Replica del 25/01/2025
Vivo ed annunciato successo al teatro Verdi di Trieste per la “recita cantata” (Singspiel) del giovane Mozart ambientata in un oriente fantasioso, luccicante di ori e odoroso di spezie.
Non poteva essere altrimenti se il parametro è quello del botteghino, se invece guardiamo alla qualità musicale ed artistica della proposta riusciamo a notare più chiaroscuri che bagliori. Non ha entusiasmato soprattutto la regia legnosa e compassata di Ivan Stefanutti, per altro anche scenografo e costumista.
L’azione scenica degli interpreti è apparsa davvero elementare e quasi trattenuta, non ha assecondato minimamente l’azione, a tratti quasi gioiosamente rabbiosa, del libretto originale.
Se la Traviata, vista in apertura di stagione, portava a compimento il lungo percorso del melodramma nell’universo femminile, il primo passo in quella direzione era stato fatto dall’illuministico “Die Entführung aus dem Serail”, singspiel che esalta la bontà e la ragione in musica da un punto di vista squisitamente muliebre (16 luglio 1782).
Canta Blonde, una delle protagoniste dell’intreccio, prigioniera del turco Osmin: “…le ragazze non sono merce da regalare! Io sono un’inglese, nata libera, e sfido chiunque voglia costringermi a qualcosa!…La donna è donna, sia dove sia! Se le vostre donne sono tali mentecatte, da farsi soggiogare da voi, peggio per loro; in Europa giostrano meglio la cosa. Fa’ che io prenda piede in loco, e quelle cambieranno in quattro e quattr’otto.”
L’eleganza della direttrice Beatrice Venezi, in realtà, non ha tolto né aggiunto nulla alla forza della musica di Mozart che sa quello che le è dovuto e brilla comunque di luce propria.
E’ vero che la celebre bacchetta ha fatto scaturire con i suoi movimenti e gesti l’ouverture spumeggiante, piena di brio e “turchesca” con tanto di sonagli e vari esotismi ritmici, ma ai toni brillanti ha preferito quelli più meditabondi di uno scialbo grigiore che hanno messo la sordina ad ogni possibile entusiasmo, anche tra i più bendisposti tra il pubblico.
L’alternanza tra recitato e cantato è sembrata a volte gestita in modo scarsamente dinamico quasi un semplice accostamento, uno sterile avvicendamento o sovrapposizione tra musica e parole con poco spazio per l’armonia e l’accordo.
La Venezi non ha volutamente calcato la mano sulle stramberie esotiche che tanto piacevano alla corte viennese del tempo cui l’opera era dedicata, tanto che l’interpretazione è apparsa meno cristallina e brillante di quanto siamo soliti immaginarla, ma forse è solo questione di gusti. In ogni caso a dominare è stata la luminosità trionfante della composizione del giovane Mozart.
Le coreografie e le interazioni tra i personaggi, come dicevamo, sono state davvero minime ed elementari con poca inventiva. Le scene a volte sono apparse fin troppo posticce e fasulle come quelle di una recita scolastica.
Se l’intento dello scenografo-regista era quello di ridurre ai minimi termini il suo intervento con un effetto cartoonesco, infantilistico e disneyano, tutto è perfettamente riuscito, altrimenti qualcuno ne dovrebbe trarre le giuste conseguenze.
Un piccolo incidente di palco, irrilevante a livello musicale, ma simbolicamente significativo per quanto riguarda l’accuratezza della messa in scena ha riguardato uno degli scamiciati giannizzeri che accompagnavano il sultano dentro e fuori dalle quinte. Alla nerboruta guardia, durante una scena piuttosto drammatica, è caduta platealmente a terra la lama della sua “pericolosa” alabarda e lui si è trovato a dover difendere il gran sovrano per un breve siparietto comico che a qualcuno è passato del tutto inosservato, ma che per altri ha significato un bagno di realtà che ha rischiato di spegnere ogni vagheggiamento e residuale fantasia.
Yerang Park è stata un’ottima Konstanze anche nei passaggi più vertiginosi e spericolati dei suoi gorgheggi, convincente Luca Dall’Amico nei panni turcheschi dello spietato Osmin; divertente e tutta pepe la Blonde di Liudmila Lokaichuk. Un plauso anche al Maestro del coro Paolo Longo che sa trovare la più giusta ed equilibrata soluzione per fare in modo che la sua compagine sostenga senza mai sovrapporsi o sovrastare le voci dei protagonisti.
Mentre viviamo all’interno di una distopia che nemmeno Orwell avrebbe saputo immaginare, è sensato riflettere attraverso la musica sul rapporto Oriente-Occidente che ancora una volta sembra dominare i nostri destini. Non sarà Mozart a darci la soluzione per tutti i mali contemporanei, ma la sua opera ci può dare alcune indicazioni di metodo.
Scrivono Ernst Jünger e Carl Schmitt ne “Il nodo di Gordio”:
“Oriente e Occidente: nella storia del mondo, questo incontro non soltanto è d’importanza primaria ma rivendica anche un suo posto peculiare. Esso indica la direzione principale della storia, l’asse che si orienta sul corso del sole. Illuminato fin dai primi albori, è un modello che continua a svilupparsi fino ai giorni nostri. I popoli si presentano sull’antico palcoscenico e nell’antico intreccio con una tensione sempre nuova.
