Gli spaventosi giorni d’odio e di terrore che stiamo vivendo con la recrudescenza del conflitto in Palestina e il ritorno di coloro che credono nei muri, nei confini e nelle armi come strumenti di risoluzione dei conflitti, ci spingono a riflettere su quale sia il modo più giusto ed efficace per scongiurare tutta questa insensatezza e crudeltà. Come possiamo dare la nostra testimonianza perchè la pace e la giustizia trionfino sull’oscenità della guerra? In realtà non abbiamo moltissime alternative se non quella di dire no con forza all’indifferenza e all’ipocrisia che ci rendono tutti complici del più orrendo fratricidio di massa della storia dell’uomo.
Potrà sembrare paradossale e inane, ma camminare e cantare con cuore puro ci può davvero mettere sul sentiero dell’autentico incontro con l’altro che significa accoglienza e amore per i nostri fratelli.
Nel 2016 in Palestina donne ebree e arabe palestinesi si unirono in un sogno di pace chiamato “March of Hope”, migliaia di donne marciarono dal Nord di Israele a Gerusalemme in un appello per la pace che culminò in una manifestazione di 15.000 donne, madri, figlie, sorelle palestinesi e ebree, insieme davanti alla casa dei Ministri nella capitale. La canzone “Prayer of the Mothers” interpretata dalla cantautrice israeliana Yael Deckelbaum e un gruppo di donne che la politica criminale vorrebbe nemiche testimonia la volontà di riconciliazione e fratellanza che permea tanta parte di quei popoli, che per beceri e crudeli calcoli politici, sono tenuti nell’indigenza e nell’ignoranza del terrore.
Tra le altre cose la canzone dice:
“I muri della paura un giorno si scioglieranno. E torneremo dall’esilio. Le mie porte si apriranno a ciò che è veramente buono.
Da Nord a Sud, da Ovest a Est, ascolta la preghiera delle madri, porta loro la Pace. La luce sta sorgendo dall’Oriente, fino alla preghiera delle Madri per la pace.”
Di altra natura ma animato dalla stessa luce di speranza e volontà di pace è il Cammino delle Pievi, un percorso ad anello in venti tappe per circa 260 km che, tra sentieri di bassa montagna e alpini, ripercorre le vie delle pievi e dei santuari della Carnia. Camminare è di per se un atto catartico che induce la riflessione e la ricerca di armonia.
Non sono solo pietre le pievi della Carnia, siedono sopra antiche torri d’avvistamento e fortificazioni e non hanno perso la loro funzione di sentinelle che scrutano nel futuro e nei cuori, testimoni silenziose che tramandando una memoria e una tradizione che origina dalle profondità del tempo e traguarda le voragini del cielo.
L’antica pieve di Illegio fa parte della prima tappa del Cammino, chi si impegna ad andare fin lassù viene ricompensato con un’incredibile vista dominante sulle Valli del But e del Tagliamento.
Dall’abitato di Illegio, proprio di fianco al cimitero dove riposano le fatiche di tanti, un piccolo sentiero scende ripido fino al torrente sottostante, guadato il quale s’inerpica fino al Santuario; ci si arriva in poco meno di un’ora per chi ci sa fare, per tutti gli altri le preghiere e alcune soste giovano molto.
La Pieve di Illegio guarda quella di Santa Maria Oltrebut e di San Pietro, nel breve spazio di un giro d’orizzonte la sua storia guarda anche dentro ognuno di noi e non è una questione solo religiosa. Il senso del sacro, la devozione delle genti verso i luoghi della fede, le campane che risuonano nelle valli, l’occhio che scruta lungo il corso del fiume, i fianchi delle montagne sono tutte emozioni che scavano nel profondo del nostro animo, proprio là dove vive lo spirito che da un senso al nostro vagare.
Salire verso sera è uno spettacolo meraviglioso con il sole che gioca a nascondersi dietro le montagne fiammeggiando sulle valli prima che cali l’oscurità.
Il 27 agosto scorso, nell’ambito della manifestazione “La lunga notte delle Pievi in Carnia” che ha unito i sentieri della spiritualità alla musica e all’arte, al Santuario di San Floriano i pellegrini hanno avuto l’opportunità di vivere un’autentica esperienza di ascesi e di profonda emozione grazie al canto di quattro artiste eccezionali per talento e bravura: Juliana Azevedo, Caterina De Biaggio, Laura Giavon, Alba Nacinovich, in arte “Anutis”.
Il Maestro Cristiano Dell’Oste, direttore artistico della manifestazione e molto altro, nella sua brevissima introduzione ha parlato di quella che si prospettava un’esperienza unica di grande intensità veicolata da quattro voci assolutamente straordinarie; non si è espresso proprio in questi termini, ma il senso era chiaro ed aveva assolutamente ragione.
Le voci hanno cominciato a chiamare dalla cantoria alle spalle dei fedeli ed era un canto ammaliante di sirena che spingeva ognuno ad ascoltare la propria voce interiore che si manifestava attraverso le emozioni più indescrivibili.
