L’attesissimo concerto della stella internazionale del pianoforte non ha tradito per nulla le aspettative dei tanti appassionati regalando fortissime emozioni per un’esibizione insolita e per certi versi innovativa che forse saluta un’ennesima svolta nella carriera artistica di Mehldau nell’era post-epidemica.
Lo scorso anno, in pieno lockdown, quello che è stato considerato il più influente pianista jazz degli ultimi quattro lustri Brad Mehldau decise di fare qualcosa per aiutare i musicisti e gli addetti allo spettacolo rimasti senza ingaggi negli Stati Uniti. Nacque così “Suite: April 2020” in piano solo; i ricavi delle vendite delle prime 1000 copie numerate e autografate della versione Deluxe LP sono andati al Jazz Foundation of America’s Covid 19 Musicians Emergency Found. Tra le dodici nuove canzoni, perché di questo si tratta, Mehldau ha incluso anche una splendida, personale versione di “New York State of Mind” di Billy Joel (1976)
La canzone originale giocava con il titolo di uno dei poemi più importanti della letteratura americana contemporanea “A Coney Island of the Mind” di Lawrence Ferlinghetti, il grande poeta della Beat Generation che ultracentenario ci ha lasciati solo qualche mese fa (22/02/2021). Anche noi volevamo giocare con quel poema, per aspera ad astra, con il preciso scopo di penetrare in un modo insolito nel memorabile concerto del pianista a Grado Jazz 2021 senza doverci per forza sperticare nei soliti superlativi di certo meritati ma che impediscono di valutare in modo equilibrato un musicista e le sue performances. Era sembrato sensato accostare quei versi tragici e ironici alla sensibilità di Mehldau ma, riflettendo sull’esibizione, più adatti sono quelli di un brano che ha eseguito che descrivono meglio lo stato emotivo attuale. Sweet and Lovely di Ella Fitzgerald:
Sweet and lovely
Sweeter than the roses in May
Sweet and lovely
heaven must have sent him my way
Skies above me
Never were as blue as his eyes
and he loves ma
Who would want a sweeter surprise?
Non è chiaro se la musica sia una forza rivoluzionaria oppure un’intensa riflessione e rimemorazione su ciò che è già stato. Certo è che, a volte, suonare anche solo una nota nel modo giusto o disporsi a farlo permette di mettere in risonanza molte altre forze aggregandole sinergicamente; “una lunga marcia comincia da un piccolo passo avanti” e poi un altro, un altro e un altro ancora e via di seguito.
Il disco di Mehldau non ha risolto di certo i problemi dovuti al Covid ma è un piccolo passo, un gesto significativo che, oltre a fargli onore, ci dice qualcosa anche dello spirito che lo anima come musicista fin dagli esordi.
Del prodigio del pianismo americano si è detto che è in grado di esprimere una vena di romanticismo vagamente disperato da spaesamento pieno di nostalgia per l’assenza di qualcosa che non si è dato o che non abbiamo colto e che comunque ora ci è sfuggito per sempre.
Questo sentimento nella sua arte è stato giudicato come derivante dalla malinconia tipica dei cinquantenni d’oggi, figli della mancata rivoluzione e immediatamente invecchiati nella post modernità e nell’età post ideologica per finire tagliati fuori dalla nuova (ahimè) trionfante rivoluzione digitale dei social. E adesso che il tempo è scaduto, un vago senso di impotenza pervade chi è nato negli anni di Children of the Revolution dei T. Rex.
Può sembrare bizzarro e insensato o addirittura astruso fare tutti questi giri di parole per parlare del concerto di un pianista ma quando si ha a che fare con un musicista così complesso e poliedrico come il nostro (in Largo del 2001 suonò perfino il vibrafono) non si può non tenere conto della vastità dei suoi interessi culturali e della sua formazione d’artista; ne va della comprensione del suo particolare linguaggio e della grammatica dei suoi sentimenti e dei nostri.
