Replica del 28/04/2024
Strepitosa messa in scena al Verdi di Trieste per il capolavoro rossiniano che segna il passaggio dagli artifici operistici del ‘700 alle “cruditè” della modernità. Con “La Cenerentola, ossia La bontà in trionfo” Rossini conquista, affascina e diverte il pubblico fin dai primissimi accordi dell’ouverture; quelle melodie, le arie, i vertiginosi virtuosismi vocali, la concitazione dei ritmi non abbandonano lo spettatore neppure dopo giorni dalla rappresentazione. Si continua a vivere sospesi “volati in cima ad un campanile”.
L’allestimento del Verdi di Trieste si è avvalso della preziosa direzione del Maestro Enrico Calesso, amatissimo dal pubblico triestino e che sa meritarsi gli applausi a scena aperta e i tanti “Bravo!”. La contralto Laura Verrecchia ha interpretato un Angiolina/Cenerentola specchio di bontà senza eccessi virtuosistici e con equilibrata umiltà, senza indulgere troppo nel suo ruolo di “servaccia ignorantissima” e nemmeno eccedendo con i toni di ingenuo candore.
Non serve dire la grande emozione che suscita sempre la sua aria malinconica che è poi uno dei temi ricorrenti di tutta l’opera:
“Una volta c’ era un re,
Che a star solo s’ annoiò:
Cerca, cerca, ritrovò;
Ma il volean sposare in tre.
Cosa fa?
Sprezza il fasto e la beltà.
E alla fin sceglie per se
L’ innocenza e la bontà.
Là là là, lì lì lì, là là là”.
E’ stato assolutamente funambolico e carico di malizia il Dandini di Giorgio Caoduro che ha spesso rubato la scena al suo padrone Don Ramiro cui ha prestato la voce senza demerito Dave Monaco. “Non pervenuto” come si diceva una volta Matteo D’Apolito nel sacrificato ruolo, in questa messa in scena, di Alidoro.
Apparentemente semplice, ma efficacissima la regia scenica di Paolo Gavazzeni e Pietro Maranghi che hanno saputo far muovere i propri personaggi in modo credibile, senza la legnosità che spesso caratterizza i cantanti lirici in certi allestimenti sciagurati. Di grande garbo anche i costumi di Nicoletta Ceccolini, una sorta di ibridazione tra lo stile Disneyano e quello meraviglioso di Emanuele Luzzati che ha ispirato direttamente anche le scenografie e le proiezioni video oniriche e fanciullesche sul palcoscenico.
Quando è iniziata la sinfonia d’apertura è stato come svegliarsi dentro un sogno di qualcun altro, il pizzico degli archi sembrava il contrabbasso di un jazzista e poi tutta l’orchestra al “falso trotto” che poi rompeva al galoppo fino ad un festoso largo a briglie sciolte per un piacere musicale che sembra un allegro giro in Landò da gala a dodici molle sotto un cielo di stelle.
Un’assoluta meraviglia di ineguagliabile felicità compositiva sottolineata dal clarinetto e ribattuta a caldo dai violini in un crescendo forsennato.
Proprio come in un calesse che corre veloce tra due filari d’alberi in una giornata di sole, la musica di Rossini è l’irrompere della gioia senza alcuna mediazione nemmeno di carattere intellettuale, lo splendore senza paragoni, esuberante e spumeggiante.
Nel primo atto de “La Cenerentola”, in una delle arie più famose e straordinarie della storia della musica, un padre ambizioso e cupido Don Magnifico, interpretato a Trieste dall’impareggiabile Carlo Lepore, spiega alle figlie altrettanto avide (Tisbe e Clorinda che cantavano e si muovevano grazie alla verve di Carlotta Vichi e di Federica Sardella) di un “magnifico suo sogno”.
