Una meravigliosa poesia di Emily Dickinson recita:

“A tutti è dovuto il mattino, ad alcuni la notte. A solo pochi eletti la luce dell’Aurora”.

Il Marko Čepak group è stato protagonista di un’intensa esibizione all’auditorium della parrocchia del Gesù buon pastore, in via Riccardo Di Giusto a Udine, un luogo anche simbolicamente, importantissimo di incontro di culture, testimone e protagonista di un scambio fecondo, anche se a volte complicato, multireligioso, multietnico tra vecchi e nuovi italiani.

La band di per se è l’esempio che i confini e le frontiere esistono solo sulle carte geografiche: il friulano Simone Serafini (Contrabbasso) incrocia le proprie vibrazioni con i ritmi di Borko Rupena (batteria) croato di Zagabria; insieme si armonizzano con le suggestioni del leader, Marko Čepak chitarrista sloveno di rara eleganza e cristallina chiarezza di tocco, tanto quanto il super ospite americano John Stowell chitarrista dell’Oregon. Un altro mondo è davvero possibile e la musica ce lo insegna.

Con il patrocinio e il concreto sostegno del progetto Estensioni Jazz club diffuso dell’ass. Slou e di Time for Africa onlus, l’evento è stato concepito e voluto non solo come momento ludico e di intrattenimento piacevole, ma come gesto, anche provocatorio, rispetto a chi non crede che le periferie e i cosiddetti “ghetti” non meritino la cultura dei buoni salotti del centro ma solo maggiore repressione e controllo.

Il solito metodo: “Sorvegliare e punire” non ha mai risolto niente, anzi è sempre servito scientemente ad incancrenire i problemi facendo si che il potere potesse continuare ad utilizzarli strumentalmente per la propria propaganda o come alibi per schiacciare con la repressione ogni eventuale forma di protesta. Il recente decreto nazionale “Anti-rave” con la scusa di dare una regolata a una piccola minoranza di innocui scalmanati, impedirà di fatto a tutti di ritrovarsi in più di 50 con la radio accesa.

La precisa volontà di associazioni come quelle citate è di cercare di scardinare il pregiudizio con le armi della pace, della condivisione e della musica, nella convinzione che la diffusione della cultura nel territorio attraverso le note possa davvero creare le condizioni ideali perché le persone ricomincino a guardarsi negli occhi, a incontrarsi e magari a sorridersi. In ogni caso, sempre meglio l’utopia delle chitarre e dei contrabbassi che quella dei manganelli e dei lacrimogeni.

Il quartiere Aurora a Udine viene considerato da molti come un ghetto ai margini estremi della città ed è proprio così che è stato concepito con i suoi palazzoni, i suoi spazi enormi e i suoi viali adatti alle “cariche d’alleggerimento” della polizia. La politica urbanistica dell’emarginazione è storia vecchia nel nostro sciagurato paese e Udine non fa di certo caso a se.

Nel corso dei decenni si sono svuotati i centri storici costruendo orrende periferie satellite nelle quali deportare i “vecchi” cittadini meno abbienti ora rimpiazzati dai migranti; la nuova borghesia che ne ha preso il posto ristrutturando gli edifici storici non voleva e non vuole alcuna promiscuità con persone che considerano tecnicamente e socialmente inferiori.

Il risultato è stato lussuosissimi centri disabitati, disanimati e deserti e periferie brulicanti e spesso pericolosamente invivibili. Sono di questi giorni le assurde, polemiche sul centro e la periferia di Udine che hanno portato alla militarizzazione di un intero quartiere con il solo risultato di spostare le residuali sacche di criminalità in quelli limitrofi.

Reprimere i reati è assolutamente necessario, ma risolvere i problemi alla radice in modo efficace e democratico, garantendo uguali diritti e condizioni di vita dignitose a tutti, lo è ancora di più.

Nella nostra regione, in queste prime notti fredde di una stagione caldissima, sotto tutti i punti di vista, ci sono persone in stato di estrema necessità che sono costrette a dormire all’addiaccio senza alcuna assistenza se non quella di privati cittadini e volontari, perché il nostro sistema di accoglienza è tutto concentrato negli inutili respingimenti, nella costruzione di gabbie per animali, nella criminalizzazione e nell’aberrazione degli “sbarchi selettivi”.

