Grandissimo successo per uno spettacolo di circo contemporaneo a tratti anche molto denso di contenuti pensato per i più piccoli dai 6 ai 99 anni.

Inserito nella rassegna di Udine Città Teatro per le bambine e per i bambini, ideato da CSS Teatro stabile di innovazione del Fvg, lo spettacolo del Circo El Grito ha letteralmente sbancato il botteghino del Palamostre per un pomeriggio a teatro davvero avvincente nel quale i bambini non sono stati considerati come i soliti disturbatori irrequieti e ciarlieri, ma come parte integrante di un esperimento tra circo e letteratura. Al contrario di tanti pregiudizi che finiscono per tenerli lontani dal teatro, i bambini sono stati attentissimi partecipando alla narrazione, interagendo, immedesimandosi con gli attori, fino a farsi rapire dalle storie.

Nel giorno della befana e dei fuochi epifanici, vedere tanti bambini a teatro è un buon auspicio per l’anno appena iniziato che si è presentato nel modo peggiore.

Per contrappasso, il pensiero andava immediatamente al genocidio del popolo Palestinese e a tutti quei piccoli che per botti di capodanno hanno avuto bombe da 900 kg e che come regalo a Santa Claus hanno chiesto di morire per non soffrire più.

Il racconto della storia e della cultura dell’Italia contemporanea può essere declinata facilmente in chiave circense. Il tendone, il pubblico, gli animali, il domatore, l’illusionista, il trapezista, il funambolo e soprattutto i clown sono talmente insiti nel nostro immaginario che ogni cosa può assumere quella forma ai nostri occhi.

Il circo è metafora privilegiata non solo della condizione esistenziale di noi italiani, ma è parte essenziale della cultura europea. Giusto per fare qualche esempio significativo possiamo partire dal Grande digiunatore di Franz Kafka, per arrivare al leggendario circo Barnum, al Mago Houdini, ma anche al circo del West di Buffalo Bill e ancora alla maschera di Pierrot, L’ombra del dott. Caligari e l’espressionismo, Brecht, Les Enfants du Pardis di Carnè, ai Freaks di Browning, ma ancora i pagliacci di Fellini, di Bergman e tanti altri fino al Joker di Joaquin Phoenix.

Lo spettacolo “cucinato” e diretto da Giacomo Costantini, fondatore del Circo El Grito, si giovava di uno scritto di Wu Ming 2 (Giovanni Cattabriga) interpretato dallo stesso autore e della sonorizzazione dal vivo dell’eccezionale batterista e compositore Fabrizio “Cirro” Baioni.

A commento delle vicende narrate e degli equilibrismi del funambolo, le percussioni emergevano, spesso violentemente, dalle profondità di un continuo rumore elettrostatico, dalle arcane suggestioni. Wu Ming 2 leggeva mentre Costantini si esibiva in pericolose contorsioni brandendo armi da taglio di varia natura. Con fare da spaccone l’Uomo calamita faceva anche aderire al proprio corpo, posate e stoviglie e perfino un ferro da stiro che, novello Mesmer, parevano attratti dal suo corpo da una misteriosa forza magnetica. I soliti vecchi trucchi da saltimbanco che funzionano dal tempo che fu.

Sempre per restare all’ambito cinematografico, L’Uomo calamita come orizzonte narrativo è sembrato un ibrido tra “La Strada” di Federico Fellini con il fenomeno da baraccone Zampanò e un lungometraggio di Emir Kusturica (Underground, Gatto Nero, Gatto Bianco).

E’ una fantasia reggiana sui superpoteri di un funambolo zingaro antifascista e partigiano nella Seconda guerra mondiale, visto dalla fantasia degli occhietti stupiti e innamorati di Lena, una bambina di otto anni raccontata dal papà sopravvissuto ai rastrellamenti dei fascisti.

Della persecuzione degli zingari nell’Italia fascista manca ancora una documentazione scientificamente completa, molto resta ancora da scrivere. Le varie giornate della Memoria e del Ricordo assieme a quelle della Rimembranza e persino della Reminiscenza, colpevolmente, dimenticano il tributo di sangue estorto ai nostri fratelli di etnia Rom e Sinti, rastrellati, concentrati e avviati ai campi di sterminio dai sedicenti “patrioti” che vaneggiavano sulla pura “razza italica”.

