Replica del 30/03/2024

Suggestivo allestimento in chiave ottocentesca dell’opera di teatro musicale fondamentale per l’identità culturale e per l’immaginario dell’Italia libera, unita e repubblicana.

Si apre il sipario con le guardie e i loro fuciloni che scrutano e guatano gli spettatori che ancora stanno guadagnando i loro posti. Sembravano i carabinieri che, lo stesso giorno, in tenuta anti sommossa presidiavano piazza Goldoni con i migranti seduti sulle panchine che avranno pensato di trovarsi in una città sotto assedio, proprio come la Gerusalemme del primo quadro dell’immensa opera di Verdi.

Puntualissimo e atteso il maestro concertatore e direttore Daniel Oren scudiscia l’aria con la bacchetta e fa sgorgare dalla sua orchestra l’acqua lustrale dell’ouverture, il cui inizio è stato scandito anche malauguratamente dalla suoneria di un cellulare lasciato acceso che ha squillato proprio sull’attacco, nemmeno a farlo apposta.

Il direttore non se n’è curato e tutto è proseguito per il meglio. Nel frattempo, sulla scena gli armigeri avevano fatto posto ad una persona in cima ad una scala che scriveva con pennello e vernice su un grande muro di lastre marmoree la fatidica frase “Viva Verdi.” Durante tutta l’ouverture i passanti in abiti ottocenteschi alla spicciolata si assiepavano a guardare incuriositi e partecipi, spalle al pubblico, l’opera del pittore patriota.

Chissà se allora era proprio così o se qualcuno non considerava quelle scritte solo vandalismo da parte di sfaccendati giovinastri come si fa oggi con i graffittari che colorano le nostre città.

La scelta di ambientare l’opera nel clima risorgimentale italiano da parte del regista Giancarlo del Monaco è stata del tutto legittima, anche al costo di qualche inevitabile compromesso che a volte ha reso faticosa la comprensione dell’intreccio ai meno esperti. Comunque, poco male, non è certo questo il problema. Il Nabucco viene sempre spacciato come l’opera che rivendica l’aspirazione alla libertà dalla schiavitù del nostro paese, sottomesso al giogo austriaco, ma spesso questa semplificazione risulta un errore di prospettiva perchè schiaccia tutta l’interpretazione sulla lotta per l’Indipendenza come fosse nient’altro che un dato acquisito, un traguardo del passato.

Nabucco, in realtà, è un’opera viva, di bruciante attualità che ci interroga e ci chiede ragione degli orrori del nostro tempo e perfino dei nostri comportamenti quotidiani di fronte all’ingiustizia, all’oppressione. Attraverso la sua opera immortale Giuseppe Verdi in persona ci chiede conto delle speranze disattese, dell’ipocrisia e della pusillanimità dei nostri giorni rispetto all’ingiustizia, ai soprusi e alle discriminazioni.

Queste tematiche assumono un significato del tutto particolare nella città di Trieste e nel suo prestigioso teatro. L’Italia, il Risorgimento, l’Irredentismo, e il nostro stesso futuro come popolo visto da piazza Unità d’Italia hanno una sfumatura del tutto diversa.

A pochi metri dal teatro Verdi, giusto dietro l’angolo, negli intervalli dell’opera, gli spettatori possono trovare lo storico locale che nel 1848 fu ribattezzato Caffè Tommaseo, in onore dello scrittore e patriota dalmata Niccolò Tommaseo. In quel periodo, questa caffetteria divenne un punto d’incontro per il Risorgimento italiano a Trieste. Una lapide commemorativa, posta dall’Istituto nazionale per la storia del Risorgimento recita:

«Da questo Caffè Tommaseo, nel 1848, centro del movimento nazionale, si diffuse la fiamma degli entusiasmi per la libertà italiana.»

Nella storica caffetteria c’è ora anche un banco per i pesciolini che però sono di cioccolato, perfette riproduzioni di sardelle nelle loro cassettine di polistirolo bianche proprio come ai mercati generali; non proprio autenticamente in tema con l’irredento patriottismo, ma di certo molto efficace scenograficamente, forse proprio come l’allestimento dell’opera verdiana di cui stiamo scrivendo in queste righe.

Verdi, quando mise in musica il libretto di Temistocle Solera, aveva in mente soprattutto i propri recenti lutti (moglie e figli) e alla politica ci pensava davvero poco.

Dopo il clamoroso insuccesso della sua seconda opera era stato ad un passo dall’abbandonare l’attività operistica per ritornarsene a Busseto a dirigere la banda comunale. Se non ci fosse stato l’impresario Barezzi a credere in lui e ad insistere, il mondo avrebbe perso uno dei suoi più grandi geni.