Negli anni ‘70 via Riccardo Di Giusto a Udine era la zona più malfamata della città nella quale veniva abbandonata, ben prima dell’arrivo dei migranti, un’umanità sofferente e ritenuta marginale fatta di in qualche caso di povertà, tossicodipendenza, piccola criminalità. Era una di quelle che Pasolini avrebbe riconosciuto come “borgata” proprio come quelle di Roma certo su tutt’altra scala.

Don Giuseppe Marano prete musicista di “Christian Music” dalla straordinaria energia e umanità, attivo sui social e presente sulle principali piattaforme con il suo ultimo lavoro discografico “Animami l’anima”, tutte queste cose le conosce e le vive da anni nella sua parrocchia che è un’autentica sorgente di luce in un quartiere che qualcuno vorrebbe lasciare nelle tenebre dell’abbandono e dell’isolamento.

E’ un tempo stranissimo – dice – quello che ci troviamo a vivere, un tempo “fuori di sesto” (Time out of joint) nel quale la gente in certi luoghi, non esce di casa nemmeno di giorno talmente è spaventata soprattutto dal terroristico, continuo bombardamento mediatico.

Per Don Beppe esiste una spiritualità nella musica che va al di là delle confessioni religiose e che, a volte meglio di una “predica” ci permette di elevarci dall’umano all’eterno utilizzando le scale del pentagramma. Come dice lui, un certo tipo di musica non si suona per soldi ma per amore, e “Omnia vincit amor”.

Sono stati però anche i musicisti a rendere possibile quella magia della quale si cercherà di descrivere ora alcune suggestioni.

Stowell armonizzava sulla tastiera della sua chitarra con passaggi di una difficoltà e complessità bizantine con una naturalezza incredibile. Imbracciava una chitarra davvero particolare e insolita, modello: Dragonfly Electric SoloEtte Travel Guitar di fattura artigianale e dalle linee severissime, è ridotta all’essenziale di corde tese su di una tastiera e i pick up per l’amplificazione con un suono davvero unico.

Fronteggiava amichevolmente lo stile, opposto e complementare, di Čepack più classico nell’impostazione, ma dal virtuosismo altrettanto raffinato.

La solidissima ritmica sulla quale riponevano la loro fiducia i due straordinari chitarristi non è stata meno preziosa ed era garantita da due musicisti di grandissimo talento e spessore anche dal punto di vista umano come Serafini e Rupena. Quest’ultima, può sembrare una considerazione estemporanea ma come ha detto don Beppe durante la presentazione, si suona per amore.

A distinguere questo gruppo di autentici artisti oltre all’indubbio talento sono, infatti, anche le qualità d’empatia e lo spirito di fratellanza che li spinge a cercare attraverso la musica non di glorificare se stessi e il proprio narcisismo ma d’incontrare l’Altro per creare un’unità che vibra e risuona nella condivisione e nello spirito di fratellanza.

In questo senso, la musica è da intendersi come una sorta di terapia, strumento di elevazione spirituale, come dicevamo, che attraverso il piacere dell’esecuzione e dell’ascolto ci guida verso dimensioni spirituali più elevate delle nostre miserie quotidiane nelle quali poter almeno immaginare di essere migliori.

I brani del del concerto, un buon numero dei quali tratti dalla più recente incisione del gruppo (Ghost in the Corner, 2019) viaggiavano sul filo dei pensieri e nel ricordo di qualcosa che non c’è più, “una voce poco fa”, ma anche proiettandosi in avanti verso qualcosa che non c’è ancora.

Elegante come una danza in scarpe di vernice, il jazz sa ingannarti e illuderti con mille promesse, continuando ad avere facile presa e sicuro fascino sulle nostre illusioni fino a sembrare quasi la felicità, ma senza mai esserlo fino in fondo, ricordandosi sempre di avere un piede ben piantato nelle radici blues e l’altro nel futuro.

