Straordinaria messa in scena dell’opera più cupa e scura del Maestro di Busseto che si è avvalsa della regia materica e notturna di Henning Brockhaus con le scene cimiteriali, disanimate ed efficacissime di Josef Svoboda.

L’interpretazione che si è voluta dare del dramma è stata la stretta, claustrofobica prospettiva della follia di Macbeth; l’impressione generale è stata quella di spiare la degenerazione della psiche del tragico sovrano, tutti gli altri personaggi sono sembrati dei fantasmi di grana grossa anche grazie ai costumi rigorosi e marziali di Nanà Cecchi. La resa scenografica e drammaturgica è stata quella del manifestarsi di un mondo di anime morte. Tutti elementi che hanno contribuito alla piena riuscita di uno spettacolo raro per intensità e toni.

La scenografia sinistra e lugubre era fatta di elementi essenziali e scabri, ma di grandissima efficacia. Enormi teloni costituivano le quinte sulle quali avvenivano delle proiezioni che li facevano diventare un’imponente oscura foresta, le possenti mura di una possente fortezza, un enorme cascata di sangue, un ossario con teschi accatastati.

Tutto aveva un’aria disanimata e catacombale tanto che per sottolinearlo i personaggi indossavano tutti un’orribile maschera oppure avevano il viso terreo di cerone che li faceva sembrare dei teschi, ombre cadaveriche di non morti che ripetevano meccanicamente il loro eterno, inutile soffrire sul palcoscenico.

L’insieme di tutte queste soluzioni possono essere sembrate eccessive per soggetti e dimensioni, tanto da assomigliare all’ambientazione estrema di un concerto Black Metal, “corpse paint” compreso, ma basta approfondire la storia e i significati dell’opera da cui Verdi trasse la sua ispirazione, per comprendere che non sono state per nulla fuori luogo.

Secondo una superstizione molto diffusa nell’ambiente teatrale, addirittura da secoli il Macbeth di Shakespeare porta sfortuna ed è gravato da una spiacevole serie di maledizioni fin dal suo debutto. Per quanto sembri assurdo, si dice che il giorno della prima, l’attore protagonista morì improvvisamente prima di salire sul palcoscenico e fu sostituito dallo stesso Shakespeare.

In teatro non si dovrebbe mai pronunciare quel nome e, se costretti dalle circostanze, evocarlo con la perifrasi: “The Scottish Play”. Malissimo poi porterebbero i versi con i quali le streghe recitano i loro incantesimi, si dice che il poeta li avrebbe rubati dal sortilegio di vere fattucchiere che l’avrebbero maledetto per vendetta.

Il Macbeth vide la luce del palcoscenico nel 1603 come omaggio a Giacomo I per lo scampato pericolo nella fallita celeberrima “Congiura delle polveri”, quando i cattolici avevano cercato di far saltare in aria il re, appena succeduto a Elisabetta I con tutta la Camera dei Lords.

Neanche a farlo apposta Giacomo I era fortemente superstizioso e ossessionato soprattutto dalla figura delle streghe tanto da dedicare loro un trattato “Daemonologie” (1597) che è una lettura spassosissima anche oggi. Sinistramente celebre anche il cosiddetto processo alle streghe di North Berwick che causò alcune condanne a morte e una vera e propria “caccia alle streghe” con l’accusa di aver scatenato una tempesta nel tentativo di far naufragare la nave del re e della sua consorte.

Nel Macbeth per noi non sono così evidenti i riferimenti a tutte queste incresciose vicende che, al contrario, i contemporanei coglievano immediatamente come un sotto-testo straordinariamente significativo.

Nella finzione del dramma Giacomo I sarebbe discendente del buon Banquo assassinato e la scena con il delirio di Macbeth che vede il susseguirsi dei re nel tempo era dedicata proprio a lui e alla sua corte.

Nell’orizzonte della poetica shakespeariana, la vicenda di Macbeth sembra essere lo sviluppo più terribile dell’incubo funesto paventato nel famoso monologo del principe di Danimarca. Nel dramma scozzese, ad essere di assoluta centralità non è solo il tema della brama di potere, ma quelli del coltello e del sangue, del sovrannaturale, della vendetta, del tradimento degli amici, del destino dei padri e della progenie e ancora altri già prefigurati in Amleto e in molte delle tragedie principali (Re Lear, Otello, compresi i drammi storici). Tra questi ultimi non è di minore importanza quello del sonno che di solito viene ritenuto non essenziale o eccentrico e che, invece, soprattutto nell’accostamento con l’opera verdiana, diventa centrale e fecondo.

Amleto dice: “Morire…dormire…dormire! Forse sognare…; ah, ecco il punto; perché quali sogni possono sopravvenire in quel sonno di morte, allorché reciso abbiamo il filo di questo mondo? Ecco quello che ci trattiene, ed è ciò che rende l’infortunio si lungo”.

Macbeth non può dormire, la sua è una terribile veglia, gli è negato ciò che rende la vita degna, i suoi atti e i desideri della sua lady lo confinano oltre l’umano in una dimensione torbida di inganni, menzogne e tormenti dove si gioca sulla nostra natura più intima.

“”Non dormirai più! Macbeth scanna il sonno, il sonno innocente, il sonno che dipana la matassa imbrogliata dell’ansia, la morte d’ogni giorno di vita, il bagno dell’amara fatica, il balsamo degli animi feriti, la seconda portata della grande natura, il nutrimento primo nella festa della vita”. (Atto II scena II)

Una strega lo aveva già condannato fin dall’inizio in questo senso: “Lo seccherò come fieno: né notte né giorno il sonno verrà sulle ciglia spioventi. Vivrà come un uomo dannato”.

