Sul palco del teatro Mascherini di Azzano X, Luca A. d’Agostino, direttore artistico della rassegna Estensioni Jazz Club Diffuso della Slou Società Cooperativa, evidentemente raggiante, ha presentato una delle esibizioni più interessanti in un panorama di iniziative sempre straordinarie organizzate insieme all’ass. Complotto Adriatico.
John De Leo- Jazzabilly Lovers. Fabio Nobile (batteria) Stefano Senni (contrabbasso) Enrico Terragnoli (chitarra) John De Leo (voce)
Chi ha qualche capello bianco ricorda il clamore che fecero gli Stray Cats in Italia cavalcando l’onda del revival rock’n’roll dei primi anni ’80. Scalarono le classifiche con “Stray Cats Strut” proponendo uno stile musicale tutt’altro che innovativo, ma di grande presa e divertimento.
Il Rockabilly nasce all’alba degli anni ’50 negli Stati Uniti da una fusione a freddo tra il rock’n’roll classico, il Blue grass, country, boogie woogie e il jazz. Non bastano queste referenze a definirne lo stile che incamera molte suggestioni provenienti dalla subcultura campagnola, rude e rurale degli Hillbilly.
Chitarra, contrabbasso, batteria con solo rullante e charleston per un rock scarnificato ed essenziale con tanto divertimento, giacche di pelle e capelli impomatati.
A più di quarant’anni di distanza da quel revival e a settant’anni da “Rock’n’round the clock” di Bill Haley & His Comets cosa resta ancora da innovare nel genere. Ad ascoltare John De Leo si comprende immediatamente che moltissimo resta ancora da fare per chi ha talento, carisma e classe.
Il concerto di Azzano X ha presentato un diorama esploso di brani completamente trasformati del R’n’R tradizionale quasi irriconoscibili e giustamente dissacrati dalla fantasia e dalle qualità artistiche e performative del leader De Leo e dei suoi straordinari musicisti che, alle stralunate interpretazioni dei classici standard, hanno sommato spericolate, estreme improvvisazioni nei territori tra suono e rumore, rispondendo con il jazz ai mille enigmi del rock’n’roll.
L’attitudine dell’ensemble è stata decisamente Avant Garde ma non sono mancati momenti stravaganti dal noise al post rock, fino al punk più arrabbiato.
Quello che è apparso immediatamente evidente è che la musica e l’arte espresse dall’ensemble sono tutt’altro che meramente virtuosistiche, non sono solamente un’esibizione accademica di tecniche e variazione su tema, ma un modo molto personale di indagare l’immaginario della musica popolare contemporanea senza percorrere i soliti frusti cliché dell’eterno revival anni ’60.
L’eterna ripetizione di quelle che sono diventate autentiche icone della cultura contemporanea ha trasformato quella musica in una sorta di astrazione slegata dalla propria dimensione temporale, come nelle opere di Joe R. Lansdale. Per esempio, in “Bubba Ho-Tep”, Elvis Presley è diventato un personaggio del tutto immaginario, grottesco e disincarnato che può adattarsi a qualunque fantasia letteraria e cinematografica perfino a quella di combattere in sedia a rotelle con una mummia egizia in un ospizio per anziani sciroccati.
L’attitudine di John De Leo e dei suoi Jazzabilly Lovers è assolutamente dissacratoria e sacrilega rispetto a certi brani che hanno fatto la storia della musica nel XX sec. E non potrebbe essere altrimenti senza scadere nel patetismo e nella retorica del già visto e sentito. Non ci sono atteggiamenti gigioneschi nemmeno sul palco, la rotazione del bacino di Elvis the Pelvis e il passo dell’oca di Cuck Berry lo sostituiscono con uno spericolato sperimentalismo che disintegra gli stereotipi più beceri che nel nostro paese hanno fatto la fortuna di più o meno improvvisati sosia e autentici cloni.
Blue Suede Shoes di Elvis Presley: “puoi fare qualunque cosa di me, ma non mi salire sulle scarpe” recita così nella nostra lingua la canzone sulle calzature più famose della storia del rock. Leggenda vuole che sul finire del 1955 Carl Perkins, Johnny Cash e Elvis Presley stessero viaggiando su una Plymouth verde del ’53 alla volta dell’Arkansas per una serie di concerti. Cash, ricordandosi della passione di un aviatore dell’epoca (C.V. White) famoso per la sua passione per le scarpe di camoscio, propose di scriverci sopra un pezzo capace di far dimenticare ai ragazzi in un colpo solo tutti i problemi esistenziali e lo spauraccio della guerra di Corea appena conclusasi. Il potere ha saputo ben utilizzare tutta quell’energia giovane incanalandola nel culto edonistico dell’apparenza e del disimpegno.
Seppur il primo Rock’n’Roll era scaturito dalla giovane classe operaia bianca che aveva rubacchiato l’ispirazione al Rhythm’n’Blues degli afroamericani, lo show business l’aveva fin da subito risucchiato nel proprio gorgo e non ce l’ha ancora restituito.
Nel riproporre in versione totalmente destrutturata questo famoso hit, i Jazzabilly Lovers hanno dimostrato che chitarra e contrabbasso sono strumenti assolutamente adatti e duttili in un contesto del genere, riuscendo a garantire sia il bordone ritmico che quel tanto di intrattenimento che non guasta mai.
