Mentre Pordenone e il resto del mondo scivolano inesorabilmente verso i torpori natalizi del vin brulé e delle ciambelle calde alle mele, a risvegliarci dall’anestesia consumistico-crapulatoria ci ha pensato “il cattivo maestro” per eccellenza del rock militante italiano, quel dinamitardo di Pierpaolo Capovilla e i suoi barbudos sono sbarcati nottetempo al Capitol di Pordenone con la Rivoluzione nel cuore.
Nessuno più di lui è i grado di portare avanti la bandiera nera e rossa del rock politico italiano raccolta in via Paolo Fabbri, sventolata al Parco Lambro, dalle fabbriche e dalle officine, nelle affinità e nelle divergenze fino a Genova nel 2001 e poi negli orrori e nei teatri contro le tante guerre assassine e vigliacche che ancora ci appestano. Lo fa ancora come coloro che non dimenticano e non si arrendono, contro i ladri in limousine, maledetti da dio, che dovranno pagar caro e pagare tutto, prima o poi.
E se a qualcuno venisse in mente che tutti questi sono solo slogan che lasciano il tempo che trovano, si dia un’occhiata ai giornali di questi giorni con lo scandalo Qatar-Gate che ha coinvolto altissime cariche politiche.
Mentre la politica contro i migranti dell’unione europea provoca migliaia di affogati nel Mediterraneo, con la miserabile menzogna che non ci sono mai fondi sufficienti per l’accoglienza, nell’appartamento della vice presidente del consiglio della stessa istituzione vengono trovati, letteralmente, sacchi di soldi in contanti (ad oggi un milione e mezzo in contanti) frutto di corruzione e di prostituzione di vario tipo.
E allora il verso che ritorna alla memoria: “Bastardi dentro, fuori assassini” non è mai stato più vero di oggi, anzi lo è sempre stato perché nulla è mai ancora cambiato in questo sistema che crea una ricchezza sporca di sangue per alcuni infami e lascia annegare nello sterco tutti gli altri.
Laika nello Spazio: L’attesissimo concerto di Capovilla, ha avuto un preludio poco meno che spiacevole con la band di spalla che davvero non ci meritavamo nonostante tutte i nostri peccati e le sordide omissioni.
“Laika nello spazio” è il progetto musicale di un trio dell’hinterland milanese che data 2015 e che ha come unica particolarità di rilievo quello di essere composto da due bassisti (Vittorio Capella, anche alla voce e Simone Bellomo) e da un batterista (Marco Carloni) che per l’occasione suonava lo sgabello Cajon (drum box) con un effetto acustico del tutto fuori luogo.
I loro suoni vorrebbero essere urbani, stradaioli, scuri e cupi com’era tipico della più sconsolata dark wave sul finire degli anni ‘80 scaturigine del post punk, fino all’industrial e al noise. Niente di tutto questo però traspare direttamente dall’esibizione live della band che è apparsa arrancare come uno scalcagnato veicolo con il freno a mano tirato.
Già dal primo brano si capiva che non sarebbe finita bene, “Dalla provincia” presumeva di raccontare la condizione delle periferie che incontrano la metropoli. Il tema di per se non era per niente male e poteva far venire in mente nell’ordine: il Neorealismo, le borgate di Pasolini e perfino Adriano Celentano ma versi come i seguenti: “Abbandonare la provincia per trovare la provincia è come fuggire da se stessi per ritrovare se stessi”, hanno fatto naufragare immediatamente ogni buona intenzione e aspettativa.
Il frontman ha tenuto a sottolineare, in più di un’occasione, che la band è originaria della provincia di Milano e si capiva benissimo dal forte accento napoletano con cui lo diceva. La banalità dei loro testi, spesso costruiti su slogan e frasi fatte, diventava in alcuni momenti auto-parodistica; la periferia e la provincia non erano mai viste come luoghi di per se ma come propaggine di un ipotetico centro che, in realtà, è uno punto vuoto di qualunque significato al di fuori del quale tutto è provincia. Venirlo a dire in rock proprio a Pordenone è stato quasi paradossale.
