Hellfire è il titolo dell’ultimo lavoro dei Black midi ed infernale sembra il fuoco che devasta alcune zone del Friuli Venezia Giulia mentre la band londinese è nel cartellone di Sexto ‘Nplugged 2022, con la partnership di Veneto Jazz. Triste coincidenza per la conclusione del festival di Sesto al Reghena, anche quest’anno interessante nel proporre un programma scevro di personaggi bolliti e senza alcun senso artistico; caso raro nella nostra regione. Nella calda serata di domenica 31 luglio, lontani dai bollini rossi delle autostrade, si respira un’aria in parte delusa per il pacco tirato da Agnes Obel ed in parte rinfrancata dalla performance di sabato 30 degli Arab Strap. Evidentemente due vecchi (ex) sporcaccioni scozzesi sono più affidabili di una eterea ed aristocratica diva danese. Quasi una lezione di vita da tenere a mente. A tener banco la curiosità di vedere all’opera i Black midi, gruppo di under 25enni, osannati da parte della critica e dileggiati dall’altra. A dir la verità il recente Hellfire ha innestato anche nei più benevoli fan sospetti di manierismo e di calo di creatività, visto che è, per quanto pregevole, l’articolo meno riuscito della loro discografia. Testarli dal vivo è parsa la cosa migliore per fugare questi dubbi. La serata inizia ovviamente presso lo spazio Sexto Lounge, dove Beatrice Goldoni aka B.E.A., tiene un DJ Set impeccabile e non scontato, intriso di umori elettrici/elettronici. Un plauso a questa iniziativa che ha come madrina Eva Poles e che quest’anno ha avuto come protagoniste delle altre serate Flux, Millacu e DianDa Distress, ognuna col proprio stile e gusto personale. Ad aprire il set sul palco sono stati invece i Pamaguite, band pordenonese titolare di due EP, l’ultimo dei quali (Hope Is not a hassle) fresco di stampa. Dal live act si intuiscono le ascendenze a certo post punk chitarristico “gentile” anni ’80: Bono & co. fanno capolino dalla loro musica, ma non in maniera sfacciata o derivativa. L’impressione è che togliendo alcune ingenuità (inevitabili peraltro) possano giungere ad un proprio stile ed a risultati eccellenti. Il loro set, comunque, mantiene un buon equilibrio tra agganci melodici e serrate cavalcate elettriche e rivela un’ottima compattezza strumentale. Una esagerata voce da imbonitore presenta ampollosamente gli headliner della serata, che si presentano sul palco sulle note di Nessun dorma dalla Turandot di Puccini, cantato da Pavarotti, quasi a rimarcare il contrasto col concerto che verrà. Quelli che si presentano sul palco sono quattro poco più che ventenni, con l’aria da nerd: vince la gara il bassista Cameron Picton, pantaloni corti, berrettino e maglietta da reduce di un assolato pomeriggio in spiaggia, mentre Geordie Greep più che un chitarrista sembra uno che ha vinto la borsa di studio in un’università del nostro paese. I membri del gruppo sono disposti sulla stessa linea: Seth Evans (tastiere) a sinistra di chi vede, poi Pincton e Greep, quindi a destra l’indiavolato batterista Morgan Simpson. La disposizione ha un senso visto che consente l’amalgama tra i musicisti che, essendo sulla stessa linea possono interagire meglio e senza voltare le spalle al pubblico. Si inzia con 953 e si capisce che i ragazzi non vanno troppo per il sottile: riff di chitarra squadrati, ritmiche spezzate, melodie da crooner che si sviluppano in suoni metal. Manca all’appello purtroppo il sax di Kaidi Akinnibi, che offrirebbe aromi (free) jazz al tutto, aggiungendo una ulteriore spezia alla mistura di suoni proposti. L’approccio del gruppo è dadaista: compone e scompone suoni e melodie come farebbe un bambino di fronte ad un giocattolo: prima costruisce un’auto, in seguito la smonta, quindi ne fa una con cinque ruote, poi la smonta di nuovo. Vengono in mente le provocazioni di Frank Zappa, vista la capacità non comune di saltare da un genere musicale all’altro con uno sberleffo finale, che fa capire che era tutto uno scherzo. Qualche volta pesante.

Gli stacchi di chitarra/ basso che dialogano con una batteria precisa ma frenetica evocano lo spettro dei tardi King Crimson. Altro c’è ovviamente nel suono dei londinesi, visto che portano lo spettatore su una montagna russa di suoni, il cui obbiettivo è quello di mostrare la mano per poi nasconderla con un ghigno. A far la parte del leone sono i brani di Hellfire: in particolare Sugar/Tzu disorienta ed affascina con i suoi saliscendi, mentre su Welcome to Hell lo spoken word di Greep, debitore di Gil Scott Heron, si districa in una marea di lame sonore. I brani si susseguono senza pausa tra l’uno e l’altro, come fosse una suite progressive che ha come ingredienti generi estremi come trash metal, hardcore punk e psichedelia, suonata non da reduci rintronati degli anni ’70 ma da un gruppo di teppisti in botta da speed, ma con un ottima tecnica strumentale. Brani come Chondromalacia Patella e Faster Amaranta sono esplicativi fin dai titoli. A mio parere i Black midi fanno casino per nascondere le loro capacità di scrivere canzoni canoniche, per poi un giorno stupirci con un disco pop rock epocale. Il tempo sarà forse galantuomo, certo che un loro concerto rappresenta oggi un intransigente assalto sonico. Con il sibilo nelle orecchie torniamo nello spazio Sexto Lounge dove B.E.A. miscela suoni elettronici chill out, lenti ed avvolgenti. Il fuoco infernale si è trasformato in etere.

Daniele Paolitti – instArt 2022 ©