Con il suo scat estremo De Leo ha trasformato plasticamente le proprie corde vocali fino a renderle quasi percussive con un effetto del tutto straniante, ai confini del rumore, quasi oltre la frontiera del possibile. L’effetto generale è assolutamente piacevole, intrigante e felino e tutto questo solo per cantare di un paio di scarpe blu.
Be bop a Lula di Jerry Lee Lewis: “Lei è la mia bambolina, è la ragazza con i blue jeans rossi, è la regina di tutte le ragazze” cantava lo scatenato pianista della Louisiana che di ninfette se ne intendeva di certo, se c’è un brano disimpegnato e leggero che rappresenta al meglio la voglia di divertimento scanzonata, la vitalità e l’esplosività della musica della gioventù bruciata degli anni ’50 è proprio questo.
La vita al massimo, veloce e spericolata che è propria dell’essenza del rock’n’roll, è tutta qui, in una luccicante superficie che sembra non avere nessuna profondità. Sembra che il brano voglia esprimere solamente gli sbalzi ormonali di qualche giovinastro per la sua “bambolina” che “scodinzola” felice.
I Jazzabilly Lovers, al contrario, sono riusciti perfettamente a decostruirla, facendone emergere perfino misteriose e nascoste asperità. Sotto la patina luccicante, la canzone già allora nascondeva la personalità mercuriale e saturnina del giovane scatenato cantante. Jerry Lee Lewis era tutt’altro che il bravo ragazzo della porta accanto, un po’ birichino, sotto sotto era una specie di “belva bionda”. La sua biografia, come la sua musica, all’apparenza così svagate nascondono l’incubo di un’America bianca, consumista e razzista.
Rovistare tra le pieghe più oscure dei suoni di quella “troppa America sui manifesti” che ha corrotto anche noi non è un puro esercizio accademico, ma un’autentica indagine sul significato più profondo del fare sperimentazione in musica. Non riesce a tutti così bene, John De Leo, con i suoi musicisti, di certo trova anche il tempo di estasiare il pubblico sulle note di un brano che si dava ormai per scontato.
Fever di Peggy Lee: Non so quanto ti amo…quando mi baci mi fai venire la febbre… E’ un brano che trasmette da più di sessant’anni un’enorme carica sensuale. Il rock come l’amore è una questione di passione e di temperatura corporea. Ci fa bruciare dentro, ci ammala, consuma fino a svuotarci e a lasciarci spaesati e attoniti. Certo quello che voleva esprimere Presley con la sua interpretazione forse aveva un orizzonte più patinato e romantico, ma di fatto il brano si è prestato nei decenni ad innumerevoli interpretazioni, non ultima quella di Madonna che la trasformò in una delle colonne sonore d’obbligo per gli spettacoli del revival Bourlesque.
Tra le tante vale come curiosità citare quella dell’intrepido Bruno Lauzi che nel 1965 ne incise una stravagante versione dal titolo estemporaneo e patriottico “Garibaldi Blues” .
John De Leo supera con grande slancio tutta la patina e l’ossificazione che ricopre la perla rara di una composizione che risplende a nuova vita pur trascinandosi tutte le memorie collazionate nel corso dei decenni. Il brano non suona mai come un oggetto d’antiquariato o una copia fotostatica, attraverso le corde vocali del cantante, sembra esplodere a nuova vita, intriga e regala seduzioni impreviste. A sbalordire sono qui e altrove le improvvisazioni chitarristiche di Ferragnoli, spesso dagli accordi acidi e dal virtuosismo dilatato e lunatico.
Stormy Weather di Ethel Waters: uno degli standard del jazz più noti che vide la sua prima apparizione al celebre Cotton Club di Harlem (New York) nel 1933. Da allora in poi è stato reinterpretato letteralmente migliaia di volte dalle stelle più luminose del jazz (Duke Ellington, Billie Holiday, Charles Mingus, Etta James) ma anche dai tanti appassionati di ogni età e latitudine. John De Leo e i suoi musicisti ne hanno dato un’interpretazione magistralmente disseminata, dispersa, disintegrata in mille particelle di senso che attraverso la vocalità del cantante diventano veramente ciò che sono sempre state.
Nel brano originario una donna si dispera perchè, da quando il suo uomo l’ha lasciata, il sole in cielo non ha più senso e, infatti, è sempre tutto grigio, ventoso e piove in continuazione; per il blues è più che sufficiente per costruirci sopra un capolavoro.
De Leo riesce a farci percepire questa sorta di stato di abbandono nel rieccheggiare di una voce perduta nel vento tra gli scrosci della batteria e degli accordi di chitarra che a volte hanno suoni crimsoniani. Con Pascoli potremmo dire che è l’angoscia per colui che non ritorna tra il lampo e il tuono di un bubbolio lontano tra stracci di nubi chiare.
L’avventura non finisce di certo qui. De Leo dimostra e promette di avere molte frecce ancora nella faretra della sua inesauribile creatività, il suo carismatico talento ha ancora tanto da darci e noi saremo sempre pronti ad applaudirlo.
Come canta Bowie: “The wall-to-wall is calling, it lingers, then you forget. Ohhh, you’re a rock’n’roll suicide.”
Flaviano Bosco / instArt 2024 ©