Jesolo d’inverno, con le sue radici d’acciaio, cemento e vetro, con il suo mare limaccioso e il cielo cupo e freddo, è stato lo scenario ideale per una serata che molti ricorderanno a lungo, sia i tanti Rude Boys nostrani con le loro coppole e le lunghe barbe, sia le giovanissime in top e septum o ancora le vecchie teste pelate antifasciste con i loro anfibi e il loro ventre da atleti del luppolo.
Tutta bella gente con una gran voglia di divertirsi, stare insieme, saltare e pogare; l’enorme palazzo del turismo della città balneare ne era pieno per tre quarti ed era un gran bel vedere già prima dell’inizio del concerto, anche perché l’efficientissima organizzazione di Azalea promotion ha garantito, come d’abitudine, le migliori condizioni per la riuscita dello spettacolo, con la gentilezza di un fiore e la forza di un’oliata macchina da guerra “spara-concerti”.
La locandina recitava: Jesolo Punk Festival 2023: Dropkick Murphys (unica data italiana) + Pennywise e ce n’era già abbastanza per destare l’attenzione degli appassionati e fargli venire la voglia irresistibile di assistere ad un concerto “Monstre” da manuale di storia della musica: dall’Hardcore punk californiano più autentico al Celtic Folk Punk della band più irlandese che ci sia nello State of Massachussetts.
Già questa era una promessa di fuochi d’artificio rock’n’roll alla quale si sono aggiunti gli ottimi rockers australiani The Rumjacks e il ruvido cantautore Jesse Ahern, per un totale di quasi cinque ore di spettacolo, una vera e propria abbuffata di suoni taglienti e ritmi forsennati.
Chi però avesse ancora un’idea superficiale del punk come ludico caos del disimpegno non ha capito proprio niente del suo vero significato originario e attuale.
Se il movimento nasce ufficialmente con la più grande truffa del Rock’n’Roll, ha avuto sempre radici ben salde nel sottoproletariato urbano delle periferie del mondo, da Londra a Hermosa Beach e perfino a Pordenone.
L’ultimo album di studio dei Dropkick Murphys, il sedicesimo di una strepitosa carriera, si chiama non a caso: “This Machine Still Kills Fascists” con evidente riferimento ed ispirazione alla figura e all’opera di Woody Guthrie.
In questo senso, il punk nelle sue tante ramificazioni, specie e sottogeneri, può essere considerato come un rigurgito anti-capitalistico generato da un’insofferenza cronica per l’autoritarismo delle istituzioni della società borghese; anche se sono passati quattro decenni dalle sue prime dinamitarde irruzioni nel mondo della musica, il suo spirito più autentico non è morto proprio per niente (Punk’s not dead) e continua a sputare tutta la sua rabbia anche perché i meccanismi di sfruttamento del potere e la prevaricazione dei padroni ricchi sulla working class non sono per nulla scomparsi ma, al contrario, sono diventati sempre più pervasivi e maligni.
Un brano dei Dropkick Murphys dedicato ai lavoratori d’ogni tempo inizia così:
“Yeah, this one’s for workers who toil night and day, by hand by brain to earn your pay, who for centuries long past for no more than your bread, have bled for your conutries and counted your dead. In the factories and mills, in the shipyards and mines…”
Non siamo molto lontani da quello che cantava Pietrangeli nel 1966:
“Compagni, dai campi e dalle officine prendete la falce, portate il martello, scendete giù in piazza. Picchiate con quello, scendete giù in piazza, affossate il sistema…”
Quello che è cambiato sono le chitarre affilate che sferzano, i tamburi che picchiano su ritmi forsennati e i cori a squarciagola, ma la voglia di combattere è la medesima e i pugni, le mani e i martelli sono sempre gli stessi.
Jesse Ahern, (chitarra e voce) Si parte d’un botto, puntualissimi, con un chitarrista “One man Band” con tanto di armonica a bocca e aggeggio elettronico che sostituisce l’antica grancassa a pedale o sonagli e tamburelli vari. Ahern si fa notare subito per il piglio virile e la voce roboante e maschia da vero duro e sia detto senza alcuna ironia. Suona un folk traditional riarrangiato alla violenza dei nostri tempi; è grezzo e rude, il suo sound non è quello originato negli Appalachi come da tradizione ma suburbano al sapore di sabbia e asfalto fino al lontano orizzonte. Come recita il suo motto è un vero: Rock’n’Roll Rebel. In primavera uscirà il suo primo lavoro per l’etichetta dei Dropkick Murphys che conterrà i brani promossi in questo tour che lasciano davvero ben sperare per il futuro.
