ignoto”.(www.egeamusic.com)
I due musicisti incidono anche con i loro rispettivi progetti musicali; è fresco di stampa “10” dell’Helge Lien Trio, ispirato e sognante per pianoforte basso e batteria.
Il duo dentro la Fazioli Concert Hall hanno proposto composizioni in forma di lunghissime suites come l’affascinante e misteriosa “Love” sostenuta in buona parte dal suono aspro del violino pizzicato dalle atmosfere orientaleggianti che si trasforma in un racconto per immagini che sembra basato su lontani ricordi di luoghi del cuore e di vecchie amicizie. Il pianoforte ha buon gioco a lavorare su memorie liquide e luminose.
La voce del violino si fa a tratti lamentosa e querula e perfino sgraziata in uno stranissimo scambio con le corde percosse di Lien, i due musicisti hanno un rapporto solido e si conoscono alla perfezione ma nonostante questo, spesso sembrano percorrere strade parallele. Ad unirli è un profondo senso dell’armonia che li porta a comporre le differenze che ci sono tra di loro per formazione culturale e per origini.
E’ un senso di profonda fiducia e di fratellanza che gli permette di esplorare insieme i luoghi più riposti della loro sensibilità. “Brothers” è per l’appunto il brano che meglio di ogni altro esprime questo senso di solidarietà che non è per nulla pacificato, depotenziato o disinnescato. Si sa che nemmeno tra fratelli non tutto va sempre nel migliore dei modi sia per le differenze di carattere, sia per le ombre e le luci che il sole della vita proietta sulla nostra esistenza. Il violinista polacco scrisse questa composizione in memoria del proprio fratello scomparso tragicamente. E’ proprio quel ricordo dolce-amaro che le note evocano nello strazio della memoria e nella consapevolezza del presente.
“Polesie” è una pioggia sottile di primavera che ci coglie su un prato e non ci lascia quasi il tempo di raccogliere le nostre cose e ripararci. Quando sembra ormai che la giornata di vacanza sia rovinata irrimediabilmente dagli scrosci, rispunta il sole attraverso le note del piano e allora ritorna la gioia dei fiori e la nostra che, pur zuppi di pioggia gelata, ci ritroviamo improvvisamente ricolmi di una felicità “inconsolabile”.
E ancora “Elegy”fragoroso e sentito omaggio alla luce delle cose, uno sguardo verso l’alto con i piedi ben piantati per terra, nei suoni di una natura dalla bellezza selvaggia e materna abituata a togliere, negare ma anche a donare tutta se stessa senza pretender nulla in cambio.
Lien percuote le corde del pianoforte con le palme delle mani nelle prime battute di “Dreamer” indicando le coordinate di un sogno in musica dal quale ognuno di noi può lasciarsi trasportare, come diceva il poeta “l’unico limite è il cielo” e forse nemmeno quello.
Sorprendente il finale con una versione ricercatissima e personale di Hallelujah di Leonard Cohen. Il brano si libra in uno sviluppo lirico e sospeso, sembra apparire quasi dal nulla ed esplodere in un’esaltazione estatica per poi spegnersi via via. Chi conosce le diverse versioni della canzone scritte e interpretate dal cantautore canadese capisce benissimo il significato e le intenzioni del duo che ha voluto sottolinearne l’ambiguità e l’equilibrio tra tensione spirituale e religioso.
Mano a mano che si spegnevano i fragorosi meritati applausi il silenzio suadente e setoso si riappropriava della sala ed era bellissimo veder defluire ordinatamente il pubblico, le signore imbellettate, gli azzimati signori, i tanti giovani e le coppie vedendo riapparire quegli spazi sonori che nel segreto delle loro luci spente, godranno ancora a lungo di quelle magnifiche vibrazioni.
Sempre Buzzati scrive: Ma due o tre volte, quella notte, ci fu anche il vero silenzio, il solenne silenzio degli antichi boschi, non comparabile con nessun altro al mondo e che pochissimi uomini hanno udito.” (Mondadori, pag.81)
© Flaviano Bosco per instArt