Si è sognato un bellissimo, solenne somaro cui ad un certo punto spuntavano le penne che gli permettevano di spiccare il volo tanto da finire appollaiato in cima al campanile. Le campane suonavano din don dan, precedendo di botto il risveglio del genitore di soprassalto.
Una scena talmente buffa e grottesca da essere surreale e perfino astratta come molte di quelle interpretate dal personaggio di Don Magnifico, motore tutt’altro che immobile di tutta la vicenda. Lo scoppiettante libretto di Jacopo Ferretti è pieno di trovate giocose e buffe senza mai essere gratuite e grossolane.
Val proprio la pena riportare l’intera aria dell’azzimato vanaglorioso padre che si rivolge con involontaria autoironia alle figlie non meno vanesie di lui:
State il sogno a meditar.
Mi sognai fra il fosco e il chiaro Un bellissimo somaro; Un somaro, ma solenne. Quando a un tratto, oh che portento! Su le spalle a cento a cento Gli spuntavano le penne, Ed in alto sen volò! Ed in cima a un campanile Con sussiego si fermò. Si sentiano per di sotto Le campane a sdindonar … |
Col cì, cì, ciù ciù, di bottoMi faceste risvegliar.
Ma d’ un sogno sì intralciato, Ecco il simbolo spiegato. La campana suona a festa? Allegrezza in casa è questa. Quelle penne? siete voi: Quel gran volo? Plebe, addio. Resta l’ asino di poi? Ma quell’ asino son’ io. Chi vi guarda vede chiaro Che il somaro è il genitor. |
Non serve parlar troppo dell’intreccio della narrazione che è semplicemente una giocosa variazione dalla fiaba “Cendrillon” di Perrault scritta da Ferretti in venti giorni e musicata da Rossini in ventiquattro tra il dicembre del 1816 e il 25 gennaio 1817, naturalmente mettendo a frutto la tecnica dell’auto-imprestito del maestro pesarese e cioè rimaneggiando alcuni materiali già utilizzati per altre opere in particolare Il barbiere di Siviglia e La Gazzetta.
La storia di Cenerentola viene da lontano e unisce culture e tradizioni lontanissime nel tempo e nello spazio. Gli scrittori antichi Erodoto, Strabone e Claudio Eliano ne parlarono come di un’antichissima fiaba egizia con protagonista la povera etera tracia Rodopi della quale s’innamora niente meno che il faraone Amasis.
Anche la Cina del IX sec. ha la propria Cenerentola nei panni della sfortunata serva Ye Xian che, alla fine dopo un ballo a corte, fa innamorare il re con la sua bellezza e la sensualità dei suoi piccoli sandali.
Sono solo due esempi opposti per un’avventura che sembra intersecare la storia dei paesi più diversi.
Per tornare a Rossini che di tutta questa filologia non sapeva proprio che farsene, non possiamo mancare almeno un accenno ad un altro piacere che lo rende universale e che condivide con noi attraverso la sua musica terrigna e celestiale allo stesso tempo.
La sua passione per la gastronomia non è per nulla solo una triviale delizia del palato o un intrattenimento per le viscere, è un sublime trasporto, senza comprendere il quale l’opera del maestro finisce quasi per perdere di senso.
Gioachino Rossini era davvero “una buona forchetta”, cioè un buongustaio, una persona che amava mangiare e bere. Stendhal scriveva di lui: “Mangia come tre orchi, ingozza fino a venti bistecche al giorno”. Lui stesso si autodefiniva “Pianista di terza classe, ma primo gastronomo dell’universo”.
Andava matto in particolare per la pasta e se la faceva spedire da Roma e da Napoli perché quella era la pasta di qualità più alta. Una volta, nel 1859, il pacco di pasta non arrivava: in una lettera a un amico, Rossini si lamenta del ritardo e firma la lettera: “Gioacchino Rossini Senza Maccheroni”.