La nostra ottica è tale che resta impressionata soprattutto dal luccichio delle armi sulla scena. Tutti quegli eserciti, falangi, argiraspidi, elefanti, scontri di cavalieri crociati e saraceni, battaglie navali nel Levante, squadroni di carri armati e di aerei, disfatte sul ghiaccio e nei deserti, distruzioni di città dai tempi di Demetrio Poliorcete, di Tito, di Tamerlano fino ai giorni nostri: tutto ciò si imprime nella nostra memoria…Lo stesso vale per il tema della libertà e della costrizione del destino. Anche in questo caso, la nostra ottica resta impressionata soprattutto dal dispotismo. Avvertiamo tutto il peso del continente, udiamo dal Caucaso il tintinnare delle catene. I re persiani e i loro satrapi, gli scià e i khan, i condottieri di immense schiere e colonne sulle quali ondeggiano stendardi stranieri – code di cavallo, draghi, soli rossi, stelle , falci e mezzelune -: è sempre lo stesso terrore che ne anticipa l’irrompere, mentre gli incendi tingono di rosso il cielo. (Op.cit., Il Mulino, Bologna 2004, pag. 33)
Potrebbe sembrare bizzarro ragionare in questo modo della prima opera lirica in lingua tedesca composta dal ventiseienne W.A.Mozart, ma già il fatto che gli fu commissionata direttamente della corte viennese dell’imperatore Giuseppe II allo scopo di creare un popolare singspiel che promuovesse l’unificazione linguistica dell’impero, ci dovrebbe mettere sull’avviso.
Già da essenziali informazioni possiamo subito comprendere che si tratta di un’opera politica fin nelle prime intenzioni e, naturalmente, se vogliamo capirla a fondo non ci basta ascoltare la fantastica musica del genio di Salisburgo, ma dobbiamo sforzarci di capire il contesto nel quale è germinata.
L’essenziale premessa prevede la conoscenza del fenomeno delle cosiddette “Turcherie”, la moda che dal XVI sec. imperversò in tutta Europa ad imitazione dell’arte dell’impero ottomano, dalla musica, all’architettura e a tutte le arti plastiche, soprattutto nel XVIII sec. con il riattivarsi delle relazioni diplomatiche e commerciali.
La stravaganza di questa moda e il suo esotismo non vanno però scambiati per un reale interesse per le altre culture, anzi è vero il contrario. Nel suo celebre saggio del 1978 Edward Said introduce il concetto di “Orientalismo”, come autoaffermazione dell’identità europea a giustificazione del controllo e dell’invasione dei territori strappati ai legittimi proprietari o nativi. E’ un concetto che sottende alla superiorità degli occidentali su tutti gli altri popoli e che ha sostenuto le pratiche schiavistiche e coloniali e che, in buona sostanza, continua ancora a farlo.
Il nostro mondo anche oggi è pieno di “cineserie e africanismi”, ma continua a costruire muri e a sfruttare le “terre rare”, in tutti i sensi, dei popoli che blandisce e strumentalizza a proprio piacere.
Ma cosa c’entra il povero giovane Mozart con tutto questo? Direttamente proprio niente; qualcuno potrebbe dire che lui era semplicemente un musicista che si arrabattava tra corte e teatri in cerca di un ingaggio e che la sua arte tendeva al sublime e non al mondo gretto e prosaico della politica internazionale.
Ma così come nessuno può negare l’enorme influsso culturale delle sue opere sull’immaginario d’Occidente, nessuno può più sottovalutare la sua ispirazione illuministica e prettamente massonica fino a quella della setta dei Rosacroce. La massoneria viennese cui apparteneva mirava soprattutto all’ideale illuministico di migliorare la vita dell’uomo anche con la beneficenza. La loggia di Mozart “Zur Wohltätigkeit” (Alla Carità) era molto attiva in questo senso con raccolte di fondi per i più disagiati.
La trama del Singspiel è piuttosto lineare: il nobile spagnolo Belmonte e il giardiniere Pedrillo sono in angoscia perché le loro fidanzate, rispettivamente la nobile Konstanze e l’inglese Blonde sua ancella, sono state rapite dai pirati e successivamente vendute all’Harem (serraglio) del pascià turco Selim. Entrambi sono venuti in Turchia per liberarle venendo a sapere che Konstanze è diventata una delle favorite del Pascià e che Blonde è stata offerta in dono al rude carceriere Osmin.
Il Pascià Selim è rappresentato come un sovrano giusto e ragionevole che non vuole forzare la castità della sua ancella che rispetta talmente da finire per liberarla riconsegnandola al fidanzato, anche dopo averlo scoperto figlio del suo più acerrimo nemico. Dopo che anche Blonde è restituita al suo Pedrillo, tutti vissero felici e contenti.
Dice Selim: “Riprendi la tua libertà, riprendi Konstanze, sciogli le vele verso la tua patria, dì a tuo padre che tu fosti in mio potere, che io ti ho lasciato libero, per potergli dire che è un piacere ben maggiore contraccambiare un’ingiustizia subita con opere di bene, piuttosto che male per male.”
In questo incontro idealizzato da Mozart tra Oriente ed Occidente, il mito del “Turco generoso” paragonabile, per certi versi, a quello del “Buon selvaggio” è un vagheggiamento europeo di quell’epoca che, se da una parte si preparava alla Rivoluzione francese, dall’altra pensava già le teorie della razza, il genocidio dei nativi americani, il colonialismo più aggressivo e la repressione violenta e crudele delle rivolte come quella di Haiti del 1791.
Forse quei popoli venuti in contatto con gli europei avrebbero fatto meglio a pensarla come canta il rude turco Osmin: “Bruciar dovrebber questi cani, che con infamia ci han truffati; Non si può più stare a guardare, mi brucia già la lingua in bocca, per ordinare il lor castigo: pria la scure, poi la forca, poi infilzati in palo ardente, poi bruciati, poi legati, poi annegati; infin spellati…”
Flaviano Bosco / instArt 2025 ©