In questi oscuri tempi di ignoranza populisticheggiante, vedere una sala da concerto strapiena di pubblico appositamente convenuto per ascoltare la conferenza di un concertista di chiara fama come Alexander Lonquich, che discetta in ottimo italiano su una sonata di Schubert e poi la suona, consola il cuore, perché significa che c’è ancora una speranza per questo nostro disgraziatissimo Paese. E un ringraziamento deve andare all‘Accademia Ricci e alla sua presidentessa Flava Brunetto che ha saputo, per il concerto inaugurale della stagione 2018/2019, coinvolgere un pianista così importante come Lonquich e far emergere così la parte migliore della società italiana, quella che nella cultura si identifica e sostiene queste iniziative benemerite. Sostenitori che trovano nelle Fondazione Friuli e nell’Università di Udine, i cui rappresentanti sono stati invitati dalla Brunetto a presentare la serata, i primi e più convinti artefici di questa iniziativa.

L’oggetto della riflessione proposto da Lonquich è la Sonata in si bemolle maggiore D 960 Franz Schubert, l’ultima delle grandi sonate per pianoforte scritte dal Maestro viennese e inizia tale riflessione in maniera quasi inoffensiva, parlando degli intervalli musicali e poi dei significati ad essi associati, per poi addentrarsi, con un linguaggio – in verità più adatto ad un corso di specializzazione pianistica che ad una conferenza dove inevitabilmente ci sono persone che non conoscono in profondità la partitura – nei meandri della forma-sonata che caratterizza il Molto moderato che apre il capolavoro schubertiano. In tale disamina, Lonquich ne evidenzia la logica compositiva, non basata sulla contrapposizione dialettica dei temi come in Beethoven (ammiratissimo da Schubert), ma sulla giustapposizione di episodi collegati fra loro da associazioni, affinità e reminiscenze, attuate attraverso un sapiente e continuo gioco di modulazioni. Altrettanto approfondita è l’analisi del secondo tempo, l’Andantino sostenuto, ma quando si accorge che il tempo fugge e che si sta avvicinando il tempo limite per l’esecuzione della sonata (45 minuti), Lonquich “tira via” sullo Scherzo. Allegro vivace e sull’Allegro ma non troppo.

Dopo una breve pausa – la parte di analisi è durata circa un’ora e mezzo e il pubblico è un po’ stanco – è la volta dell’esecuzione. Che lascia senza fiato per l’emozione. Il tocco di Lonquich è unico, stupendo, una tavolozza infinita di colori che rendono questo Schubert brillante e pensoso allo stesso tempo. Lonquich mescola la luce e l’ombra di questa pagina e lo fa con una naturalezza che fa esclamare all’ammaliato ascoltatore. “Sì, è lui!”.

Ascoltare questa sonata eseguita da Lonquich è un’emozione unica che fa superare all’ascoltatore anche la sua infinita lunghezza, perché la tensione esecutiva non si allenta mai, neanche nei momenti di maggiore rarefazione del materiale musicale. Il pubblico così ammaliato dall’espressività dello Schubert di Lonquich, alla fine tributa all’esecutore un’autentica standing ovation. Lui, lusingato, concede un bis con Schubert.

Sergio Zolli © instArt