Il 6 ottobre 1952 debuttava a Nottingham “Trappola per topi”, commedia di genere poliziesco che Agatha Christie aveva tratto dal proprio racconto “Tre topolini ciechi”. Benché non fosse la prima trasposizione teatrale della regina del giallo, si distinse immediatamente per l’incredibile successo di pubblico: in nemmeno sei settimane ottenne un grande palco a Londra, l’Ambassadors Theatre, e da allora viene rappresentata ininterrottamente non solo sui palchi inglesi ma di tutto il mondo.

Tra le cause di questo successo ci sono certamente lunghezza e complessità delle vicende narrate: come qualunque appassionato di “gialli” saprà i romanzi della Christie sono macchine perfettamente tarate, orologi i cui ingranaggi collimano al millimetro e che può quindi essere difficile ridurre a testo teatrale senza rischiare di perderne efficacia e credibilità. “Tre topolini ciechi”, nato come racconto e non come romanzo, si rivela quindi ideale: entra nel filone delle “persone bloccate in un luogo e uno di loro è un assassino” (non richiedendo quindi troppi cambi di scena), non è molto lungo e non possiede la complessità di vicende di fratelli maggiori come il celeberrimo “Dieci piccoli indiani”. Riesce quindi a trasportare intatto sul palco lo spirito dell’opera originale.

In quasi settant’anni si sono cimentate con questo testo molte e diverse produzioni; che, non potendo disarticolare nessuno degli ingranaggi dell’orologio, hanno cercato di dare un’impronta personale all’opera lavorando sui gradi di variabilità concessi: il mood generale dello spettacolo (virandolo più verso il drammatico o più verso la commedia) e la caratterizzazione dei personaggi. Qui, infatti, nel corso degli anni si è visto un po’ di tutto: dai personaggi più “rigidi” a quelli più macchiettistici; da quelli più aderenti agli stereotipi inglesi spesso raccontati dalla Christie (ad esempio “Trappola per topi” condivide con “Dieci piccoli indiani” la presenza di un anziano militare in pensione, un giudice, o ancora un giovanotto strano e scapestrato) a quelli che cercano di scardinarli.

In questo ventaglio di interpretazioni, come si pone quella diretta da Giorgio Gallione che ha toccato anche Trieste, sul palco del Politeama Rossetti? Già la scelta di Lodo Guenzi come protagonista aveva fatto pensare ad un tentativo di rottura con il passato e della ricerca di una propria identità: il cantante e musicista con Lo Stato Sociale -e solo recentemente anche attore sia cinematografico che teatrale- è infatti una promessa di imprevedibilità più che del rigore molto “british” che ci si potrebbe aspettare, in un’ambivalenza tra metodo e follia.

Una volta tanto, le impressioni iniziali si sono rivelate piuttosto corrette: la “Trappola per topi” di Gallione è scoppiettante, sia visivamente (delizioso l’intero impianto scenografico, variopinto e molto attento anche ai particolari) che come interpretazioni: tutti i personaggi tendono infatti all’esagerazione dei propri tratti caratteristici più maniacali, senza però mai scadere nel ridicolo o nel macchiettistico. E questo vale sia per quelli che già originariamente erano più bizzarri (Christopher Wren, il signor Paravicini) che per quelli solitamente più tradizionali e garbati (il maggiore Metcalf su tutti). Come lo stesso Gallione ha dichiarato, “…i personaggi nascono ovviamente nella loro epoca ma sono vivi e rappresentabili oggi, perché i conflitti, le ferite esistenziali, i segreti che ognuno di loro esplicita o nasconde sono quelli dell’uomo contemporaneo, dell’io diviso, …”. Sembra quasi che si siano voluti mettere in scena più questi conflitti e queste ferite esistenziali che i personaggi in sé, e la cosa ha certamente un senso se pensiamo che nel mondo d’oggi parlare di traumi, ferite e dolori che ci portiamo dentro è certamente più comune rispetto ai tempi di Agatha Christie.

Ottimo quindi lo spunto, buona la riuscita e piacevole la messa in scena, complice anche una compagnia di livello davvero elevato, in cui è palese in ogni momento l’impegno profuso per bilanciare la credibilità del proprio personaggio con le gag di cui si sarebbe reso protagonista. Risulta quindi molto facile affezionarsi in particolare al Wren di Stefano Annoni e al Paravicini di Tommaso Cardarelli, certamente i due più istrionici; ma vanno apprezzati in ugual misura tutti gli altri, forse meno “appariscenti” ma altrettanto importanti in quell’ottima di bilanciamento tra “metodo e follia”.

È tutto ora quel che luccica, quindi? Purtroppo no, e abbiamo lasciato i dubbi alla fine perché ci obbligano a fare un enorme rivelazione sul finale dell’opera.

ATTENZIONE: SPOILERS! VERRANNO RIVELATI DETTAGLI FONDAMENTALI SULLA TRAMA E SUL FINALE DELL’OPERA, CONSIGLIAMO QUINDI A CHIUNQUE NON ABBIA ANCORA VISTO LO SPETTACOLO DI NON PROSEGUIRE NELLA LETTURA.

Il sunto perfetto del binomio “metodo e follia” è proprio Lodo Guenzi e il suo sergente Trotter. Dimenticatevi il Trotter stereotipo del poliziotto visto in altri adattamenti: qui il sergente mostra i segni (anche piuttosto evidenti) del suo squilibrio quasi dall’inizio, e comunque molto prima della scena del confronto con la signorina Casewell (quella in cui solitamente si strizza l’occhio allo spettatore per fargli intuire chi sia il colpevole, che verrà comunque rivelato nella scena successiva). Se da un lato questo è un modo per mostrare le doti interpretative di Guenzi, dall’altro lascia perplessi perché da tanti -troppi- indizi sulla reale identità di Trotter, e troppo presto, facendo perdere parte del mordente che tiene lo spettatore incollato alla sedia nell’arrovellarsi su chi possa essere l’assassino. Forse è semplicemente l’ennesimo modo per staccarsi dal passato e dalle scritture più canoniche, o forse si è voluta abbassare la tensione del colpo di scena per far concentrare meglio il pubblico sui drammi dei singoli personaggi. Forse. Ma forse quello della tensione fino all’ultimo momento, della rivelazione finale di un colpevole che nessuno si sarebbe nemmeno immaginato fino a qualche secondo prima è uno degli ingranaggi del genere giallo -sia esso a declinazione drammatica o da commedia- che non andrebbero toccati, perché rischiano di rovinare l’intero orologio.

Luca Valenta /©Instart