Dalla cantoria sono scese passando al centro della piccola navata per raggiungere l’altare, mettendosi l’una di fronte all’altra: “Exaudite Cristus…Cristus regnat”.
L’emozione era talmente intensa da lasciare tramortiti, ci si sentiva davvero quasi venir meno.
Alla luce delle candele, ognuno dei presenti è stato trasportato di colpo verso un’inaudita dimensione; si è trattato propriamente di ascesi, un’esperienza talmente estatica di beatitudine e di altezza da far persino paura e vertigine.
La vibrazione continua di una campana tibetana posta al centro tra le cantanti induceva e guidava una sorta di trance meditativa.
Nel programma di sala si poteva leggere che “Anutis è un progetto internazionale (Italia, Croazia, Portogallo) nato nell’estate del 2022 grazie all’incontro speciale con Giovanna Marini, che con grande generosità le ha guidate nella scoperta della sua musica e della tradizione popolare del territorio italiano”.
Già solo questo esergo ci fa capire quanto prezioso, impegnativo e straordinariamente fecondo possa essere il loro lavoro. Il rapporto con Giovanna Marini, l’etnomusicologa e l’artista che sta ancora lasciando un segno profondo nella storia della musica e della cultura italiana, può essere considerato quasi come un passaggio di testimone tra la massima custode ed esegeta della cultura folklorica non solo italiana e quattro giovani cuori che hanno trovato modo, attraverso la musica, di esprimere e condividere l’accordo fondamentale che c’è tra loro e che può essere indicato con il termine Agape nell’autentica accezione cristiana di Caritas che è lo slancio, l’entusiasmo dell’amore più assoluto, disinteressato e luminoso.
E’ un sentimento universale che ognuno può condividere e percepire. E’ l’unione spirituale, la forza generativa che ci fa sentire vivi e parte di quella grande famiglia che comprende ogni cosa che è.
Non importa se la chiamiamo Creazione, Natura o Caso, la cosa veramente fondamentale è saper riconoscere lo spirito di unità e fratellanza che ci unisce e da un senso compiuto alle nostre esistenze. Sono la fede, la poesia e la musica gli stumenti principali che la Grazia ci indica per cercare di comprendere, o quanto meno intuire, il fitto mistero nel quale brancoliamo. In ogni luogo è tenebra, ma nel nostro cuore è nascosta una scintilla che può rischiarare la notte più buia.
Le voci delle quattro Anutis sono fuoco per noi tutti. Prima che la piccola navata fosse riempita dai “pellegrini” che dal paese erano saliti attraverso il bosco alla Pieve, una di loro ha religiosamente acceso le candele attorno all’altare, regalando a chi la osservava un’anticipazione simbolica del concerto che sarebbe seguito. Nell’aura crepuscolare che avvolgeva il luogo, il chiarore crescente delle candele votive e liturgiche preparava il sentiero per la ritrovata luce interiore che la musica, di lì a poco, avrebbe vivificato.
Ancora dal programma di sala veniamo a sapere che “La ricerca vocale, date le eterogenee estrazioni musicali delle componenti (dalla classica al jazz, passando per il Fado, la canzone napoletana, l’improvvisazione libera e la musica antica) non preclude alcuna scelta stilistica, ma vuole incontrare le diverse forme musicali partendo da un suono unico, terreno che richiama a un passato che ci riguarda tutti da vicino”.
In questo senso il loro eclettismo non va per nulla inteso come eccentrico vagare “fior da fiore” tra le gemme della vocalità e della musica, anche se quello che stilla dalle loro corde vocali è purissimo miele e ambrosia, ma come un’unitaria volontà di comprendere ogni forma e colore nell’arazzo di emozioni che vanno tessendo tra loro e con chi le sa ascoltare.
Qualche parola va spesa anche sulla loro educazione musicale perché quello che si percepisce immediatamente è anche la loro grandissima preparazione e attenzione ad ogni dettaglio espressivo, niente è lasciato al caso, la loro formazione è assolutamente solida ed ognuna di loro ha la perfetta consapevolezza del linguaggio poetico e artistico che sta utilizzando e dell’opera che materializza con il suo vocalizzo.
Molto spesso, al contrario, chi s’impegna, anche con discreti risultati, nel cantare il medesimo repertorio pecca d’improvvisazione ed eccesso di buona volontà.
Le “Anutis” sanno bene che non è sufficiente possedere il talento per raggiungere le vertiginose altezze cui anelano. Soprattutto uno strumento come la voce non attiene solamente alle caratteristiche fisiche e nemmeno all’inesausto esercizio che di certo sono importantissimi, ma non sufficienti. E’ anche vero che l’emissione vocale riguarda tutto il corpo, non solo la laringe e le vibrazioni delle corde vocali, ma anche i muscoli addominali e dorsali, la cassa toracica, i polmoni e poi ancora la lingua, il palato, la cavità orale e nasale, la faringe.