Gli è bastato battere le assi con il piede perché il pubblico seguisse il suo ritmo con il battimani, c’era una grande elettricità nell’aria e tutti non aspettavano altro che essere incitati. Ahern è di certo uno che ci sa fare, aprire da solo un concerto del genere, quasi ogni sera, per un pubblico che non è mai il suo non è per niente facile eppure è riuscito meritatamente a farsi applaudire.
The Rumjacks (Mike Rivkees, Johnny McKelvey, Gabriel Witbourne, Adam Kenny, Pietro Della Sala) fondata nel 2008, forte di 5 album in studio e di due live ufficiali, la band Celtic Punk australiana ha all’attivo centinaia di concerti in giro per il mondo, molto spesso come spalla dei loro maestri e punto di riferimento, i Dropkick Murphys dai quali si distinguono solamente per un atteggiamento più grezzo e verace.
L’hard rock australe ha radici profonde in Europa ma ha saputo sviluppare un atteggiamento proprio che lo connota e lo rende immediatamente riconoscibile per suoni ed energia. Ben prima della prima ondata punk della fine degli anni ’70 e di tutto quello che ne è seguito, la terra dei canguri poteva vantare una scena di rock aggressivo piuttosto strutturata. Naturalmente il primo nome che viene in mente è quello degli inossidabili Ac/Dc, ma ce ne sono molti altri, così come esiste una scena punk rock ancora molto viva.
The Rumjacks riassumono questa tradizione in uno show elettrizzante e veloce che non cade mai nello scontato di riff e ritornello e sa rimanere divertente dall’inizio alla fine. Hanno anche saputo interagire molto con il pubblico in un volgarissimo italiano che di certo non avevano imparato dalle suore. Il pubblico di Jesolo sembra aver gradito molto anche perché carico a mitraglia come i cannoni delle navi pirata; davanti al palco, infatti, si cominciava già a pogare seriamente aspettando i grandi calibri della serata che puntualmente sono arrivati.
Pennywise: (Jim Lindberg, Fletcher Dragge, Randy Bradbury, Byron McMackin) A Hermosa Beach in California nacquero storiche band come i Black Flag, The Descendants, The Circle Jerks e per l’appunto nel 1988 i “pagliacci” più tosti e rudi dell’hardcore mondiale. I Pennywise da trentacinque anni rappresentano degnamente il suono di un’epoca intera e sono riconosciuti nel mondo come i migliori epigoni dell’hardcore punk americano che tanto ha dato al mondo della musica dura, veloce e anticonvenzionale e, naturalmente, al divertimento di milioni di persone in giro per il mondo.
Forse il gruppo è meno conosciuto al grande pubblico dei Suicidal Tendencies, Misfits, Offspring ma conserva uno spiritaccio anarchico e autenticamente stradaiolo che li distingue. Brani come “I’don’t care” “Society”, “Pennywise” e soprattutto “Fuck Authority” restano intramontabili e iconici; infatti, hanno fatto impazzire il pubblico di Jesolo che ha pogato come nelle più grandi occasioni senza risparmiare una goccia di sudore.
Proprio eseguendo il brano che incita a “fottere l’autorità” che li ha resi famosi in tutto il mondo, i componenti del gruppo californiano hanno dimostrato quanto alla lettera prendano i messaggi che urlano nelle loro travolgenti canzoni. Matteo, un ragazzo di Bergamo, lanciato dal pubblico, è volato sul palco per cantare con loro; non solo la “sicurezza” non lo ha allontanato, ma il colossale chitarrista della band lo ha accolto con gioia e gli ha fornito perfino una chitarra. Eseguiti due pezzi con un entusiasmo contagioso, Matteo se n’è tornato a pogare sotto il palco con tutti gli altri, sicuro di aver fatto un’esperienza da ricordare a lungo tra le cose più belle. E’ vero che il set dei Pagliacci cattivi californiani è durato il tempo di un cazzotto, ma visto che ognuno dei troppo pochi 45 minuti è stato suonato, urlato e sudato da tutti i presenti, può anche bastare.
“Clear your mind, hide your fear, Don’t look around, don’t turn around and Pennywise is here!”
Dropkick Murphys. La scenografia era eccezionale e ispirata alla copertina dell’ultimo disco fatta di lumini, brume e fumi di un tipico cimitero irlandese di periferia; sulla lapide principale era scolpito il nome del gruppo per una trovata che, oltre ad essere autoironica, era giustamente dissacrante e ricordava le celebrazioni del “terzo compleanno” del vero irlandese ossia il giorno della sua morte.
Per la tradizione dell’isola di smeraldo le lacrime del lutto e del funerale religioso devono necessariamente e in breve lasciare il posto all’allegria, alla musica e alla festa che ricordano i momenti belli che si sono condivisi con chi non c’è più e si risveglierà in paradiso.