La città, alla provincia dell’Impero, ha saputo diventare nel corso degli ultimi quattro decenni centro nevralgico prima del punk italiano con The Great Complotto, poi motore del Rototom Sunsplash, e poi casa delle Giornate del Muto, eccellenza nella musica classica e d’arte con la Fazioli e nel jazz con il Volo del Jazz, Casa della scala pentatonica con il Blues Festival, e ancora Teho Teardo, Davide Toffolo, Gian Maria Accusani ecc.
Anche se Pordenone ha parecchi scheletri nell’armadio ed è una delle capitali dell’abiezione turbo-capitalistica del Nord-est, le lezioncine sul “Senso di nullità davanti alla metropoli” lasciano proprio il tempo che trovano.
I tre ci hanno provato per tutto il tempo, bisogna ammetterlo, ma non sono riusci a scaldare minimamente l’atmosfera, colpa anche di arrangiamenti che non riuscivano a scuotere ne a mordere e nemmeno a graffiare come ci si aspetta da un power trio con otto corde in tutto e uno sgabello come batteria.
L’ultimo accordo è stato il migliore della loro intera esibizione, soprattutto perché dopo, non ce ne sono stati altri.
Pierpaolo Capovilla e i Cattivi Maestri: Egle Sommacal (chitarra) Fabrizio Baioni (batteria) Federico Aggio (basso).
Dopo una breve pausa, è risuonata una lugubre intro registrata, angosciosa a palco vuoto che preannunciava l’entrata in scena, di quello che non può essere definito solo un cantante o un musicista, ma un autentico performer con un incredibile senso del pubblico e un’ carisma d’altri tempi.
Pierpaolo Capovilla si è presentato da solo senza dire niente guardando il pubblico, mentre il clangore cresceva attorno a lui; la sua parola muta, il suo sguardo folle, la sua mimica facevano venire alla mente l’ultima apparizione di Antonin Artaud su un palcoscenico, oppure alcuni momenti del teatro di Carmelo Bene.
Capovilla ha il talento istrionico di personaggi del genere e la sua lunga frequentazione con la grande poesia (Majakovskij, Pasolini, Artaud ecc.) hanno fatto maturare in lui una forza interpretativa unica almeno nel panorama attoriale italiano; nessuno come lui ha la capacità di incarnare la parola profetica della lirica contemporanea.
La presenza sul palco dei suoi musicisti è stata annunciata dalle prime staffilate del basso elettrico, distorto e violento come una bastonata; la “banda dei quattro” pesta e picchia durissimo, scuote le coscienze e le budella anche dei più distratti; il loro rock è ancora uno schiaffo e uno sputo e si fa ascoltare a “pugni chiusi”.
Dell’esibizione di Capovilla e dei suoi musicisti, a colpire, oltre all’innegabile impatto della musica, dal punk più arrabbiato al post rock più ruvido, è l’assoluta militanza dei testi, dell’atteggiamento e del significato della loro arte che può essere definita propriamente rivoluzionaria.
Quelli di Capovilla sono “eroici furori” contro una società malata e ingorda che pensa solamente al profitto e gode nel creare nuovi schiavi e nuove umiliazioni per i poveri che necessariamente produce.
Ebbro di poesia e di rivoluzione il cantante ha dichiarato in una recente intervista: “Contro questo stato di cose, la canzone italiana deve prendere posizione nel segno dei valori democratici che sempre devono istruire le nostre coscienze”.
Quello che offende di più, nella deriva autoritaria che tutti ci coinvolge, sono le menzogne che ci rodono l’anima, quelle che ci dicono e quelle che siamo costretti a dire nelle relazioni sociali di qualunque tipo, per difendere la nostra presunta dignità di cannibali divoratori di carne umana.
E’ disgustosa, in questo senso, tutta la prosopopea e la retorica sul merito di certi capi-bastone con le mani sporche di sangue che si divertono a citare le opere di Tolkien nei discorsi istituzionali avendoci capito ancora meno di quel Peter Jackson che ne ha realizzato la versione cinematografica.
Capovilla, invece, continua giustamente, ancora a credere che esista una canzone autenticamente popolare in grado di narrare la contemporaneità, agendo su di essa in nome degli ideali comuni che nel nostro paese dovrebbero essere prima di tutto l’antifascismo radicale tramandatoci dai tanti “piccoli maestri” che se lo sono guadagnato in montagna sulla punta dei loro fucili, e di conseguenza la solidarietà e lo spirito di fratellanza contro ogni sopruso, razzismo e discriminazione. I “Cattivi Maestri” come Capovilla e soci continuano a indicare a tutti noi il sentiero dei nidi di ragno di un antifascismo radicale che si unisce ad un feroce anticapitalismo.
