Erasmus a Kiev” è il terzo lavoro discografico di uno degli ensemble più estrosi, bizzarri e geniali dell’orizzonte musicale italiano degli ultimi anni.

Anche quest’ultimo loro disco colpisce come un pugno in faccia, senza fare sconti a nessuno, urla tutta l’urgenza di essere rabbiosi in una realtà anestetizzata e sedata in cui ognuno sembra essere sempre alle prese solamente con il proprio rigurgito di ruminante instradato verso la via crucis del macello comunale.

Ne “L’angelo sterminatore” Luis Buñuel rappresentava la società borghese a lui contemporanea di sicuro non peggiore della nostra come un gregge di pecore incapaci di qualunque decisione. Nella “Fattoria degli animali” di Orwell le pecore finivano in pasto ai maiali “perché alcuni animali sono più uguali degli altri”. Nel 1970 i Black Sabbath vomitavano tutto il loro disgusto per i “War pigs” che iniziano la guerra ma la lasciano fare ai morti di fame. Quarantacinque anni fa i Pink Floyd di Roger Waters in “Animals” cantavano degli uomini-pecora sgozzati e appesi ai ganci del macello “Pigs Rule the World, Fuck the Pigs”.

Gli Autostoppisti avevano già elaborato questo concetto nel loro primo seminale “Sovrapposizione di Antropologia e Zootecnia” a partire dalle considerazioni di Bruce Chatwin ne “Le vie dei canti”. Il grido era continuato con “Pasolini e la peste” dedicato al cadavere imbalsamato nel quale è stato trasformato il più grande poeta italiano dell’ultimo secolo.

Anarchici, eretici e spigolosi, oggi non sembrano nemmeno più tanto eclettici, la nostra condizione sociale e geopolitica è talmente degenerata da quando è uscito il loro primo abrasivo lavoro che le loro invettive oggi sembrano le uniche parole sensate rimaste nel continuo vociare di pusillanimi e di prostitute mediatiche. Loro che sono solo un pugno di musicisti senza grandi parti in commedia sono tra i pochi ad aver conservato il coraggio di essere padroni di niente e servi di nessuno.

I cosiddetti artisti trasgressivi si limitano a sculettare a comando e a favore di telecamera per poi inginocchiarsi a leccare la suola delle scarpe dell’assessore di turno o del promoter di giro. Come dicevano i Velvet Underground “Shiny, shiny, shiny boots of leather”; gli stivali di pelle e il manganello stanno per tornare potentemente di moda ma gli Autostoppisti non leccano, semmai sputano contro un potere subdolo e vigliacco che ci corrompe con il luccicare dei prodotti in bella mostra sullo scaffale dei supermercati, lasciandoci grufolare nel truogolo delle nostre miserie per poi macellarci al momento opportuno quando ci vede grassi e lucidi da non poterci più muovere.

Non porta da nessuna parte il magico sentiero anche se va ovunque, esplode in tutte le direzioni ma non arriva mai in nessun luogo preciso. Chi lo percorre lo sa bene “che la dritta via è smarrita” e così deve essere senza aver nessun desiderio mai di ritrovarla, anzi chi vi s’incammina vuole continuare a perdersi in un eterno vagabondare.

Erasmus a Kiev”, fin dalla copertina, con una splendida ironica foto di Fabio Gon e poi con quelle altrettanto indovinate del libretto di Luca A. d’Agostino, può essere considerato come un’autentica opera dadaista, non certo nel significato volgare di questo termine del quale si ammantano molto spesso schiere di ciarlatani e arruffoni d’ogni risma. Il gesto dada è insensato solamente agli occhi degli squallidi borghesi che considerano l’arte al più come un ornamento o una bizzarria da vendere e comprare come un qualunque soprammobile. Provate a mettere un bel pisciatoio sul tavolo buono della cucina o a far sedere gli invitati a cena su tante tazze del water funzionanti.

Così un poeta come Franco Polentarutti con il colbacco in testa che spinge un carrello da supermercato con due bombole di gas in un ambiente tutt’altro che glamour riassume in modo satirico la grottesca, paradossale situazione nella quale ci troviamo come i “giocondi maiali” dello Zarathustra di Nietzsche.

Tanto per prender le misure, ecco una sua incisa salmodia dal titolo: “Polente against the Machine part.2”

Queste giungle di opinioni sparse e dovute

sacrificate sull’altare della diceria

cospargono la guarigione

con batteri di traguardo.

Le giungle fioriscono

come infami cieli blu

rinchiusi in un gelato

arto amputato.

Lo scandalo Dada non è mai stato solo fine a se stesso per “epater la burgoisie”, sconvolgere i benpensanti, anche se così è stato spesso ridicolizzato. I dada erano soprattutto disertori, traditori, transfughi, apolidi, apostati e gran bestemmiatori contro tutte le religioni che benedivano i cannoni delle guerre dei padroni ma anche renitenti alle stragi delle dittature del proletariato; considerati vigliacchi dagli interventisti, dagli arditi e dagli irredentisti ma anche dai rivoluzionari assetati di sangue, erano coraggiosi eroi della pace che preferivano ridere del potere fuggendo alle sue seduzioni piuttosto che venire a compromessi omologandosi alla massa nella quale da sempre molti sono disposti perfino a pagare pur di farsi comprare.

