Replica del 17/11/2024
Le stagioni del Verdi di Trieste negli ultimi anni hanno riservato al numerosissimo pubblico di appassionati incredibili emozioni con una selezione sempre attenta e meditata delle proposte che ogni anno sembrano quasi seguire una tematica precisa con rimandi e contiguità per niente casuali. Ad osservare il cartellone di quest’anno 2024/2025 sembra di intravvedere un percorso tra i grandi personaggi femminili in primo piano e una articolata riflessione sulla loro evoluzione nel corso del tempo.
E’ forse solo una suggestione, ma costruire riferimenti e rimandi, anche con citazioni criptiche e riferimenti iperbolici, resta un gran bel passatempo non solo per i melomani; in fondo come diceva quel tale: “Tutto nel mondo è burla. L’uom è nato burlone, la fede in cor gli ciurla, gli ciurla la ragione. Tutti Gabbati! Irride l’un l’altro ogni mortal. Ma ride ben chi ride la risata final”.
L’apertura di stagione del Verdi lo scorso novembre, ha dato il via ad una teoria di particolari messe in scena che per ora hanno visto il loro apice nel Trittico pucciniano di cui diremo a tempo debito.
La tragica vicenda di Violetta è tra le più note e allo stesso tempo misconosciute dell’immaginario musicale del nostro paese che può vantare un analfabetismo funzionale conclamato da parecchi decenni.
Le arie più famose della Traviata “Libiamo ne’ lieti calici”, “Sempre libera”, “Amami Alfredo” le conoscono tutti, almeno per sentito dire o per qualche pubblicità televisiva, ma ormai sono pochi quelli che sono in grado di comprendere che, come dice il titolo, La Traviata racconta la tristissima, dolorosa vicenda di una prostituta, tubercolotica che l’alta società borghese prima esalta e sfrutta e poi abbandona a morire in solitudine. Poco valgono le lacrime postreme e la compassione fasulla in extremis di chi l’aveva prima condannata ed esecrata.
La colpa di tanta incomprensione è dovuta di certo alla decadenza culturale che il nostro paese ha subito e forse perfino cercato negli ultimi decenni, ma è anche di rappresentazioni del dramma come questa del Verdi che, pur offrendo un ottimo, godibile spettacolo, finiscono per metterne in secondo piano i significati più profondi.
La prima del 06 marzo 1853 al teatro La Fenice di Venezia fu un fiasco clamoroso almeno secondo Giuseppe Verdi che non ne apprezzava l’organico degli interpreti. Stando alle cronache dell’epoca al pubblico, invece, piacque fin da subito. Il tema scabroso, la notorietà del romanzo di Dumas figlio, la meravigliosa musica ne fecero, in realtà, fin dal debutto un’opera di grande successo ed è oggi la più rappresentata al mondo, tra i vertici del melodramma italiano.
La signora delle camelie (La Dame aux camélias, 1848) è un romanzo di Alexandre Dumas figlio composto in poco più di trenta giorni e ispirato ad un amore postribolare dello stesso autore con Marie Duplessis, una delle “Lorettes” più famose di Parigi della metà dell’Ottocento. Tanta letteratura di quegli ultimi decenni del secolo XIX ha utilizzato la prospettiva delle “Traviate” per rappresentare le idiosincrasie e le ipocrisie della borghesia.
Dumas ci introduce in modo molto delicato nella vita della Lorette, tipica prostituta d’alto bordo della cosiddetta “monarchia di luglio” (1830-1848) di Luigi Filippo I; nel suo adattamento Verdi dovette sottostare ai vincoli della censura anticipando tutto al XVIII sec.
A Trieste il regista Arnaud Bernard, ispirandosi all’estetica Christian Dior della Parigi anni ‘50, con lo scenografo Alessandro Camera e i costumi di Carla Ricciotti, ha costruito uno spettacolo pregevole dal punto di vista dell’intrattenimento cinematografico e meramente ludico, lasciando in secondo piano la critica sociale e la necessaria attenzione ai complessi sentimenti che caratterizzano la protagonista e gli altri personaggi.
Tutta la vicenda è concepita in flashback come se si trattasse dei ricordi di una morente che vomita sangue nel suo catino. Alcuni “fermo-immagine” nei quali tutti i presenti sul palcoscenico si bloccano per poi ripartire all’uniscono non migliorano la situazione.
Le vere e proprie sequenze del secondo atto, durante le quali “Noi siamo zingarelle” diventano dei travestiti in corsetti sado-maso e staffili, se danno vita ad un ambiente molto festaiolo come da libretto, non aiutano a concentrarsi sulla sordida decadenza e corruzione che Giuseppe Verdi voleva sottolineare. Quella che vediamo è gente che si diverte e gozzoviglia e non sembra esserci niente di male. La baiadera con frusta che esce da un enorme cilindro che doma cinque omoni a torso nudo come se fossero i suoi animali da tiro è sembrata molto decadente e Berlino anni ‘20 forse un tantino eccessiva; di certo divertente ma tutto un po’ troppo sopra le righe, come il resto dello spettacolo.
Buoni gli interpreti e sempre all’altezza il direttore Enrico Calesso che evita con la sua orchestra di cadere nei fastidiosi stereotipi interpretativi cui la partitura viene spesso condannata ai meri fini spettacolari.
Verdi voleva sottolineare l’ipocrisia della società dell’epoca, noi spesso finiamo per giustificarla tra lacrime, brindisi e ovazioni sfrenate senza capirne il dramma. Troppo spesso crediamo che la magnificenza della rappresentazione possa sostituire il contenuto e che l’esperienza teatrale sia semplicemente una liturgia esornativa borghese; non è vero per niente che l’opera ha perso la propria energia di critica social,e è che a volte ci costa troppa fatica ammettere che la musica ci ha superato e che il nostro sguardo è volto indietro.
Dicevamo più sopra che il regista Bernard ha fatto riferimento, per la sua messa in scena, ad un certo gusto estetico di metà secolo XX°. Leggiamo, in conclusione, come descriveva il pubblico di quel tempo così diverso da noi, la maggiore interprete di Violetta in assoluto.
Dopo la recita del 14 gennaio 1951, direttore Tullio Serafin al teatro comunale di Firenze, la Callas scrisse a Elvira de Hidalgo, sua ex maestra di canto: “Per fortuna sono guarita in tempo per la Traviata a Firenze con Serafin, naturalmente preparandola in sei giorni! Mi creda che non sapevo da dove incominciare! Certo è che oggi godo il frutto di tanto studio fatto da bambina. Si ricorda vero?
Ebbene, le dico che non ho mai avuto una soddisfazione come queste. Il pubblico è andato in visibilio dopo il primo atto e cioè il mi bemolle. E dopo l’“Amami Alfredo” a tutti i costi volevano il bis, naturalmente non concesso. Le assicuro signora, che la gente piangeva. Non avrei creduto se non li avessi visti. Macchinisti, maestri, coro, e gente che veniva a trovarmi dalla platea (sconosciuti). E’ commovente vedere la gente piangere e vedere tante cortesie da parte di tutti”
(Io, Maria-Lettere e memorie inedite, a cura di Tom Volf, BUR 2019, pag 168)
Ipse Dixit.
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