A riprova si ricordi che il dramma fu “Posto in musica e umilmente dedicato a S.A.R.I. La Serenissima Arciduchessa Adelaide d’Austria il 31 marzo 1842 da Giuseppe Verdi”. A posteriori è vero che il Nabucco assunse una valenza diversa eminentemente antiaustriaca, ma forzare così tanto le intenzioni del compositore sembra scorretto.

Per non parlare della vexata questio dell’Aria del “Va Pensiero” da sostituire all’Inno di Mameli cui Verdi sarebbe stato di certo contrario, basti riascoltare il suo “Suona la tromba (Inno popolare) composto proprio a partire da una poesia di Goffredo Mameli.

Parapà, parapà parappappà, fa l’orchestra e il coro dei figuranti si gira ed esplode nella sua invocazione con le mani levate al cielo.

In buona sostanza, nel primo quadro la trama racconta di Gerusalemme assediata dagli assiri di Nabucodonosor. Il popolo di Israele chiuso nel tempio di Salomone teme l’attacco imminente, il coro canta dolente: “Gli arredi festivi giù cadano infranti, il popol di Giuda di lutto s’ammanti! Ministro dell’ira del Nume sdegnato. Il rege d’Assiria su di noi già piombò, di barbare schiere l’atroce ululato nel santo delubro del Nume Tuonò!”

Tutti si stringono attorno al Gran Pontefice degli Ebrei, il saggio Zaccaria, interpretato in questo caso dal tonante basso Marko Mimica perfettamente calato nella sua parte. Quest’ultimo esorta il popolo a non disperare perchè ha un asso nella manica, ha rapito e tiene come ostaggio Fenena, la figlia minore del re invasore, l’ottima soprano Anna Goryachova ed è pronto a sacrificarla se non ci sarà una mediazione.

Sarà anche un’esagerazione, ma di questi tempi parlare di Israele, di una città assediata, di ostaggi sacrificabili, di un’invasione, di un popolo disperato, sembra che la storia si ripeta a parti inverse.

Lo si chiami pacifismo, lo si chiami velleitarismo, se ne dica quello che si vuole, nei fatti però a 76 anni dalla Nakba, la situazione nella Terrasanta dei figli di Abramo non sembra essere cambiata di molto, né per i nostri fratelli in Palestina e nemmeno per quelli in Israele. A guadagnarci ci sono solo i capopopolo arruffoni e assassini da una parte e dall’altra i commercianti di armi e quelli di casse da morto.

Della bella principessa Fenena è però innamorato Ismaele, nipote di Sedecia, Re di Gerusalemme, l’intonato tenore Carlo Ventre che è disposto a tutto pur di salvarla da chi vorrebbe vendicarsi del padre su di lei. Ismaele non teme nemmeno di oltraggiare il proprio popolo e di sembrare un traditore.

“Dalle genti sii reietto, dei fratelli traditore! Il tuo nome maledetto, fia l’obbrobrio d’ogni età – Oh fuggite il maledetto – Terra e cielo griderà!”

Sempre per associazione di idee, nei giorni delle repliche dell’opera, nei giardini, negli androni, nei cortili, tra i palazzi di Trieste erano in piena fioritura i cosiddetti alberi di Giuda (Cercis siliquastrum) una splendida pianta originaria della Giudea e oggi diffusa in tutto il bacino del Mediterraneo. La simbologia di questo albero è profondamente legata al primo cristianesimo che lo identifica con quello ai cui rami s’impiccò Giuda Iscariota dopo aver venduto per trenta denari nostro signore Gesù Cristo come raccontano i Vangeli, è il vero e proprio albero del tradimento cui dio regalò una struggente bellezza fiorita proprio per compensarne la tragica fatalità.

Anche questa è di certo una semplice coincidenza, ma stimola il cervello a fare collegamenti e costruire ponti tra le sponde di significato più impensabili.

A scompaginare ancor di più i piani di Ismaele e Fenena irrompe sulla scena Abigaille che si ritiene primogenita del re Assiro ed è innamorata del principe ebreo che la respinge. La soprano Maria Josè Siri dalla voce con ottime impostazioni tecniche e virtuosistiche veste in modo piuttosto impacciato i panni della tenebrosa principessa che rifiutata dall’amore si vota alla vendetta.

La generalessa Abigaille vestita come il maresciallo Radetzky, canta con qualche incertezza: “Io t’amava!…Il regno, il core pel tuo core io dato avrei! Una furia è questo amore vita o morte ei ti può dar. Ah1 se m’ami, anche potrei il tuo popolo salvar!”