Un breve articolo da “Il Manifesto” di Mario Di Vito (23.04.2021) fa il punto della situazione e riassume molti degli spunti che sono serviti a Wu Ming 2 per imbastire la sua storia che, come ha voluto precisare, è stata scritta a partire da qualcosa che si vede, altro che ci si fa raccontare, altro che s’inventa:

“Perseguitati tra i perseguitati, dimenticati tra i dimenticati. Le popolazioni romanì (rom, sinti, manush, kalè) hanno due nomi per indicare quello che è accaduto loro negli anni ’40 del Novecento: “Porrajamos” e “Samudaripen”, ovvero “grande divoramento” e “tutti uccisi”.

Era l’11 settembre del 1940 quando tutte le prefetture del Regno d’Italia ricevettero una circolare telegrafica del capo della polizia Arturo Bocchini: “Rastrellamento di tutti gli zingari”, era ordine da eseguire ovunque e nel minor tempo possibile. “Comportamenti antinazionali” e «implicazioni in gravi reati» erano le accuse. Solo qualche mese dopo, nell’aprile del 1941, il ministero dell’Interno diede qualche indicazione sul loro internamento e campi di prigionia furono costruiti ovunque, dall’Abruzzo alla Sardegna, dalle isole Tremiti alla Toscana e all’Emilia Romagna.

Era l’ultimo atto della politica fascista sulle comunità rom e sinti: prima, tra il 1922 e il 1938, l’ordine era quello di respingere alle frontiere i nomadi stranieri. Poi, tra il 1938 e il 1940, si cominciò con la pulizia etnica nelle regioni di confine e i trasferimenti coatti in Sardegna.

Sulla rivista «La difesa della razza» fioccavano articoli sulla «pericolosità sociale degli zingari». Con la circolare di Bocchini del 1940, la guerra alla «piaga zingara» arrivò ai rastrellamenti e alla reclusione.

A liberazione avvenuta, i sopravvissuti scopriranno di aver perso tutti i propri averi. Nessuno si preoccuperà mai di renderglieli o di rimborsarli in qualche modo. Dopo l’8 settembre del 1943, ad ogni modo, alcuni riuscirono a scappare dai campi dove erano reclusi e si unirono alla Resistenza.

È la storia, ad esempio, dei Leoni di Breda Solini, un battaglione attivo al confine tra l’Emilia e la Lombardia, completamente formato da sinti fuggiti dal campo di Prignano sulla Secchia, in provincia di Modena. La loro storia è stata custodita e raccontata da Giacomo «Gnugo» De Bar, sinto, di professione saltimbanco, come amava definirsi lui. Rastrellato e rinchiuso anche lui da bambino nel 1940, non ha mai dimenticato suo nonno Jean, contorsionista, e suo zio Rus, equilibrista, che di giorno si esibivano nelle piazze dell’Italia non ancora liberata e di notte si davano al sabotaggio dei tedeschi. Giravano a bordo di un camion e si occupavano per lo più di rubare armi da consegnare poi ai partigiani.

La fama (e il soprannome) di leoni se l’erano guadagnata sul campo grazie a un’azione in cui avevano disarmato una pattuglia del Reich. «Erano entrati nel cuore della gente come eroi, anche per il fatto che usavano la violenza il minimo necessario – racconta Gnugo De Bar nel suo libro «Strada, Patria Sinta» (Fatatrac, 1998) – fra noi sinti non è mai esistita la volontà della guerra, l’istinto di uccidere un uomo solo perché è un nemico…

Fatti come questi non è facile sentirli raccontare: la memoria del Porrajmos e della resistenza dei romanì è sempre stata un filo sottile, quasi invisibile. In teoria nel 2015 il parlamento europeo ha stabilito che il 2 agosto è la Giornata dedicata alle vittime del genocidio rom, ma in pratica la ricorrenza viene celebrata a singhiozzo dai vari paesi. In Italia la commemorazione è il 27 gennaio, Giorno della Memoria…”

Nello spettacolo mentre l’illusionista Costantini si esibiva nei suoi giochi da fachiro strapaesano, si dipanava il garbuglio delle avventure dell’uomo calamita, che interpretava, partigiano alla macchia che scompariva e riappariva come ogni buon illusionista per ammazzare fascisti e nazisti.

