Certo, Rachel Goswell non è più la fascinosa musa degli anni novanta, Neil Halstead e Simon Scott non portano più il caschetto sixties, ma la sostanza e la carica dei tempi migliori è rimasta. Le note di Brian Eno (Deep Blue Day da Apollo) hanno accompagnato il gruppo sul palco, che sono partiti con una tripletta che non ha fatto prigionieri. Ad aprire le danze la sinuosa Shanty, dall’ultimo album, con le tastiere kraute che si sono fuse con le chitarre liquide di Halstead e Savill, il primo impegnato a fornire arpeggi melodici, il secondo a lavorare sugli effetti prodotti dalla pedaliera ( riverberi e distorsioni). Alle spalle i visuals con effetti optical ed immagini hanno perfezionato il tutto. A seguire la trascinante Star Roving, che nella dimensione live si è dimostrata deflagrante: le chitarre si sono prese la scena duettando tra riff robusti e crescendo voluttuosi, mentre basso e batteria fremevano sullo sfondo. Una meraviglia. La trimurti iniziale è terminata con Catch The Breeze che ha fatto sobbalzare il cuore dei vecchi fan; una brezza che ai tempi infiammò il movimento shoegaze oltre che il pubblico presente con la sua melodia accompagnata da un sontuoso muro di chitarre. Il gruppo già da queste prime battute ha dimostrato di essere in forma e di non voler svolgere con stanca routine un repertorio in qualche caso vecchio di trent’anni. Anzi, ha dato l’impressione di essere consapevole di essere ormai un punto di riferimento per certi nuovi gruppi, come lo furono per loro i Sonic Youth, i My Bloody Valentine o i Cocteau Twins. Tutti nomi questi ultimi che sono stati in qualche modo omaggiati nel concerto di Piazza Castello, con i furori chitarristici che si sono alternati ad oasi sonore estatiche e con le voci della Goswell e di Halstead in secondo piano ad avvicendarsi in canto e controcanto. Il set è stato una sorta di celebrazione del passato, il cui numero di canzoni ha superato quelle prodotte dopo la reunion del 2017. Ci siamo persi quindi nella invitante melodia di Alison e nelle vertigini sonore di Machine Gun e 40 Days, poste a suggello dell’esibizione nel bis, o nei riverberi di Souvlaki Space Station, fluttuante nelle sue quasi dolenti chitarre. La stretta attualità ha avuto degna rappresentanza nella perfezione pop di Slomo e Kisses, nel trasognato caracollare di Chained to a cloud e nella magia degli arpeggi celestiali di Sugar for the Pill. Prima dei bis però il toccante momento del tributo a Sua Maestà Syd Barrett di Golden Hair, con la Goswell che si è allontanata dopo l’ultima strofa cantata, mentre il resto del gruppo si è impegnato in una coda strumentale dagli aromi quasi psichedelici. Sullo sfondo, al centro del video il volto del Diamante Pazzo, che sembrava annuire stralunato in mezzo a quel mantra sonoro. And the madcap laughs.
Anni fa chi scrive decise di andare a vedere gli Slowdive appena riformati in un festival in provincia di Pordenone. Arrivato alla meta, dopo 70 chilometri, si accorse di aver sbagliato data (il gruppo inglese aveva suonato la sera prima) e dovette “accontentarsi” dei Verdena. Mica poco. Il 7 luglio, data finale di Sexto ‘Nplugged 2024, il vostro commentatore dopo altrettanti chilometri percorsi per vedere finalmente il gruppo di Rachel Goswell, si è trovato al calare della sera sul palco Alberto Ferrari, chitarra e voce proprio del gruppo bergamasco. Corsi e ricorsi. Questa volta però non si è trattato di un’errore di data e on stage non c’era la band madre di Ferrari, autrice di un concerto infuocato proprio a Sesto nell’edizione scorsa, ma il “supergruppo indie” I Hate My Village, deputato ad aprire la serata per gli Slowdive. Il concetto di supergruppo evoca misfatti sonori prog tipo ELP o ASIA, che non erano altro che ammucchiate di ego caratterizzate da un alto tasso di onanismo musicale. Meglio è andata con (super)band recenti tipo The Good, The Bad & the Queen, The Raconteurs o Atoms for Peace, in cui il risultato, per quanto apprezzabile, è risultato inferiore alla somma delle parti. In realtà la band italiana, formata da musicisti provenienti dal sottobosco rock italiano (Verdena, Jennifer Gentle, Calibro 35, Bud Spencer Blues Explosion), si smarca abbastanza dai propri gruppi di origine proponendo un sound che ammicca alle poliritmie africane unite a certa psichedelia e ad una spigolosità sonora comune a certo post rock. La formula è di tutto rispetto ed ha prodotto un eccellente prima omonima prova oltra al recente Water Tanks, in parte riproposti nella esibizione di Sesto al Reghena in un live act che ha evidenziato il buon stato di salute dell’ensemble. La perizia tecnica dei musicisti, unita ad un’esperienza live di lungo corso, ha partorito un concerto teso ed “angoloso” con le chitarre a duettare in maniera tutt’altro che convenzionale e con una sezione ritmica a dir poco esplosiva a suo agio sia su ritmi afrobeat che più marcatamente rock. Quella che, a parere di chi scrive, è mancata è stata l’empatia con un pubblico interessato, ma probabilmente non a suo agio con le strutture complesse dei brani e col nuovo repertorio. La musica degli I Hate My Village ha probabilmente bisogno di essere assimilata per essere gustata appieno e forse riusciranno nel tempo a fare la quadratura del cerchio. Tali problemi non ne hanno avuti gli Slowdive, headliners della serata e della manifestazione tutta, visto il fedele seguito guadagnato in più di cinque lustri di attività sia live che discografica.
© Daniele Paolitti per InstArt
Foto di Luca Chiandoni