Tutto questo però non avrebbe alcuna reale risonanza se la vibrazione emessa dalla cavità orale non concordasse e fosse spinta da quella forza interiore che non appartiene alla dimensione materiale e fisica, ma ad un mistero più profondo che è chiuso in noi e che solo pochissimi veri artisti sono in grado di esprimere.
Le quattro meravigliose ragazze condividono il segreto che le loro voci fanno percepire senza mai svelare del tutto, perchè l’enigma che ci abita è destinato a rivelarsi solamente sotto forma di Bellezza e Mistero, tanto ci deve bastare.
Hanno accarezzato così l’anima dei presenti le laudi di Hildegard von Bingen: “O quam preciosa o quanto è preziosa la purezza di questa vergine che ha una porta chiusa e nelle cui viscere la santa divinità si diffuse con il suo calore sicché in lei crebbe un fiore…e così il dolce germoglio…aprì la porta del paradiso”.
Ha fatto vibrare i secoli il Discanto aquileiese, Submersus Jacet Pharao. Il discantus è sia un genere di musica vocale sacra sia un preciso procedimento polifonico che si distingue dal canone gregoriano. Gli studi di Gilberto Pressacco hanno dimostrato ampiamente che il discanto aquileiese è tra le forme vocali più antiche documentabili non solo nell’antico Patriarcato, ma nell’intera area mediterranea.
Sempre della nostra tradizione più remota, ma indiscutibilmente viva fanno parte anche le Laude dalmatiche: Laudes Regiae, le litanie per il re che prendono le mosse da particolari litanie cantate in occasione delle incoronazioni regie tra il VIII e il XII sec. che venivano eseguite anche nelle principali solennità liturgiche.
Di incredibile importanza per riconoscere l’unità culturale, religiosa e spirituale delle nostre antiche genti il Canto glagolitico dell’Isola di Pago, “Vsa lipa jesi”. Nel IX sec. i missionari Cirillo e Metodio, al fine di tradurre in segni scritti i fonemi delle lingue paleoslave che non avevano ancora scrittura, codificarono un nuovo alfabeto attraverso il quale ci sono giunti anche alcuni canti di quei nostri fratelli perduti nei secoli.
Le “Anutis” hanno anche intonato canti della tradizione religiosa e liturgica tipici della Carnia (Dies Irae, Tantum Ergo, Ce mai sarà) in latino e in lingua friulana, dando forma e colori ad una religiosità popolare, semplice e salda, come le montagne più massicce.
Le quattro sono sembrate incarnare, tra meditazione e spiritualità, le Grandi Madri (Mater dolorose) che, secondo la studiosa Marija Gimbutas, hanno generato il visibile. Forse è stata solo un’impressione ma le potenti energie che s’incanalano fino a sfociare sgorgando nelle loro voci sono di certo vicine ai luoghi dell’eterno.
“Salve Gran Regina su noi di Illegio stendi il tuo grande manto. Salve Grande Vergine.
Per non essere tacciati di eccessiva enfasi e magniloquenza è necessario per concludere anche una nota più leggera. Durante l’esibizione, dal fondo del piccolo presbiterio dominato dal prezioso altare di Gian Domenico da Tolmezzo scolpito nel 1492, ha fatto capolino anche un topolino. Incuriosito e forse attratto da tanta meraviglia si è diretto verso le voci flautate, rapito dalla musica, solo all’ultimo istante deve essersi accorto dei tanti presenti in ascolto, con tutta calma è ritornato sui suoi passi per godersi il concerto in un luogo più defilato e sicuro.
A qualcuno dei presenti dalla mente vagabonda è subito venuto in mente un fantastico racconto di Franz Kafka, proprio dove dice:
“La nostra cantante si chiama Josefine. Chi non l’ha udita ignora il potere del canto. Non c’è alcuno che il suo canto non trascini, ciò che vale anche di più al momento che la nostra specie solitamente non ama la musica. La tranquillità del silenzio è la musica che noi preferiamo; la nostra vita è difficile, anche se abbiamo fatto lo sforzo di liberarci per una volta di ogni cruccio quotidiano, non sappiamo più elevarci a quanto è tanto lontano, come la musica, dalla nostra vita. Tuttavia non ce ne lagniamo molto; non arriviamo neanche a questo; una certa furbizia pratica, che però ci serve senza dubbio in sommo grado, noi la poniamo come nostra massima virtù, e cerchiamo di confortarci soprattutto con il sorriso di tal furbizia, e se una volta dovessimo avere desiderio della felicità, ciò del resto non accade, esso deriva dalla musica. Solo Josefine è differente; lei ama la musica…”
Da quei giorni di fine estate le nostre quattro Josefine hanno fatto molte cose, tra le ultime un’applauditissima esibizione alla manifestazione Suns Europe di Udine qualche giorno fa (14/10).
E’ ormai chiaro che il loro futuro sarà un lungo sentiero luminoso di gioia e di condivisione. Viva lis Anutis!
© Flaviano Bosco – instArt 2023