Il principe scozzese vuole trascendere il proprio destino che lo condanna, ma non c’è vita e non c’è speranza nel mondo degli uomini ma sola sorda crudeltà. Non è possibile alcuna redenzione e il fato dei padri ricade su quello dei figli.

Nella tragedia Fleanzio il piccolo figlio di Banquo che si salva per puro caso dall’attentato al padre non è più fortunato dei figli-pulcini di McDuff, trucidati con la loro chioccia o di quelli del re Duncan che radunano l’esercito e abbattono il tiranno. Il destino delle moire incombe anche su di loro e su tutte le generazioni degli uomini che sono condannati a ripetere i loro crimini di sangue.

“La vita è un racconto narrato da un idiota, pieno di strepito e di furore senza alcun significato”, chi parla non è solo Macbeth nel momento della sua massima disperazione, alla sua voce si sovrappone quella dello stesso poeta che aveva anche detto che “noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo d’un sogno è raccolta la nostra breve vita (La tempesta, Atto IV, scena I)

Con Macbeth comprendiamo che non si tratta per nulla di un sogno, ma di una larva, un orribile incubo che, anche se apriamo gli occhi credendo di essere svegli, continua a tormentarci anche nella veglia. La scena del sonnambulismo di Lady Macbeth è straordinariamente significativa in questo senso: lei può dormire, ma è perseguitata, in modo orrendo, dalle proprie visioni fino a morirne.

In questo tetro nulla, la tragicità di Macbeth sta nel fatto di essere condannato in un limbo tra la vita e la morte subendo il peggio di entrambe le situazioni.

Verdi, nonostante alcune calunnie, conosceva molto bene Shakespeare e seppe mettere in musica questo complicato, tenebroso universo, naturalmente senza alcun plagio, ma entrando in feconda sinergia con il poeta inglese.

“Può darsi che io non abbia reso bene il Macbeth, ma che io non conosco, che io non capisco e non sento Shakespeare (sic!) no per Dio, no. E’ un poeta di mia predilezione, che ho avuto fra le mani dalla mia prima gioventù e che leggo e rileggo continuamente.”

II rapporto fra Verdi e Shakespeare fu davvero fecondo e per alcuni interpreti è possibile leggere attraverso questa affascinante prospettiva. Verdi comprese a fondo le riflessioni esistenziali del Bardo e non si limitò a metterne in musica i versi, ma in un certo senso li rese espliciti in un tempo nel quale erano le tematiche romantiche a farla ancora da padrone nella lettura di Shakespeare, a dominare era la nascente “estetica del brutto” che genererà il Naturalismo francese con tutte le sue derivazioni (Realismo, Verismo ecc.).

Ma c’è qualcosa di molto più profondo che Verdi mette in luce ed è il nichilismo, il sentimento d’orrore e di vuoto verso l’intima essenza della natura umana che è il Nulla, ben consapevole che l’argomento della perversione del potere degenerato è solo la superficie del dramma shakespeariano.

Nessuna redenzione è possibile agli eroi tragici del Bardo, se non la propria consunzione e il proprio sacrificio e la crudeltà verso di se e verso gli altri è l’unica via possibile all’espressione della propria impotenza.

La medesima cosa possiamo dire degli eroi verdiani a partire proprio da Macbeth che segna l’inizio della fase più “adulta” della produzione del maestro di Busseto fino ad allora ancora impastoiata alle regole del Melodramma più tradizionale.

All’adesione del Maestro ai canoni veristi viene spesso ascritta la sua precisa volontà di affidare la parte dei protagonisti per il suo dramma “scozzese” a cantanti dalle caratteristiche poco usuali e come si direbbe oggi del tutto in controtendenza. La sua Lady Macbeth la voleva “brutta e cattiva” con una voce aspra, soffocata, cupa che avesse del diabolico”, sul palcoscenico non doveva minimamente apparire aggraziata ma strisciare quasi fosse una strana inquietante presenza.

Silvia della Benetta, la Lady Macbeth del Verdi di Trieste non ha proprio nulla di luciferino ed è tutt’altro che “brutta”, gli effetti “sgraziati” della sua vocalità sono fin troppo studiati e ad effetto, tanto da perdere a volte di naturalezza e drammaticità.

Allo stesso modo per Verdi, il protagonista maschile non doveva suscitare alcuna gradevolezza o pietà e questo al baritono della replica triestina, Giovanni Meoni è riuscito benissimo anche se involontariamente grazie o a causa di un’interpretazione spesso opaca e poco coinvolgente da far sembrare il suo Macbeth travolto e sepolto da tutto quello che gli accade attorno.

Con tutte le cautele del caso, si potrebbe dire la stessa cosa per ogni eroe tragico verdiano che emerge sulla scena sempre in chiaroscuro, mai del tutto vittima e mai del tutto carnefice se non di se stesso. E’ artefice solamente della propria rovina, l’antagonista e gli altri personaggi non sono mai peggiori di lui ma sono semplicemente più disperati oppure più cinici e consapevoli della propria crudeltà.

“Eppur la vita sento nelle mie fibre inaridita! Pietà, rispetto, amore, conforto ai dì cadenti, non spargeran d’un fiore, la tua canuta età. Ne sul tuo regio sasso sperar soavi accenti: sol la bestemmia, ahi lasso! La nenia tua sarà!”

© Flaviano Bosco – instArt 2023