Non si deve temere di accostarlo alle canzoni popolari della musica, diciamo così, “leggerissima” perché fanno proprio parte del suo modo di esprimersi e del suo linguaggio artistico. Da quando ha iniziato la sua carriera di musicista jazz non ha mai smesso di rielaborare i successi dei Beatles, Nick Drake e dei Radiohead, lo si è potuto vedere anche al concerto di Grado.
La forma canzone gli è molto cara e gli permette di esprimere il suo animo sensibile e romantico ma senza troppi sdilinquimenti. Dal vivo si impegna in una lenta, progressiva rielaborazione dei brani sempre nella ricerca del sublime in senso spirituale e romantico, coniugando istanze classicistiche di tradizione europea (Bach e musica barocca). Si è spesso temuto in una sua deriva commerciale che però ad oggi non c’è ancora stata. Ancora alcuni versi dalla canzone della Fitzgerald:
When he nestles in my arms so tenderly
there’s a thrill that words cannot express
In my heart a song of love is taunting me
Melody haunting me
Sweet and lovely
Ore 18,30 Tra le novità di questa edizione di Grado Jazz 2021 i concerti di valenti musicisti per le strade della città, negli angoli più suggestivi del suo centro storico. Daniele D’Agaro, tra i migliori sassofonisti della regione FVG si è presentato nello spazio tra le due basiliche di Grado, la chiesa più piccola di Santa Maria delle Grazie e la grande basilica di Santa Eufemia, probabilmente le due chiese paleocristiane più antiche d’Italia. La rastrelliera di sassofoni e clarinetti del musicista poggiava sul sagrato tra le due chiese che hanno visto almeno 2000 anni di storia della città, in uno dei luoghi più sacri della cristianità tutta e della storia centro-europea. Comincia intonando una melodia via via sempre più complessa, le sue note si spargono e s’infrangono per le piccole calli del centro storico, l’effetto è subito miracoloso. Quel luogo ha la capacità di entrare in risonanza con le note di D’Agaro, capace e intenso che porta scritto nei propri geni il pentagramma dell’eredità delle genti friulane che riassumono in se gli esuli, i profughi, i meticci, i bastardi e i dimenticati di ogni angolo della terre di ogni tempo.
Una straordinaria acustica riverbera note sapienti e cariche di emozione che sembrano contenere ed evocare mondi mentre bambini vocianti e ignari di ritorno dalla spiaggia o coppiette che si tengono per mano cercano solo un luogo carino per una cenetta romantica.
Proprio mentre la voce grave e cavernosa del clarinetto basso stava ricordando la solennità di quel luogo, i fedeli uscivano dalla “ciesa de le femene” cosiddetta per l’assidua frequentazione femminile.
Grado non è sempre stata la placida elegante signora che è oggi, c’è stato un tempo lunghissimo che è durato ben più di dieci secoli nel quale Grado rappresentava uno dei più grandi porti commerciali del Mediterraneo soprattutto per la merce più preziosa, quella umana. Migliaia di schiavi venivano razziati in Dalmazia o nell’interno per poi essere caricati sulle navi, comprati e venduti dai mercanti del centro e nord Europa. Questo particolare ci racconta che ci possono essere fili trasversali e particolari che uniscono storie lontanissime. Il jazz nasce, in massima sintesi dagli schiavi africani strappati alla loro terre e catapultati in una realtà di abusi e privazioni. D’Agaro suona in un luogo che ha visto passare migliaia di altri schiavi, ai lettori trarne le conseguenze.
Quello del sassofonista è un fraseggio confidenziale senza grosse asperità, da la sensazione di essere la voce di un amico che vuol dirci qualcosa di importante ma noi non troviamo mai il tempo di ascoltare. Cerca di dircelo anche con il sax baritono ed è un discorso chiaro, pulito, mai algebrico o astruso; pur nella difficoltà di certi temi e passaggi è sempre perfettamente comprensibile anche nei cambi di tonalità più imprevedibili e nei sovracuti che bloccano i soliti bambini sfreccianti in monopattino. Una piccola bambina tedesca che a stento riesce a tenersi in piedi accenna una piccola danza sul sagrato al suono dei sassofoni. Il Jazz è vita, viva chi vita crea!