Abigaille/Siri non sembra abbastanza imperiosa per minacciare, ha una gran voce ma una presenza scenica da operetta, con tutto il rispetto, quanto meno imbarazzante e comunque molto sotto alle aspettative. Sembrava un po’ una “commare”, ma non di quelle scaltre e burlone di Falstaff. Anche la voce sembrava a tratti mancarle, privata della giusta forza interpretativa anche se tecnicamente perfetta.

Anche nel dramma storico-biblico non poteva mancare la storia d’amore e potere che di certo non guasta e origina intrecci, passioni e drammi.

Con un ulteriore clamoroso colpo di scena, particolarmente sottolineato in questo allestimento, Nabucco, vestito da Cecco Beppe, che il baritono Burdenko interpreta meravigliosamente, con i suoi armati irrompe sulla scena. Dopo aver fatto crollare il muro del tempio, ritto sull’affusto di un cannone e non in groppa all’usuale cavallo, canta il suo trionfo:

“O vinti, il capo a terra! Il vincitor son io… Ben l’ho chiamato in guerra, Ma venne il vostro dio? Tema ha di me: resistermi. Stolti, chi mai potrà?”

Zaccaria punta il coltello alla gola di Fenena, Ismaele la difende “disarmando” il proprio stesso popolo di fronte al crudele invasore. E’ lui l’Empio che da il nome al secondo quadro del dramma.

Sul finire del primo quadro il dramma assume i toni della tragedia con Nabucco e Abigaille che minacciano lo sterminio degli ebrei:

Comincia il re Assiro: “(con gioia feroce) Mio furor, non più costretto. Fa dei vinti atroce scempio; (ai babilonesi) Saccheggiate, ardete il tempio. Fia delitto la pietà! Delle madri invano il petto scudo ai pargoli sarà.”

Abigaille rincalza: “Questo popol maledetto Sarà tolto dalla terra… Ma l’amor che mi fa guerra, Forse allor s’estinguerà?…Se del cor no ‘l può l’affetto. Pago l’odio almen sarà”.

Parole terribili che la musica di Verdi fa diventare enormi, profetiche e perfino apocalittiche.

Il seguito della vicenda è talmente noto che non serve nemmeno farne una sinossi.

Ritorneremo nella conclusione di queste righe sugli altri episodi notevoli di questa replica in particolare. In questo momento forse è più utile e di certo urgente far riferimento ad una notizia che circolava sui media triestini proprio nei giorni della replica che fornisce una diversa prospettiva interpretativa anche a chi è già convinto che il teatro musicale debba interagire e relazionarsi con la realtà quotidiana e il contesto nel quale è calato.

“Sono rimasta sconvolta, mi sono ritrovata ad Auschwitz o a Birkenau”, è il commento di Tatiana Bucci, sopravvissuta alla Shoah e testimone attiva degli orrori dell’olocausto, commentando la sua visita al Silos lo scorso dicembre. Tatiana e la sorella Andra sono state ricevute oggi dal sindaco Dipiazza in municipio e hanno affrontato alcuni temi d’attualità durante e a margine della conferenza stampa. “Non so che coraggio abbiamo – ha detto Tatiana Bucci parlando dei migranti accampati nella struttura di via Gioia – di far vivere così le persone che hanno scelto di fare un viaggio per lasciare il loro paese per avere una vita migliore. Mi auguro che sarà trovato un posto con un po’ di umanità dove potranno continuare a vivere e poi andarsene dove desiderano”. Il tema è stato affrontato perché le sorelle, dopo essere state arrestate dai nazisti a Fiume, a soli sei anni, sono state trattenute nella Risiera di San Sabba e poi deportate in Germania partendo in treno dal Silos. (Stefano Mattia Pribetti su Il Piccolo 29 marzo 2024)

Per chi non lo sapesse, in un fatiscente edificio in pieno centro della città giuliana, un tempo adibito a magazzino di granaglie (Silos) vivono da anni ammassati nelle peggiori condizioni possibili molti di quei migranti provenienti dalla rotta balcanica che Trieste non vuole accogliere e fa finta di non vedere. Sono loro che idealmente cantano ogni giorno:

“Oh mia patria si bella e perduta! Oh membranza si cara e fatal!”

e qualcuno di loro sicuramente risponde:

“Oh chi piange? Di femmine imbelli chi solleva lamenti all’Eterno? Oh sorgete, angosciati fratelli, sul mio labbro favella il Signor! Del futuro nel buio discerno…Ecco rotta l’indegna catena!…

In questo caso la crudele Babilonia siamo tutti noi e l’Assiro feroce è la nostra indifferenza.

