Nel 2011 Roman Polanski portò in concorso al festival di Venezia uno dei suoi film più intimi e riusciti che suscitò lodi sperticate da parte dei critici e che però, come spesso accade in questi casi, fece flop al botteghino. Il lungometraggio in questione era un adattamento di una pièce teatrale di Yasmina Reza del 2006 il cui titolo originale è “Le Dieu du carnage” (Il dio del massacro). La pellicola faceva sfoggio di interpreti di primo ordine, quali Jodie Foster, John C. Reilly, Christoph Waltz e Kate Winslet.
Il voyerismo è di certo alla base della pratica teatrale, dalla tragedia sofoclea alla “Finestra sul cortile” di Hitchcock è tutto uno spiare dietro le tapparelle, dentro le vite degli altri, nelle loro gioie, ma soprattutto nelle loro disgrazie.
Il nostro piacere segreto e inconfessabile è quello di poterci identificare con i drammi che vediamo in scena fin quasi ad esperirli senza alcun pericolo di reale coinvolgimento diretto.
Senza abusare di una frusta metafora: il palcoscenico è lo spazio del sogno e dell’incubo, per quanto vivida possa essere la rappresentazione c’è sempre la possibilità del risveglio. Lo spettatore, si passi l’azzardo, è un pusillanime che vuole farsi coinvolgere ma con diritto di recesso, con una via di fuga sempre pronta. Questo è il senso molto prosaico della catarsi aristotelica.
La pièce di Yasmina Reza è stata tradotta ed adattata da William Cisilino e Michele Calligaris ed è andata in scena per la regia di Rita Maffei e Fabrizio Arcuri. La pensata davvero geniale è stata quella di aggiungere alla complessità psicologica e sociale del testo un’ulteriore dimensione espressiva, quella della lingua friulana che gli ottimi interpreti alternano a quella italiana, con un effetto drammaturgico veramente efficace.
Lo spettacolo è stato allestito nel velario del Palazzo Garzolini di Toppo Wasserman dell’Università di Udine e le tapparelle a dividere il pubblico dalla scena c’erano davvero.
Al centro dell’arioso atrio dell’edificio, una grande teca di vetro conteneva il salotto di una casa borghese, tutto attorno erano disposte le poltroncine del pubblico che “spiava” dalle finestre dentro casa a brevissima distanza.
Come dice il libretto di sala: “A partire dalla preziosa didascalia di Yasmina Reza che recita “Un salotto, niente di realistico”, abbiamo allora immaginato una scatola scenica – come fosse una gabbia o un acquario – per mettere sotto una lente di ingrandimento – e sotto gli occhi degli spettatori che la circondano – questo insolito ménage crudele che si lascia scrutare e vivisezionare, una sorta di gabinetto anatomico, o un radiodramma semovente”.
In friulano la parola che, in questo caso fa davvero la differenza, è “Scjaipule” che può essere intesa come una chiave di lettura dell’intera messa in scena.
Nel salotto, alzate le “tapparelle”, gli spettatori hanno assistito all’incontro-scontro di due coppie adulte che si confrontavano cercando un accordo dopo che i figli si erano azzuffati al parco.
L’uno aveva colpito l’altro in faccia con un bastone, per futili motivi, spezzandogli due incisivi.
Le due coppie, inizialmente molto educate e civili, finiscono per insultarsi e riversare vicendevolmente tutta la rabbia e frustrazione che hanno accumulato. Le fasulle buone maniere borghesi lasciano progressivamente il posto a ben più rudi e crudeli schermaglie, spesso anche relative alla diverse funzioni svolte dai protagonisti nell’ambiente piccolo borghese di cui fanno parte.
Anna (Rita Maffei): Consulente patrimoniale
Alan (Massimo Somaglino): avvocato
Michele (Fabiano Fantini): grossista di casalinghi ferramenta
Veronica (Aida Talliente): insegnante di scuola media, scrittrice di un libro sulla civiltà di Saba e sulla tragedia del Darfur
Il velo dell’ipocrisia e della cosiddetta educazione all’urbanità si rivela per quello che è davvero nella nostra società: solo un modo per mascherare una violenta, animalesca legge della jungla che abbiamo portato dentro le nostre case. L’evoluzione e il principio di adattamento ci ha portato a fondare la nostra società sul tornaconto personale, sulla crudeltà e la sopraffazione.