Ore 21,30 Brad Mehldau Trio. Sul palco dell’Arena Parco delle Rose campeggia un preziosissimo Steinway & Sons voluto espressamente dal pianista americano che, seduto alla tastiera, comincia a delineare le logiche linee melodiche contrapposte così tipiche della sua arte che danno un effetto di piacevole straniamento; è come avere due pensieri nello stesso momento. Ad accompagnarlo nelle sue meditazioni due straordinari musicisti Larry Grenadier al Contrabbasso e Jeff Ballard alla batteria. Non serve dire molto, si tratta del vertice della musica contemporanea, lo sanno bene gli spettatori del concerto tra i quali moltissimi musicisti e compositori tra i migliori della Regione.
A farla da padroni però per tutta la durata dei primi brani è un autentico nugolo di zanzare assetate di sangue che infastidisce i musicisti e il loro pubblico.
Il batterista Ballard suona a tratti le proprie pelli con l’impugnatura delle spazzole regalando atmosfere impagabili.
Si srotola una lunga teoria di canzoni e brani dalle interpretazioni di Freinds dei Beach Boys a Sweet and Lovely di Ella Fitzgerald, da In the Still of the Night di Cole Porter a I’m Waiting Just for You di Hoagy Carmichael non mancano naturalmente i brani originali e in prima esecuzione, splendida Into the Citi dall’album Highway Rider. Il tono generale è molto meno ieratico di quello che tutti si aspettavano. I tre vogliono dare un calcio alle ubbie dell’infausto periodo che ci stiamo faticosamente lasciando alle spalle ed essere molto più dolci e amabili.
In alcuni momenti Brad Mehldau, che ha il pollice della mano sinistra con una protezione forse per un qualche risentimento ai tendini, ha un tocco davvero leggerissimo ed erratico, come sospeso. Sembra solo sfiorare i tasti lasciando libero spazio alla ritmica. Jeff Ballard fa un gran lavoro con i piatti e il rullante, escludendo o quasi la grancassa. I nuovi brani presentati sono tutti in generale molto sentimentali ma mai zuccherosi. Pensoso e riflessivo, Mehldau insiste su un tema che ritorna ossessivamente sviluppandogli attorno altre linee melodiche che lo trasportano e lo completano.
C’è tempo anche per il blues interpretato in origine dalla Fitzgerald, di cui abbiamo detto, è languido e felpato, liscio, liscio senza increspature, spazzole e contrabbasso, “felpato” come una musica gattesca e felina. Probabilmente se un gatto potesse sognare un brano lo immaginerebbe proprio così mentre sonnecchia in un giardino o imbucato in qualche angolo perduto della nostra casa.
Altri brani sono sostenuti da una ritmica velocissima e senza tregua che la batteria tiene, a volte, praticamente solo su un piatto senza sembrare mai fracassona. Ma le esecuzioni prese nella loro globalità sono sempre lunghe riflessioni su un tema che viene poco a poco smontato, parcellizzato e dilatato nei ritmi e arricchito di continue variazioni e poi ancora più lentamente ricomposto in ogni sua parte.
Appaiono sfumature di Hard-Bop spinto a velocità siderali in ritmi sempre concitati e lanciati al massimo. Nel finale pacificato e disteso, i tre si premiano con Skippy di Thelonious Monk e poi, nello splendido bis, con il Brasile di Toninho Horta (Aquelas Coisas Todas), una divertente fantasmagoria tropicale dai ritmi sincopati serratissimi.
Sweet and lovely
Sweeter than the roses in May
and he loves me
There is nothing more I can say.
© Flaviano Bosco per instArt