Sempre nello stesso articolo si diceva anche: “Un altro tema ‘scottante’ è stato affrontato da Andra Bucci: “In Germania ci hanno chiesto scusa e il nostro sentimento verso i tedeschi è cambiato, ma purtroppo verso l’Italia qualche rancore ce l’abbiamo perché mai nessuno ha detto “eravamo dalla parte sbagliata”, perché “se noi siamo state prese è grazie al governo di Mussolini che c’era all’epoca”. Dai “nuovi fascisti” che “ci sono anche oggi al Governo – ha concluso la testimone della Shoah -, vorremmo sentire solo questa piccola cosa”.

A ognuno di noi spetta decidere da che parte stare, Giuseppe Verdi lo sapeva benissimo e lo espresse nelle sue meravigliose opere, ma anche nelle tante lettere, tra queste quella del 21 aprile 1848 piena d’entusiasmo per la rivoluzione nazionale italiana scritta al suo librettista Francesco Maria Piave volontario al fronte:

“Caro amico,

Figurati se io volevo restare a Parigi sentendo di una rivoluzione a Milano. Sono di là partito immediatamente sentita la notizia, ma non ho potuto vedere che queste stupende barricate. Onore a questi prodi! Onore a tutta l’Italia che in questo momento è veramente grande!

L’ora è suonata, siine pur persuaso, della sua liberazione. È il popolo che la vuole: e quando il popolo vuole non avvi potere assoluto che possa resistere. Potranno fare, potranno brigare finché vorranno quelli che vogliono essere a viva forza necessari ma non riusciranno a defraudare i diritti del popolo. Sì, sì, ancora pochi anni forse pochi mesi e l’Italia sarà libera, una e repubblicana. Cosa dovrebbe essere?

Tu mi parli di musica! Cosa ti passa per in corpo? Tu credi che io voglia occuparmi di note, di suoni? Non c’è né ci deve essere che una musica grata agli orecchi del Italiani del 1848. La musica del cannone! Io non scriverei una nota per tutto l’oro del mondo: ne avrei un rimorso immenso consumare della carta da musica, che è sì buona per far cartucce. Bravo mio Piave, bravi tutti i veneziani bandite ogni idea municipale, doniamoci tutti una mano fraterna e l’Italia diventerà ancora la prima nazione del mondo!”

Per concludere queste righe con una nota lieta è il caso di citare una curiosa, divertente situazione.

Durante l’intervallo un gattone bianco di peluche troneggiava sul leggio del direttore come scherzo degli orchestrali a Daniel Oren che durante le prove li richiamava con versi più adatti ai mici che a loro. L’innocuo vizietto del grande direttore si è fatto sentire anche durante la recita. Oltre a gesti molto atletici, ampi e piuttosto evidenti per non dire eccessivi, la sua direzione si fa notare proprio per i vocalizzi che emette accompagnando il coro o canticchiando le arie. Sia ben chiaro che non c’è alcun intento derisorio nei suoi confronti e anche se qui si tratta proprio di un’altra pasta d’uomo, anche Sergiu Celibidache aveva una conduzione piuttosto energica e plateale per usare un eufemismo, quindi niente di male e soprattutto nessuna novità.

Certo Oren è ben consapevole di essere piuttosto espansivo e molto volentieri si prende gli applausi a scena aperta dell’adorante pubblico triestino, interrompendo perfino l’esecuzione, oppure ripetendo trionfalmente l’aria del III atto “Va pensiero” come successe alla prima della Scala il 9 marzo 1842.
E’ vero che Oren sa tirare fuori il meglio dai propri orchestrali, ma è anche vero che gli piace molto farlo notare quasi si trattasse di una sua composizione, mentre Nabucodonosor è un opera di quel signore di Roncole (PR), la cui figura stava sulle banconote da mille lire, è bene ricordarlo in caso qualcuno preso da troppo entusiasmo se ne fosse dimenticato.

Lo scherzo del micione finisce presto quando il fagotto in disaccordo con i colleghi decide di sequestrare il pupazzo per richiamare tutti all’ordine e al decoro che il teatro impone. L’episodio è un perfetto esempio di Viz alla triestina, un motto di spirito simpatico sul quale anche Freud avrebbe qualcosa da dire.

Grandi applausi finali, forse un tantino eccessivi ma comunque meritati.

Flaviano Bosco / instArt 2024 ©