Tanto per capirsi, Capovilla durante il concerto ha elogiato il sacrificio di Lorenzo Orsetti, anarchico, antifascista e partigiano italiano caduto nel 2019 combattendo in Siria con la milizia curda YPG, facendo seguire un sacrosanto paragone tra la figura di Antonio Gramsci e quella di Abdullah Öcalan; di entrambi una certa Italia sembra essersi colpevolmente del tutto dimenticata.
L’autentica canzone popolare italiana nasce ribelle e contestatrice, dai canti carbonari del Risorgimento a quelli delle Mondine; da quelli degli Anarchici a quelli del Movimento operaio, dai braccianti alle officine e poi, non certo ultimi, i canti partigiani della guerra di Liberazione antifascista. Entro questo universo culturale non è possibile escludere nemmeno le canzoni della Mala sulle quali lavorò a suo tempo Strehler e poi ancora tutte quelle voci raccolte da Diego Carpitella e Giovanna Marini; una tradizione che è continuata nel beat, nella stagione del cantautorato e poi nel prog, nel punk e in quello che c’è stato dopo e che oggi sembra essersi dissolto, ma cova sotto la cenere.
Come chiunque può capire facilmente la realtà del mercato musical consumistico è tutt’altro; la recente giusta polemica proprio di Capovilla con quel prodotto di marketing che sono i Maneskin, ci spiega in quale liquame siamo caduti, esattamente come l’ingenuo Andreuccio da Perugia dopo essere stato derubato, in quella celebre novella del Decameron portata sullo schermo dal genio di Pasolini.
E’ proprio a partire da quel fango in cui ci “hanno precipitati” che è necessario urlare con foga tutta la nostra rabbia, è proprio perché siamo sconfitti in partenza secondo le logiche del Capitale che è necessario combattere con tutte le nostre forze, osando tutto; osando perfino perdere.
“Abitare” la nostra sconfitta è anche un modo rivoluzionario per non essere conniventi e complici con i macellai di stato che infieriscono sui nostri fratelli che cercano di attraversare il Mediterraneo o sui “camminanti” che percorrono le rotte balcaniche della speranza. Come diceva Majakovskij in La Rivoluzione: “Di noi, abitanti della Terra, ogni altro abitante della Terra è parente. Tutti, tra le macchine, negli uffici, nelle miniere sono fratelli. Noi tutti sulla terra siamo soldati di un unico esercito che crea la vita.
Cosa può fare una canzone in questo contesto? Chi è convinto che non possa fare niente non conosce la forza e la potenza dell’immaginazione e della fantasia che è potere di per sé, e misconosce ugualmente la poesia italiana che è invettiva politica che si fa canzone e rivolta almeno dai tempi di Cecco Angiolieri; da allora è vero che l’Italia è discarica di ogni sozzura e dolore, e che non è più signora dei popoli ma lurido bordello, però è ugualmente vero che conserva la sua disperata vitalità e la possibilità di mostrare tutta la straziante bellezza del creato, se solo lo vogliamo; ogni riferimento a Pasolini è perfettamente voluto.
Alla fine della rovente esibizione, invece del bis, rito vecchio e frusto, Capovilla, dopo aver ribadito che quello che stiamo vivendo non è per nulla una novità e che è solo la continuazione dell’eterna lotta di classe tra sfruttati e sfruttatori, a recitato a memoria, prendendosi parecchie licenze, alcuni meravigliosi versi di Sergej Esenin tratti dalla celeberrima “Poesia del lunedì” con la quale possiamo congedarci anche noi con “Gioia e Rivoluzione”
“Molti pensieri in silenzio ho meditato,
molte canzoni entro di me ho composto.
Felice io sono sulla cupa terra
di ciò che ho respirato e che ho vissuto
Felice di aver baciato le donne
pestato i fiori, ruzzolato nell’erba,
di non aver mai battuto sul capo
gli animali, nostri fratelli minori”.
© Flaviano Bosco – instArt 2022