In alcuni momenti, hanno lasciato senza fiato gli assolo di Serafini in grandissima sintonia con il batterista con il quale scambiava occhiate compiaciute e complici. Anche Rupena ha dimostrato capacità del tutto originali con grande attenzione ai suoni particolari e ricercati e ad effetti poliritmici dal fascino setoso e brillante con un lavoro di piatti di rara ricercatezza che sembrano rimandare e fare da controcanto a quello armonico dei chitarristi.

Čepak suonava a plettro, mentre Stowell arpeggiava con le cinque dita come su un’antica cetra cui regalava una profonda e straniante “vocalità”. Per quanto riguarda il batterista è davvero difficile essere elegante nel gioco di piatti e grancassa. Borko sa usare sapientemente di questi ultimi fidandosi molto di più però del rullante e del timpano senza mai strafare e senza eccessiva irruenza.

Stowell si fa notare off-stage anche per la sua estrema cortesia che rasenta la timida ritrosia e poi per una bizzarra eleganza da “English man in New York”.

La sera del concerto vestiva in giacca stazzonata di spinato siberiano, dolcevita e pantaloni di fustagno, ai piedi calzini “buonumore” stampati con immagini di bottiglie di birra dai vivaci colori in mocassini decorati con frange, abbracciava completamente la sua chitarra quasi a volerla contenere facendola diventare parte di se in un intimo abbraccio.

E’ vero, sono decisamente pettegolezzi ma anche l’estrosità eccentrica e la stravaganza fanno parte del personaggio del musicista e non guastano se sono unite, come in questo caso, ad un talento stellare.

In scaletta c’è stato anche “Unity village” di Pat Metheney un vecchio brano che scrisse quando aveva 21 anni, Čepak ha sfoderato un suono brillante e luminoso, mentre è rimasto sempre ambrato e morbido quello di Stowell fino a diventare astratto e meditativo.

Il Maestro Serafini era decisamente in forma smagliante e continuava tessere la sua tela ritmica con la sua tecnica sopraffina che ha il grande pregio di non essere mai troppo legata a stereotipi musicali di sorta, attingendo a tutto senza farsi fagocitare e trovando sempre una strada verso un suono personale. Il contrabbassista friulano sa essere virtuosistico ma possiede anche una profonda vena melodica che gli permette di far cantare il suo strumento sulle note gravi con una voce estremamente calda, confidenziale e amichevole.

Per la buona riuscita del concerto un plauso va al responsabile dei suoni l’ineffabile Mimmo Domenico Dragotti con la collaborazione della splendida Rita Inghisciano “ubiqua ai casi”.

Molto sentita l’esecuzione di “Fiera Livre” del flautista brasiliano Jovino Santos Neto, un vero e proprio carnevale nei suoni con Stowell che s’inerpicava sui ripidi sentieri della Bossa Nova mentre era incalzato e sostenuto dai ritmi forsennati della band lanciata a velocità spericolata con l’incedere della ritmica molto sostenuto fino allo spasimo per una divertente, solare torcida.

Inutile dire che la musica brasiliana ha un fascino inimitabile. In sostanza, nel quartetto nessuno primeggia davvero e nessuno segue pedissequamente l’altro ma vicendevolmente da autentici gentelmen del jazz si tirano la volata, si aspettano, in un equilibrio reciproco sempre miracoloso, divertente e veloce.

A fine concerto, “Se volete un bis è meglio chiederlo” ha detto Serafini scherzosamente rivolgendosi al pubblico che non se l’è fatto dire due volte così come i musicisti non si sono fatti pregare a lungo intonando all’impronta la celeberrima “Fotografia” di Antonio Carlos Jobim, dall’atmosfera calda e accogliente. Il batterista con le canoniche fruste è stato morbido e romantico fino a spegnere l’incanto in uno splendido tramonto che ha saputo trasformare tutte quelle sensazioni appena trascorse in un languido ricordo.

Ed è stato allora ancora più chiaro che:

“Morning is due to all, to some the Night. To an imperial few the Auroral light”.

© Flaviano Bosco – instArt 2022