“Dopo il non far nulla io non conosco occupazione per me più deliziosa del mangiare, mangiare come si deve, intendiamoci. L’appetito è per lo stomaco ciò che l’amore è per il cuore. Lo stomaco è il maestro di cappella che governa ed aziona la grande orchestra delle passioni. Lo stomaco vuoto rappresenta il fagotto o il piccolo flauto in cui brontola il malcontento o guaisce l’invidia; al contrario lo stomaco pieno è il triangolo del piacere oppure i cembali della gioia… Mangiare e amare, cantare e digerire: questi sono in verità i quattro atti di questa opera buffa che si chiama vita e che svanisce come la schiuma d’una bottiglia di champagne. Chi la lascia fuggire senza averne goduto è un pazzo.”
Non sarebbe certo dispiaciuto al Maestro pesarese un giro per il Carso sloveno a pochi chilometri dal teatro Verdi dove avrebbe potuto trovare gli odorosi tartufi che tanto amava gustandoli magari in una delle tante Gostiline, sugli spiedi delle quali rosolano lentamente succulenti maialini, mentre nelle grandi pignatte in cucina si prepara la zuppa di funghi porcini oppure la Jota.
Naturalmente non si sarebbe fatto scappare le enormi Lubianske, colossali bistecche con prosciutto formaggio, impanate e fritte proprio come piaceva a lui.
Dal suo epistolario emerge anche la sua passione per salumi ed insaccati anche di grana grossa come la Kranjska Klobasa o il prosciutto carsolino, per concludere poi con la prelibatezza dei dolci e del vino schietto che a “diluvio si beverà” come dice il coro nella divertentissima scena X del primo atto dell’opera, nella quale quel beone di Don Magnifico si da ai bagordi dopo essere stato nominato “Cantinier e intendente del bicchier, con estesa autorità, presidente al vendemmiar” dal principe Don Ramiro spasimante ricambiato della povera Cenerentola.
Prima che si alzasse il sipario, si notava nel golfo mistico, la presenza di un prezioso fortepiano, voluto dal direttore per riprodurre durante i recitativi quel particolarissimo suono di transizione che dal clavicembalo portò al pianoforte moderno e che dimostrò proprio nelle opere di Rossini il proprio prezioso contributo all’evoluzione musicale tra Classicismo e Romanticismo attenuando i suoni metallici e favolistici del clavicembalo, senza però essere ancora pianoforte. Lo strumento segna un punto di passaggio tra quello che era stato e quello che ancora deve essere.
Gertrude Righetti Giorgi, la prima Cenerentola al debutto dell’opera al teatro Valle a Roma (25/01/1817) scrisse in “Cenni di una donna già cantante sopra il maestro Rossini” (1823) difendendo il Maestro pesarese dalle ingiurie di chi lo considerava solo come un geniale compositore di cose poco serie (Stendhal):
“Non è immaginabile la facilità di Rossini nel compor musica, quando compone animato dal suo genio corre velocissimo, i rumori che se gli fanno d’intorno lo aiutano anziché no, a comporre le sue note, simile a Cimarosa lo strepito degli amici gli suscita nuove idee, del rimanente io l’ho veduto in Roma comporre La Cenerentola in mezzo al più gran chiasso. Egli pregava gli amici così di aiutarlo «Se ve ne andate» diceva egli talora «io manco di estro e di ogni appoggio». Bizzarria singolare, si rideva si parlava, ed anche si canticchiavano ariette piacevoli, sebbene in disparte, e Rossini, assistito dal suo genio, ne faceva sentire tratto tutta la possanza portandola sul pianoforte parti felicissime”.
La Cenerentola ci accoglie in quel gruppo di amici festosi che ogni tanto sbirciano il Maestro che, durante e dopo le fraterne, allegre gozzoviglie, si fa prendere dall’estro della musica trasportandoci tutti in volo, ubriachi d’amore, vino e gioia, su quel campanile, liberi finalmente di essere anche noi, i bellissimi somari che siamo sempre stati.
Flaviano Bosco / instArt 2024 ©