Erasmo da Rotterdam è il grande filosofo passato alla storia per il suo “Elogio della follia”, un testo talmente mal letto e misconosciuto da essere diventato dichiaratamente il testo di riferimento di un importante politico italiano, famoso per le sue “cene eleganti” e non serve dire molto di più anche perché in quello come in altri casi la realtà ha superato di gran lunga qualunque delirio surrealista, nemmeno Breton stesso avrebbe mai potuto sognare un incubo così paradossale.

Nelle ficcanti note di copertina, il Magister “chierico vagante” Angelo Floramo dice giustamente: “E quando tutto sembra inevitabilmente compromesso e perduto in filigrana Erasmo canta ancora “l’Elogio della Follia” come unica via di fuga da questa necrofila razionalità alla quale il Mondo sembra essersi assoggettato”.

La vera Follia che può curare in senso erasmiano il nostro mondo marcio sembra quella di chi chiede a gran voce la Pace senza condizione nell’osceno orgasmo della guerra. Erasmo lavorò tutta la vita a moltissimi altri testi non meno importanti che vedono la Pace come protagonista, tra questi “Oratio de pace et discordia contra factiosos” (Lamento della pace scacciata e respinta da tutte le nazioni) nella quale si racconta degli impostori che governano l’Europa talmente folli da distruggere persino se stessi e il mondo intero pur di dimostrare d’avere ragione.

Naturalmente il contenuto del CD è musicalmente all’altezza di tutte queste mirabolanti, barricadere promesse. Rispetto alle altre incisioni dell’Ensemble questa appare con arrangiamenti e vere e proprie orchestrazioni molto più complesse, la furia iconoclasta di voci e strumenti è rimasta inalterata ma in generale l’opera sembra meno caotica e disordinata. Sia ben chiaro che la cacofonia e lo stile fracassone è assolutamente una virtù ma all’anarchica, selvaggia improvvisazione, si può concedere di tanto in tanto anche uno spazio più lineare altrimenti diventa mera sterile ripetizione, un rumoroso motore imballato che fa tanto chiasso ma che gira a vuoto. Gli Autostoppisti lo sanno perfettamente e non fanno mai il verso a se stessi valendosi anche di splendidi collaboratori che unendosi a loro danno vita ad una vera e propria “comune” di chiara ispirazione psichedelica che avrebbe fatto la gioia di Allen Ginsberg.

Giusto per fare qualche nome così come li troviamo nei credits: Alfio Antico, Mattia Antico, Andrea Massaria, Mirko Cisilino, Nikolas Valletta, Sandro Carta, Antonella Bukovaz, Elena Di Giusto, Edoardo Sguazzin, Matteo” Teo Ho” Bosco. La musica di ognuno di questi straordinari artisti si unisce a quella del gruppo, composto da musicisti unici di incredibile talento. Val davvero la pena di nominarli uno per uno. Primo fra tutti il chitarrista Fabrizio Citossi, mente creativa vulcanica e chitarrista dalla “mano di pietra” micidiale con i suoi riff come l’eccezionale pugile Roberto Durán; le sue sei corde sono capaci di suoni ossessivi, sporchi, rugginosi, sgangherati e sghembi ma proprio per questo straordinariamente significativi e incisivi.

Il poeta Franco Polentarutti è assolutamente impagabile nel declamare le sue acide litanie che esplodono tra un brano e l’altro. La sua voce canzonatoria e beffarda irride l’ipocrisia degli pseudo-intellettuali tromboni che si nascondono dietro le loro pance e i loro paroloni; suoi gli effetti cromatici e musicali del verso, dal timbro e dal tono strascicato che incalza, stride, “mugghia”.

Marco Tomasin con la sua tromba apre i sigilli dell’Apocalisse e il didgeridoo del geniale Martin O’Loughlin costruisce un tappeto sonoro a volte davvero disturbante, in un fantastico indefinibile suono di altri mondi.

Preziosissimi si rivelano gli intarsi elettronici di Alessandro Seravalle, artista che da decenni sperimenta e “cucina” sonore Fata Morgana e altre albe sintetiche.

Le ance di Stefano Tracanelli regalano quel tanto di atmosfera free form assolutamente indispensabile a sostenere le esplosive traiettorie balistiche del gruppo.

L’atmosfera generale del disco è sulfurea soprattutto nei ruvidi strumentali dai timbri lisergici che ricordano le forsennate improvvisazioni liturgiche dei Red Crayola o le orge sonore dei primi Amon Duul. E’ vero che il contesto è del tutto diverso ma lo spiritaccio situazionista avant-garde, tra “oscenità e furore”, è il medesimo.

The Pros and Cons of Hitch Hiking” (I pro e contro dell’autostop) è la canzone che da il titolo al primo visionario concept album di Roger Waters del 1984 dopo l’uscita dai Pink Floyd. Nei primi versi si racconta di un incontro con un luciferino motociclista su una delle strade violente della California che si avvicina ad un viaggiatore – Hells Angel: “How ya doin bro?… where ya been?… where ya goin?” (Come va fratello? Dove sei stato? Dove vai?) – per poi spezzargli tutte le ossa.

Se passate per le strade della bassa friulana state ben attenti a chi fate salire in macchina potreste avere delle sorprese. E’ un consiglio da amico.

© Flaviano Bosco – instArt 2022