Wu Ming 2 nelle vesti del padre della piccola Lena ci raccontava con una vocina simpaticamente querula, che era diventato il bandito più ricercato della zona, tanto che la gente lo considerava come una sorta di vendicatore dei poveri cominciando a favoleggiare su di lui e sugli zingari della brigata partigiana Leoni alla quale si era aggregato per parlare la lingua universale dei colpi di fucile.

In scena, d’un tratto, appariva strana e pericolosa, la macchina “ammazza fascisti” tutta piena di tubi, che sembrava un delirio cyberpunk, con cui l’uomo calamita tornava a riprendersi il tendone del circo sequestrato dai manigoldi in camicia nera.

In realtà si trattava di una strana armatura spara musica, collegata a due diamoniche azionate da mantici sotto ciascun piede. L’effetto era davvero straniante e retrofuturista. Lo strano Frankenstein a clavietta suonava una canzone con Wu Ming 2 al flauto e la ritmica battente di Cirro, in un paradigmatico trio come solo al circo si può vedere.

Costantini ha suonato con strabiliante destrezza anche facendo roteare delle bolas che colpivano ritmicamente le assi del palcoscenico con “effetto flamenco”. Allo stesso modo suonava anche una sorta di enorme xilofono posato a terra colpendolo con una precisione incredibile.

Tra i tanti giochi di prestigio che hanno deliziato il pubblico di grandi e piccini, anche una sorta di “gioco dei quattro bussolotti” con affilato coltello: con l’aiuto di una ignara spettatrice, l’uomo calamita calava casualmente la mano su uno dei quattro contenitori di cartone che poteva nascondere una pericolosa lama. Naturalmente tanta suspense con musica e luci tenebrose manovrate sapientemente da Domenico Mimmo De Vita e, infine, dopo “tanta paura” il trucco immancabilmente riusciva.

Gran finale con la classica “La pagoda della Tortura cinese” del grande Henry Houdini, mago dell’impossibile. Manette, torture, apnea per vent’anni è la metafora del fascismo

Costantini, ammanettato e con i piedi costretti in una gogna, a testa in giù in una stretta vasca trasparente piena d’acqua con una musica angosciante in sottofondo e tutta una snervante preparazione, nascosto dal segreto di un drappo rosso, prima sembra che non potesse funzionare, poi che fosse impossibile e che non ce l’avrebbe fatta mai; alla fine per un tempo che sembra infinito tutto restava sospeso, in conclusione, come da copione, quando perduta sembrava la speranza dell’altezza, usciva sano e salvo e “liberato”.

La solita illusione che però in quel contesto diventava metafora della condizione degli oppressi che sotto il giogo del ventennio fascista era fatto di manette, catene, prigioni, torture dell’acqua a testa in giù e molto altro.

Dopo tanta destrezza e tante avventure, la storia ci diceva che L’uomo calamita fù impiccato dai fascisti ad un lampione per rappresaglia e la piccola Lena moriva per una malaugurata polmonite giusto alla fine della guerra e di tanti patimenti.

Lo spettacolo così finiva tra applausi, inchini e ringraziamenti mente riecheggiava la canzone della resistenza anarchica di Belgrado Pedrini e Paola Nicolazzi, Il Galeone, tanto per ricordarci chi ci crediamo e chi, invece, dovremmo sforzarci di essere:

“Siamo la ciurma anemica d’una galera infame su cui ratta la morte miete per lenta fame…Su schiavi all’armi all’armi! Pugnam col braccio forte! Giuriam giuriam giustizia! O libertà o morte! Giuriam giuriam giustizia! O libertà o morte!

Flaviano Bosco / instArt 2024 ©