Uno dei personaggi più cinici del dramma dice: “Io credo nel dio del massacro. E’ il solo che governa, in modo assoluto, fin dalla notte dei tempi”.
Dentro ognuna delle nostre case, nell’era “democratica” del capitalismo più spietato, si combatte una battaglia per i diritti e la libertà che abbiamo perso in partenza perchè abbiamo svenduto la nostra anima al demonio del profitto e del quieto vivere. Anestetizzati dal benessere borghese, non ci accorgiamo di essere semplicemente belve feroci pronte a sbranarci l’un l’altro nell’ipocrisia della nostra buona educazione. In “A porte chiuse” di Jean-Paul Sartre si dice “L’inferno sono gli altri” e il testo di Yasmina Reza lo ribadisce ampiamente.
Lo stile teatrale da camera con l’azione che si svolge tutta in un unico ambiente non è certo una novità dal teatro di Ionesco, al Kammerspiel del cinema muto fino agli esperimenti televisivi claustrofobici de “Il Grande fratello”, format in franchising in tutto il mondo che negli ultimi tre decenni ha completamente trasformato il nostro immaginario e linguaggio videoludico.
Per questo è ancora più difficile riuscire a fare qualcosa di accattivante e coinvolgente come il lungometraggio di Polanski, così come ancora più complesso è trasformarlo in un’azione scenica coerente in grado di conquistare l’attenzione degli spettatori.
Naturalmente, non si tratta solamente di avere un buon testo, una buona regia e scenografia. Un dramma di questo tipo, tutto centrato sui dialoghi e anche sul linguaggio non verbale, nel quale la distanza tra palcoscenico e pubblico è completamente azzerata, gli attori sono praticamente in scena per tutto il tempo in una piccola arena tra il pubblico; in effetti la cosiddetta “quarta parete”, in questo caso specifico, è solo una sottile lastra di vetro trasparente che si frappone leggera tra “palco e realtà”.
A partire dal Mittelfest 2022, in molti luoghi della nostra regione, dai teatri più prestigiosi ai luoghi più insoliti, come per l’occasione l’atrio del palazzo Toppo Wasserman in via Gemona a Udine, si è potuta vedere la straordinaria doppia coppia Maffei/Somaglino e Talliente/Fantini in un gioco del doppio teatrale davvero intrigante che moltiplicava le prospettive e le suggestioni.
Fra tutte le chiavi interpretative possibili quella linguistica è davvero la più intrigante ed efficace.
Infatti, nella pièce i dialoghi formali tra i protagonisti avvengono in italiano, ma appena l’atmosfera e gli animi si scaldano esacerbandosi si passa subito al friulano tanto per marcare la differenza. Nel nostro territorio, cultura antica vuole che la lingua madre venga usata solamente per i sentimenti più profondi e l’italiano venga relegato alle comunicazioni formali.
Vi è però un altro livello di complessità da tenere ben in conto. Il nostro fondamentale bilinguismo prevede anche la perfetta mescolanza e modulazione dei due idiomi. Molti puristi storcono il naso a sentire parlare il friulano mescolato con l’italiano oppure altre lingue, il nostro perfetto bilinguismo permette, invece, di poter parlare due o più lingue allo stesso tempo, un modo di esprimersi che è una sorta di miracolo cognitivo.
Dimostra la forza straordinaria non solo della lingua friulana, ma soprattutto della sua cultura che sa contaminarsi pur restando salda; certo ha modificato la propria fisionomia, il lessico, la sintassi e ci mancherebbe, ma lo spirito è rimasto del tutto intatto e riguarda un certo tipo di arguzia, un’ironia del tutto particolare che alla cultura accademica italiana è sembrato rozzo e stolido solo per un pregiudizio che ha sempre considerato gli accenti e le burle dei fiorentini migliori di quelle degli abitanti a nord del fiume Po.