Il concerto di Jesolo dei Dropkick Murphys è stato letteralmente una “festa del risveglio” per un loro caro amico musicista da poco scomparso del quale, a bordo palco, erano sedute in un posto d’onore la moglie e la sorella che sono state salutate calorosamente dai musicisti e dal pubblico anche con il canto a squarciagola dello struggente “You’ll Never Walk Alone”.
Gli irlandesi di Boston non si sono affatto smentiti; il loro impatto sonoro è sempre incredibile e non da un attimo di tregua, sono come una continua esplosione di gioia e di felicità, il loro serratissimo set ha lasciato tutti senza respiro, veloce e improvviso come un colpo di cannone. Nei rari momenti di “risacca” ci pensava lo scatenato pubblico ad arroventare ancor di più la temperatura al grido cadenzato di “Let’s Go Murphys, let’s Go Murphys….”
La loro deflagrazione sul palcoscenico è stata introdotta a palco vuoto da una nenia irlandese (Foggy Dew) cantata dalla splendida voce di Sinead O’Connor; luci, fumi e proiezioni garantivano l’evocazione di un’atmosfera nostalgica e sognante.
E’ stata la stazione di partenza di una corsa sfrenata di un’ora e tre quarti di una locomotiva lanciata a tutta forza, dritta come una freccia sui binari del divertimento per la gioia incontenibile del pubblico.
Nel primo brano, proiezione di un mare agitato e atlantico diceva di un viaggio avventuroso e pericoloso appena cominciato ricordando simbolicamente i tanti irlandesi che nei secoli hanno dovuto abbandonare a milioni la loro isola di smeraldo per raggiungere il nuovo mondo.
Per dirla tutta, sembravano una nave pirata nel mare agitato dell’avventura con il capo della banda che incitava con decisione la propria ciurma di pendagli da forca a combattere “The only good fight” la guerra giusta contro il fascismo; i D.M., in questo senso, sono sempre stati dalla parte giusta della classe lavoratrice, degli operai e dei ragazzi delle strade che si guadagnano il pane con la forza delle loro mani e con il sudore della fronte, spesso costretti alla povertà e al sacrificio di se dal vero nemico del popolo che è il Capitale e chi lo serve.
Sono cose che di questi tempi, fanno bene al cuore, così come fa bene alle budella e a tutto il resto dalla punta dei capelli a quella degli anfibi, la splendida musica che esplode dagli amplificatori e fa pogare alla grande gli scalmanati giovinastri sotto al palco tra spruzzi di birra, persone che surfano sopra la folla, ragazze sulle spalle dei loro “manzi” e braccia che si tendono verso il palco, battimani e un cantare a squarciagola. Una vera “festa dei folli” di quelli che però pur scatenandosi “a bestia” conservano le essenziali funzioni cerebrali.
L’esempio lampante in un piccolo, significativo aneddoto risalente ad un concerto newyorkese della band di qualche anno fa (Terminal 5, Midtown Manhattan, 13/03/2013). Come si può vedere anche su You Tube, a fine concerto molti spettatori erano sul palco a cantare e saltare con la band; tra i tanti felici un unico idiota con il cranio rasato in prima fila, aveva cominciato a fare il saluto romano a braccio teso. Ken Casey, cantante e bassista tra i fondatori della band, non ci aveva pensato un attimo a ricorrere alle vie di fatto malmenando il decerebrato. Nel silenzio che si era fatto in sala, Casey aveva poi gridato al microfono: “Nazis are not fucking welcome at Dropkick Murphys Shows!”. Sante parole salutate da una clamorosa ovazione che si è ripetuta anche al concerto di Jesolo quando lo stesso Ken Casey ha ribadito al proprio pubblico i medesimi concetti.
A caratterizzare il sound dei D.M. soprattutto la perfetta fusione tra la tradizione musicale irlandese con quella più esplosiva e graffiante del Folk Punk più arrabbiato e abrasivo nel quale il suono degli strumenti tradizionali come le cornamuse, la fisarmonica, il Banjo, il Pennywhistle si amalgama perfettamente con l’irruenza delle chitarre elettriche veloci e distorte e con il devastante tappeto ritmico a rombo di tuono per robuste staffilate di energia di autentico Rock’n’roll.
Tra le tante meraviglie dell’esibizione è stato davvero raro e prezioso vedere il loro fisarmonicista fare headbanging come un pazzo Blackster del True Norvegian Black Metal, si garantisce che fa un certo effetto.
Non ci resta che gridare felici con tutto il fiato che abbiamo in gola, ancora e ancora “Let’s Go Murphys, let’s Go Murphys….”
© Flaviano Bosco – instArt 2023