Lo ammetto: mi risulta molto difficile scrivere in maniera equilibrata di “Slava’s SnowShow”: ne rimasi incantato già quando lo vidi la prima volta, quasi dieci anni fa (nel 2014, se non ricordo male) sempre sul palco del Politeama Rossetti. Quella volta non sapevo ancora a cosa avrei assistito e scoprirlo fu un’incredibile meraviglia: quasi due ore in bilico tra poesia e magia, capaci di stregare non solo i bambini ma anche gli adulti, riportandoli a quelle sensazioni di meraviglia e sbalordimento tipiche della fanciullezza e che troppo spesso -ahimé- dimentichiamo una volta cresciuti, convinti che “fare i grandi” implichi il tagliare dalla nostra vita quella parte bambina che ha invece ancora voglia di gioire e farsi brillare gli occhi.
Facile quindi descrivere il mio entusiasmo nel rivederlo di nuovo in cartellone qualche anno fa: peccato che il Covid -e le restrizioni che per due anni hanno duramente piegato il mondo dello spettacolo- abbia costretto a posticipare il nuovo abbraccio tra Slava e il pubblico di Trieste. Ma come sempre le belle cose alla fine arrivano, e finalmente in questi giorni la neve speziata di magia del “miglior clown del mondo” ha potuto di nuovo invadere placo e platea del Politeama tergestino.
Da dove iniziare, per non essere inutilmente ridondante nel parlare di magia, poesia, meraviglia? Meglio forse lasciare la parola a Slava stesso, che nel parlare della genesi e storia del suo SnowShow ha detto questo: “Un giorno ho capito che volevo creare uno spettacolo che ci riportasse ai nostri sogni d’infanzia; uno spettacolo che aiutasse gli spettatori a uscire dal carcere dell’età adulta e a riscoprire la loro infanzia dimenticata. Avendo scelto la strada del teatro, ho cercato un modo per dotarlo di un nuovo spirito”.
Si può solo dire: missione compiuta appieno. Perché è esattamente ciò che Assissiai e la combriccola di clown dal cappello con gli orecchioni riescono a fare con le loro smorfie e i loro gesti rallentati e sospesi: togliere dalle spalle del pubblico adulto il ritmo assillante, frenetico e deumanizzante in cui viviamo, quello dell’essere sempre efficienti e proattivi; far rallentare il respiro e la mente, e iniziare ad apprezzare la lentezza e il minimalismo dei gesti. Sempre nelle parole di Slava, “cominciai a rallentare il mio ritmo, a valorizzare gesti insignificanti che ora mi sembravano molto più espressivi e coloriti di quelli pomposi e solenni. Mi sono affezionato a gesti non finiti, interrotti, congelati, come interrotti da un pensiero improvviso”.
Forse è per questo che nel suo SnowShow niente, nessun movimento o smorfia, sembra di troppo o fuori posto: tutto è esattamente dove deve essere e ogni cambio di ritmo, ogni momento in cui vengono portate all’estremo o la frenesia o la lentezza ha il suo senso e sa lasciare grandi emozioni.
Ottimo esempio è la scena del cappotto appeso, che con le lunghe e lentissime camminate dalla valigia all’attaccapanni rallenta così tanto i tempi da rendere palpabile la tristezza e il dolore dell’appendere un cappotto solo per avere qualcuno che voglia salutarti prima che tu parta. Che nella malinconia dell’abbraccio di Assissiai al pezzo di stoffa, nel languido abbandono che il clown si concede al suo stesso braccio infilato nella manica parla di affetti mai avuti, di voglia di sentirsi amati, del dover contare solo su sé stessi. Ma che lascia un’improvvisa nota di amara dolcezza in quella manica che -lontana e non più controllata dal clown- si alza da sola in un ultimo saluto. Due soli gesti in un mare di movimenti dilatati, un abbraccio e una manica che si alza: ed è impossibile non ritrovarsi con gli occhi lucidi.
Altro elogio della lentezza è il numero del pallone fatto rimbalzare con un’asticella: semplicemente superlativo il “nuovo” Assissiai, che nel muoversi come se tutto fosse al rallentatore fa dubitare del naturale scorrere del tempo, tanto che in platea lo spettatore inizia a muovere un braccio per verificare che il mondo non abbia di colpo rallentato per davvero.
Per chiarire: non mancano i numeri movimentati, in cui fanno la parte del leone gli altri clown, dal vestito verde e il largo cappello che pare avere due grandi orecchione dritte. Perfetti contraltare della delicatezza di Assissiai, è proprio da questo loro essere ai poli opposti che nascono le deliziose e buffe interazioni tra loro, che sanno mostrare sempre un’affettuosa complicità. E che trasforma in emozioni (di allegria o di tenerezza) anche piccole gag che in altri ambiti sarebbero definite “solo” comiche ma che qui assumono un sapore diverso e sempre venato di delicatezza: un piccolo palloncino fluttuante portato al guinzaglio come un cagnolino, o un clown-squalo che si lancia sul palco su una tavola a rotelle e con una pinna sulla schiena, giusto per citarne due.
Altra grande caratteristica del piccolo capolavoro di Slava è l’interazione col pubblico, e anche la serata al Rossetti non ha fatto eccezione: tra enormi ragnatele calate sul pubblico, invasioni della platea da parte dei clown verdi a spruzzare acqua tutto attorno a loro, applausi e urla del pubblico comandate in intensità dal palco come da dei provetti direttori d’orchestra, una platea entusiasta ha accolto tutti gli inviti a partecipare. Per finire -ancora intontiti dalla bufera di neve che travolge Assissiai e il pubblico tutto- con i palloni giganti lanciati sugli spettatori al termine dello spettacolo, momento in cui anche chi ha tentato per quasi due ore di resistere a sé stesso ripetendosi “sono un adulto, non mi emoziono per queste cose” è costretto a capitolare, alzarsi e cercare di raggiungere (magari con un saltino) quelle sfere galleggianti prima degli altri spettatori, per contribuire al loro continuo saltellio da una zona all’altra di una platea in festa. Non so quanto tempo sia passato ieri sera prima che i clown abbiano iniziato gentilmente a reindirizzare i palloni verso il palco, non ne ho tenuto conto perché ero troppo impegnato a cercare anch’io di accarezzare le sfere ogni volta in cui si avvicinavano alla mia zona, ma di certo non meno di 15-20 minuti. Quel che so è che in quel tempo guardandomi attorno ho visto tanti, tantissimi sorrisi: di bambini che facevano a gara con gli amici a chi toccava i palloni più volte, di coppie che alzavano le loro mani all’unisono e poi si guardavano con rinnovato amore, di anziani che avevano negli occhi (e nelle schiene, visto il dinamismo improvvisamente riacquistato) cinquanta o sessant’anni di meno. Basterebbe questo per augurarsi che lo SnowShow rimanga sui palchi per altri non trenta ma trecento anni. Perché è più che un capolavoro: è un atto d’amore di Slava verso tutto il suo pubblico.
Luca Valenta /©Instart