Gli ottimi attori di Maçalizi hanno lo straordinario pregio di essere madrelingua e parlanti un friulano non accademico che rende fluidi e realistici i dialoghi. La drammaturgia del nostro territorio è da tempo matura e può contare su interpreti davvero straordinari, a livello nazionale la macchietta del friulano fa ancora fatica a farsi da parte soprattutto a causa della crassa ignoranza di produttori e sceneggiatori ancora fermi alle burlette degli anni ’50.
Il tutto è riassunto nella celebre battuta del film “C’eravamo tanto amati” di Scola nella quale il personaggio di Stefania Sandrelli alla domanda: “E lei di dov’è?” risponde “Di Trasaghis…Vicino a Peonis…Udine. Non si sente l’accento friulano perchè ho fatto scuola di dizione. Avevo qualche difficoltà con le doppie: dona, mama…” per capirlo basta ascoltare l’idioma parlato nella serie tv nazional-popolare: “I casi di Teresa Battaglia” girata nella nostra regione e tratto dai romanzi della gemonese Ilaria Tuti.
Per tutti questi motivi bene fa l’ARLeF (Agjenzie Regjonâl pe Lenghe Furlane) a promuovere spettacoli di questo tipo capaci di dimostrare plasticamente la forza della nostra lingua e della nostra cultura. Il lavoro di riscrittura e di adattamento non fa perdere niente della caustica ruvidità dell’originale francese, anzi ne moltiplica le prospettive e forse vi aggiunge carattere e verosimiglianza. Certo i linguaggi sono completamente diversi, ma se l’adattamento cinematografico di Polanski non poteva fare a meno dei soliti stereotipi del gruppo di famiglia in un interno Newyorkese, la messa in scena di Maffei/Arcuri ha il grande pregio di rendere la pièce astratta e surreale dal punto di vista scenografico e materica e iperreale da quello attoriale e linguistico, in un connubio teatralmente di notevole efficacia.
Dentro la “scjaipule”, la gabbia di vetro che contiene il salotto borghese, tutto è verde acqua: tavolo, poltrone, mobili, abiti e perfino un water messo in un angolo del tutto fuori contesto che ricorda la famosa scena de “Il fantasma della libertà” di Luis Buñuel, senza dimenticare che tutta la pièce di per se è debitrice de “L’angelo sterminatore” e altri capolavori dello stesso regista.
Molti sono i sottotesti impliciti nello spettacolo, ce n’è per lo strapotere delle industrie farmaceutiche ai danni dei pazienti; per gli uomini d’affari che utilizzano qualunque mezzo anche il più meschino per mantenere il proprio privilegio; per i radical chic che al calduccio nei loro appartamenti borghesi pontificano sulla fame nel mondo e sui bambini soldato in Africa, sui democratici benpensanti che alla prova dei fatti si rivelano pusillanimi e fascisti.
Ecco di seguito alcune frasi, a modo loro significative, tratte dal testo che, accostate, sembrano quasi costruire un’invocazione al Dio del massacro:
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Con i vostri diritti dell’uomo mi ci pulisco il culo.
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La vita è mediocre è solo: indolenza, azione, morte.
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Le donne ragionano troppo.
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La morale ci impone di controllare i nostri istinti.
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Senza una concezione morale dell’esistenza, che cos’è la vita?
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Le donne impegnate fanno passare la voglia.
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I figli ci succhiano la vita, ci fanno a pezzi.
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Il matrimonio è la peggiore delle prove.
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Con il tempo s’impara a sostituire il diritto alla forza, all’origine il diritto è violenza.
Per concludere con una nota lieta, una frase in lingua friulana tratta dallo spettacolo sintetizza con icastica ironia tutto il crudele agitarsi d’anime di questo dramma da camera e forse anche quello di tutti noi:
“Le vite a è dute une roture di cojons”
Flaviano Bosco / instArt 2024 ©